Ancora in tema di assegni di natalità e maternità: la sent. 54 del 2022 della Corte costituzionale dopo il verdetto della Corte di giustizia
La nota sent. n. 269 del 2017 della Corte costituzionale ha dato vita ad un dibattito acceso tra gli studiosi; questa sentenza, come si ricorderà, affermava l’opportunità di una pronuncia erga omnes della Corte nei casi di potenziale violazione, da parte di una norma nazionale, sia della Costituzione che della Carta di Nizza-Strasburgo in ragione dell’impronta “tipicamente costituzionale” di quest’ultima. La pronuncia è parsa a diversi autori foriera di una stagione di chiusura della Consulta nei confronti del diritto europeo a trent’anni dalla sentenza Granital (sent. n. 170 del 1984); alcune sentenze successive (sentt. nn. 20 del 2019, 63 del 2019 e ord. n. 117 del 2019), tuttavia, hanno visto la Consulta ribadire l’immutata operatività del dovere di disapplicazione del diritto nazionale in contrasto con norme europee self-executing e la possibilità per il giudice comune di adire la Corte di giustizia. Queste ultime indicazioni, peraltro, sono state recentemente ribadite in una pronuncia (sent. n. 67 del 2022) di inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale in ragione della diretta applicabilità del diritto europeo rilevante e del conseguente dovere di disapplicazione della normativa nazionale in materia di assegni per il nucleo familiare per i cittadini di Paesi terzi. Si è trattato di una vicenda peculiare, attesa la scelta della Cassazione di adire la Consulta invocando non già la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), bensì i soli artt. 11 e 117 Cost., pur avendo la Corte di giustizia accertato nel corso dei giudizi a quibus l’incompatibilità della disciplina italiana con il principio di parità di trattamento espresso (sul punto, v. A. Ruggeri; S. Giubboni e N. Lazzerini). Non solo. A partire dal 2017 si è potuto riscontrare un atteggiamento particolarmente collaborativo della Consulta con la Corte di giustizia, che si è sostanziato nell’utilizzo costante del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE in settori segnati da una particolare incidenza del diritto europeo (da ultimo, cfr. ordd. nn. 216 e 217 del 2021 in materia di MAE). In alcuni casi, come si ricorderà nei casi Taricco e CONSOB, rivolgersi a Lussemburgo ha avuto lo scopo di suggerire alla Corte di giustizia una lettura del diritto europeo compatibile con le garanzie costituzionali dei diritti fondamentali; in altri, esso ha avuto l’intento di arricchire la tutela dei diritti approntata dalla Costituzione con l’ausilio della CDFUE.
È proprio quest’ultimo lo spirito della nota ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 182 del 2020 relativa alla compatibilità dei requisiti cui la normativa italiana subordina(va) la fruizione degli assegni di natalità e di maternità di base con il diritto europeo, che ha ricevuto risposta con sentenza del 2 settembre 2021 (causa C-350/20). A seguito della pronuncia di Lussemburgo, la Corte costituzionale è tornata sulla questione con la sent. n. 54 del 2022, dichiarando l’incostituzionalità delle norme che prevedevano, prima della novella di cui si dirà, la titolarità di un c.d. permesso di soggiorno UE (carta di soggiorno ex art. 9 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) per usufruire di tali assegni.
Come si ricorderà, l’ordinanza di rinvio aveva ipotizzato che la normativa italiana, escludendo dalla fruizione di dette prestazioni i titolari di permesso unico ex direttiva 2011/98/UE, fosse incompatibile con l’art. 34 CDFUE. La Corte di giustizia, riqualificando il quesito (cfr. A. Torrice), ha aderito a tale ricostruzione, riconoscendo la riconducibilità degli assegni oggetto del procedimento principale alle prestazioni familiari ai sensi del regolamento n. 883/2004, che l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE estende ai titolari di permesso unico.
È proprio a partire dalla pronuncia della Corte di giustizia che la Consulta riprende la questione con la sent. n. 54 del 2022. Come l’ordinanza di rinvio, anche questa sentenza ribadisce che alla Corte costituzionale spetta accertare, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, la sussistenza di contestuali violazioni della Costituzione e della CDFUE “nel loro vicendevole integrarsi, in un arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali” (favorevole invece alla disapplicazione in questo caso appare R. Palladino).
La Corte rammenta l’intervenuta modifica della legislazione vigente in materia per effetto del d.lgs. 29 dicembre 2021, n. 230 (adottato in attuazione della l. 1° aprile 2021, n. 46) e della legge europea 2019-2020 (l. 23 dicembre 2021, n. 238). Queste ultime hanno infatti innovato la disciplina delle provvidenze oggetto di scrutinio attraverso una rimodulazione delle condizioni per la loro fruizione, equiparando ai cittadini europei gli stranieri titolari di permesso unico ai sensi della direttiva 2011/98/UE. Tale modifica normativa ha posto rimedio alla procedura d’infrazione n. 2019_2100 avviata dalla Commissione contro l’Italia ed all’incompatibilità riscontrata dalla Corte di giustizia (cfr. sul punto il dossier del Servizio Studi del Senato sul d.d.l. A.C. 2670-B). Ciò nonostante, poiché la normativa sopravvenuta dispone esclusivamente per l’avvenire, la Consulta procede con il vaglio di costituzionalità, necessario a definire i giudizi a quibus riguardanti situazioni disciplinate dalla normativa previgente.
Ricostruito il quadro normativo e richiamata la pronuncia della Corte di giustizia, la Corte sottolinea la necessità di scrutinare la disciplina sugli assegni di natalità e maternità alla luce della “connessione inscindibile” tra le norme costituzionali in materia di eguaglianza e di tutela della maternità e dell’infanzia e le indicazioni provenienti dal diritto sovranazionale in tema di parità di trattamento dei cittadini stranieri. In ragione del “costante evolvere” dei precetti costituzionali arricchiti dal diritto europeo, pertanto, la Corte dichiara fondate le questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 31 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE. Il diritto all’assistenza sociale garantito dalla Carta, del resto, “si raccorda” con i parametri nazionali a tutela della maternità e dell’infanzia che, in armonia con il principio di eguaglianza, non ammettono discriminazioni. L’illegittimità della disciplina censurata, infatti, non emerge solo in relazione al principio di parità di trattamento come interpretato dalla Corte di giustizia, ma è evidente altresì alla luce del principio di ragionevolezza: se da un lato spetta al legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, individuare i beneficiari delle prestazioni sociali, dall’altro i requisiti fissati per la fruizione di queste ultime devono presentare una ragionevole connessione con le finalità di dette provvidenze. In tal senso, la richiesta della titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo UE non ha alcuna attinenza con la ratio sottesa all’erogazione degli assegni di natalità e maternità: tale permesso, infatti, è rilasciato esclusivamente a coloro che presentino determinati requisiti, tra i quali spiccano ai fini della declaratoria di illegittimità quelli del possesso di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e della disponibilità di un alloggio idoneo. Si tratta di due requisiti che rendono la disciplina nazionale priva di una giustificazione razionale: se l’obiettivo dei bonus bebè è quello di contribuire, per coloro che versino in uno stato di bisogno, agli oneri derivanti dalla formazione e dal mantenimento della famiglia, il requisito del possesso di un reddito minimo finisce per escludere dalla fruizione di tali provvidenze proprio le famiglie che più ne avrebbero necessità.
La vicenda in commento rappresenta la più evidente dimostrazione della progressiva integrazione tra le garanzie dei diritti fondamentali approntate dal diritto sovranazionale e le norme costituzionali nei settori oggetto di armonizzazione. Potrebbe infatti argomentarsi che la declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto di giudizio si sarebbe potuta basare sui soli parametri interni: anche ove la Corte di giustizia avesse escluso che la disciplina nazionale fosse incompatibile con la CDFUE e con la direttiva 2011/98/UE, non è da escludere che la Corte costituzionale sarebbe potuta giungere ad una pronuncia di accoglimento alla stregua dei soli artt. 3 e 31 Cost. Tuttavia, si leggeva nell’ordinanza di rinvio, nonostante il divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia siano già garantiti dalla Costituzione italiana, in un settore “segnato dall’incidenza crescente del diritto dell’Unione” occorre che gli stessi vengano interpretati anche alla luce della CDFUE “arricchita dal diritto secondario”.
Così, il rinvio pregiudiziale ha rappresentato in questa vicenda l’occasione per proseguire il cammino verso l’armonizzazione dei diritti sociali nel contesto europeo e di chiarire la portata del principio di parità di trattamento stabilito da una direttiva che ha dato luogo, nell’ordinamento italiano, ad un vasto contenzioso (si rinvia, sul punto, alle considerazioni di S. Giubboni).
La pronuncia in commento è dunque da guardare con favore sotto due punti di vista: anzitutto essa, unitamente alle modifiche normative sopra menzionate, chiude una stagione di forte incertezza nel panorama italiano sul fronte della fruizione degli assegni di natalità e maternità per i cittadini di Paesi terzi; in secondo luogo, essa si inserisce nel solco di un percorso di collaborazione tra Corte costituzionale e Corte di giustizia inaugurato dalla sent. n. 269 del 2017 volto a creare una rete europea di diritti tenendo conto delle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Non resta che attendere gli ulteriori sviluppi di questo cammino, stante l’ipotesi pure emersa in dottrina (cfr. A. Ruggeri) secondo cui potrebbe intravedersi, all’orizzonte, un ripensamento del “riaccentramento” della tutela dei diritti fondamentali garantiti sia dalla Costituzione che dalla CDFUE.