Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum

La messe copiosa di commenti venuti alla luce attorno alla pronunzia indicata nel titolo di questa nota m’induce ad alcuni ulteriori svolgimenti ed a qualche precisazione rispetto alle prime impressioni suggeritemi dalla lettura della decisione[1].
La questione cruciale è – com’è chiaro – quella del vincolo espresso dalla giurisprudenza, specificamente laddove, come qui, prenda forma attraverso un nuovo indirizzo interpretativo inaugurato dalla Cassazione a sezioni unite, sì da giustificarsene o meno l’assimilazione a quello che propriamente (e, a dire della Consulta, esclusivamente) discende dal “diritto legislativo”. Il giudice delle leggi, al riguardo, coglie la palla al balzo per far luogo ad una pronunzia “dotta”, che si dilunga in un articolato ragionamento nel corso del quale risolutamente nega che possa, in alcun caso o modo, darsi l’assimilazione suddetta. Un ragionamento – si badi – che non resta legato al caso specificamente sottoposto al suo esame ma che piuttosto rivela l’ambizione di contenere affermazioni dotate di generale valenza. La qual cosa appare invero essere sommamente rischiosa, tanto più se si considera che, portando fino ai suoi ultimi e conseguenti svolgimenti le premesse del discorso, se ne ha che esso dovrebbe valere non soltanto per altre vicende processuali di rilievo penale ma per ogni altra vicenda ancora: quasi che il giudicato possegga uno statuto invariante per i vari tipi di processo e non piuttosto – così com’è – uno peculiare per ciascuna specie di esperienza giudiziaria[2].
Questa notazione preliminare, a riguardo della quale a me sembra che non si possa non convenire, consente di rivedere sotto la giusta luce (perlomeno, quella che tale ai miei occhi appare) il caso di oggi: un caso che – tengo subito ad avvertire – non si presta ad indebite o forzate estensioni oltre l’hortus conclusus nel quale è giunto a maturazione davanti alla Consulta.
Vorrei ora soffermarmi, con la massima rapidità qui consentita, unicamente su un paio di punti, ad integrazione di quanto ho avuto modo di dire nella mia nota sopra già richiamata, svolgendo alcune notazioni a riguardo delle condizioni e del fondamento del vincolo riconducibile al mutamento di giurisprudenza, sempre che se ne predichi l’esistenza, ovverosia nel presupposto che il vincolo stesso possa esservi (non dico che sempre vi sia ma, appunto, che possa talvolta esservi).
Il primo punto.
Condizione obbligata perché si possa a buon titolo predicare l’esistenza del vincolo in parola è che esso sia – come dire? – autoriflessivo, vale a dire che, ancora prima che verso gli altri giudici, valga per lo stesso giudice da cui promana il verdetto che quel vincolo vorrebbe (condizionale non casuale) esprimere. È infatti di tutta evidenza che il suo riconoscimento male riuscirebbe ad accordarsi col difetto in tesi dello stesso per il giudice della legittimità, difetto che subito ridonderebbe con identità di connotati per ogni altro giudice. Proprio sul punto della instabilità, che – a dire della Consulta – sarebbe propria dei verdetti giudiziari in genere al confronto con la stabilità delle leggi, fa infatti leva la sent. n. 230 per tipizzare la natura (e, di conseguenza, gli effetti), rispettivamente, degli atti legislativi e degli atti giudiziari.
Per la verità, anche su questo punto non poco potrebbe dirsi, sol che si acceda all’ordine di idee (come si sa, tuttavia non incontrastato) secondo cui il legislatore presente non può mai porre vincoli al legislatore futuro (in realtà, per una tesi finemente argomentata ma non perciò persuasiva, ciò varrebbe solo ordinariamente o a certe condizioni: ad es., i disposti di legge con cui si fa divieto a legge futura della loro abrogazione o modifica se non in modo espresso, per alcuni, dovrebbero essere osservati[3]; si sa però che nella pratica così molte volte non è stato e non è, senza che poi si riesca a sanzionare efficacemente questa “disobbedienza”).
Insomma, la dichiarata stabilità delle leggi è pur sempre tutta da verificare, l’esperienza in molti campi piuttosto avvalorando l’esito opposto. Non è, ad ogni buon conto, su dati meramente statistici che possiamo costruire una solida teoria costituzionale della funzione legislativa o, più largamente, delle fonti.
Ora, si può ragionare di un vincolo espresso dalla Cassazione e autoriflessivo, nel senso sopra precisato?
A questa domanda, una nutrita schiera di autori, affezionati ad antiche e pur sempre solide categorie teoriche, rispondono seccamente di no, facendo poggiare la tesi preferita su strutturali differenze degli ordinamenti di civil rispetto a quelli di common law, per quanto il muro innalzato in tempi ormai andati tra siffatti modelli presenti lunghe e profonde fenditure[4], per non dire che sembri pronto a crollare, anche grazie ai colpi infertigli da una coraggiosa ed intraprendente giurisprudenza di matrice europea, verso la quale volge lo sguardo una sensibile giurisprudenza di diritto interno[5].
È interessante notare come la tesi di questa dottrina sia molte volte argomentata astraendo dal quadro costituzionale. La qual cosa, invero, si capisce (ma, a mia opinione, non si giustifica), sol che si pensi che storicamente la contrapposizione tra i modelli suddetti ha avuto modo di affermarsi in contesti ai quali risultava estranea la rigidità della Costituzione.
Altri autori, di contro, si fanno portatori di un indirizzo (non dico opposto ma) diverso, prefigurandosi dunque un esito assai lontano da quello patrocinato dalla Consulta con la decisione in commento. Una speciale attenzione, in particolare, mi pare debba prestarsi all’opinione[6], secondo cui il vincolo discenderebbe in modo diretto, obbligato, dal principio di eguaglianza. Con molto buon senso e in modo franco, quest’a. pone un inquietante quesito, che chiama il giudice, ogni giudice, a misurarsi con la propria coscienza: chi mai – ci si chiede – si discosterà dal nuovo indirizzo della Cassazione e condannerà coloro che, per quest’ultimo, meriterebbero piuttosto di andare assolti?
Come si vede, qui si scivola dal piano delle condizioni a quello del fondamento, la questione ambientata all’uno naturalmente e necessariamente convertendosi e risolvendosi nella questione posta all’altro.
Condivido l’esito ma mi pare che si possa dire ancora qualcos’altro a suo sostegno.
Del fondamento, infatti, si può, a mia opinione, ragionare da due angoli visuali diversi e in relazione a due punti parimenti diversi, avuto riguardo alla situazione di fatto ed ai valori da essa implicati.
Facciamo, solo per un momento, un passo indietro, chiedendoci perché mai il vincolo dovrebbe avere carattere autoriflessivo.
Qui, il discorso rischia di farsi troppo lungo, rimandando ad antiche e cruciali questioni la cui adeguata considerazione non può essere racchiusa e – vorrei dire – banalizzata nelle poche righe di una scarna riflessione. Mi limito solo a dire che il rispetto del precedente da parte dello stesso giudice non è affatto – come invece comunemente si pensa – tratto esclusivo e distintivo delle esperienze processuali di common law (ancora una di quelle fenditure cui facevo cenno poc’anzi…). Piuttosto, esso rimanda all’essenza stessa dello jus dicere, alla sua caratterizzazione rispetto all’attività di produzione normativa, cui sono tipicamente preposti gli organi della direzione politica. Questi ultimi possono infatti, volendo, cancellare con un colpo di spugna quanto dapprima da loro stessi scritto sulla lavagna in cui sono rappresentati i testi di legge, proprio perché decisori politici e sempre che, ovviamente, si conformino ai parametri ed ai vincoli discendenti da norme superiori indisponibili. Non devono, per la tesi tradizionale[7], dare alcuna motivazione di ciò che fanno; o, meglio, la motivazione è insita nell’attività svolta e traspare dagli enunciati (l’obbedienza al canone della ragionevolezza, poi, è fuori discussione, per quanto risulti circondato da un alone di intrinseca, non superata e non superabile, vaghezza). Di contro, il giudice è sempre tenuto a rendere conto di ciò che fa e del perché lo fa; e, già solo per ciò, la sua attività è soggetta ad un vincolo, ad un freno, cui – sempre a stare all’opinione tradizionale – non va invece incontro l’attività del legislatore.
Il giudice è obbligato a dare certezza del diritto e certezze ai diritti; e può farlo ad una sola condizione: che renda prevedibile il proprio operato, appunto alla luce dei precedenti.
Quand’è, allora, che il giudice è legittimato a discostarsi da se stesso o, diciamo pure, a contraddirsi? La risposta è semplice, secca: mai.
È solo un’apparenza (una sorta di effetto ottico) quella (o quello) che si ha in presenza di un “mutamento” di giurisprudenza. In realtà, il giudice può (ed anzi deve) battere strade diverse da quelle precedentemente percorse, ogni qual volta però si sia in presenza di una diversa “situazione normativa”, come a me piace, ormai da quasi un quarto di secolo, chiamarla[8]. Con una corta espressione, può dirsi che il vincolo vale rebus sic stantibus. Alle volte, è sufficiente un mutamento non già di diritto, di disciplina giuridica, bensì di mero fatto, negli elementi o condizioni a contorno, per caricare di significati nuovi un enunciato dapprima diversamente letto; e gli esempi, ovviamente, potrebbero farsi col moltiplicatore[9].
In congiunture siffatte, non mi parrebbe appropriato discorrere di un “mutamento” di indirizzo giurisprudenziale[10], termine che evoca l’idea della sia pur parziale continuità[11]. Direi, piuttosto, che si è in presenza di un indirizzo nuovo, legittimamente e doverosamente nuovo, siccome chiamato ad assecondare un’alterazione sostanziale di quadro, conformandosi pertanto ad una “situazione normativa” parimenti nuova, nel segno della discontinuità insomma.
L’esito suona quasi paradossale, perlomeno a stare entro la cornice teorica disegnata alla Consulta con la decisione in commento: v’è, o meglio dovrebbe esservi[12], una maggiore stabilità nella giurisprudenza rispetto alla legislazione, proprio perché l’una ha il vincolo della motivazione, di cui l’altra è invece priva e proprio perché il legislatore dispone del potere, politico nella sua ristretta e propria accezione, di sradicare in ogni tempo dal terreno dell’ordinamento, dove – come si vede – non è conficcata con buone e salde radici, la pianta legislativa; un potere di sradicamento di cui sono, come si sa, strutturalmente privi i giudici[13].
Sta tutta qui – se ci si pensa – l’essenza della separazione dei poteri, la sua perdurante, ineliminabile attualità. Al piano della teoria delle fonti, essa si specchia nella nota distinzione, per la quale la scienza costituzionalistica nutre un debito ancora non del tutto assolto nei riguardi del magistero di Vezio Crisafulli[14], tra disposizione e norma. È del legislatore forgiare gli enunciati, le disposizioni appunto; del giudice e dei pratici in genere, le norme. L’uno non può mai, per suo limite invalicabile, passare dal piano al quale istituzionalmente si muove a quello su cui tipicamente si svolge l’ufficio del giudice, e viceversa. Persino quando dà vita ad una legge d’interpretazione autentica, il legislatore non può infatti prendere il posto del giudice, dal momento che deve limitarsi a confezionare nuovi enunciati, a loro volta comunque soggetti – come si sa – ad interpretazione.
Non è tuttavia unicamente al solo piano del “fatto”, del raffronto tra “situazioni normative”, che possono valutarsi in modo appropriato queste vicende e cogliersene i tratti più immediatamente espressivi. Lo sguardo ha da volgersi, simultaneamente e congiuntamente, oltre che verso il basso, l’esperienza, con l’umanità dolente che in essa reclama giustizia per diritti inappagati, anche verso l’alto, la Costituzione e i suoi valori, da cui sola può attingersi la luce che consenta di mettere a fuoco in modo adeguato il “fatto” stesso.
La sensibile dottrina cui ho fatto poc’anzi richiamo sollecita – come si diceva – a tener conto dell’eguaglianza[15]. Ma non c’è però solo questa. L’eguaglianza – è stato dimostrato con fini argomenti da altra dottrina[16] – fa tutt’uno con la libertà, entrambe alimentandosi e rigenerandosi semanticamente a vicenda. I veri principi fondanti l’ordine repubblicano sono quelli espressi, con formule che ad oggi considero mirabili, dagli artt. 2 e 3 della Carta[17]; gli altri principi sono quodammodo rispetto a questi serventi o, comunque, da essi implicati, componendo essi la coppia assiologica in cui nel modo più immediato e fedele si specchia la dignità della persona umana: l’unico, vero Grundwert (o, in termini kelseniani, la Grundnorm) dell’ordinamento, anche nelle sue proiezioni esterne, vale a dire nei rapporti con altri ordinamenti o sistemi di norme, quali quelli che fanno capo alle Carte dei diritti[18].
Dove va a parare questo discorso, che potrebbe apparire meramente astratto e, forse, pure banale?
Riferito al caso nostro, esso porta a riconoscere una peculiare capacità di vincolo ai “mutamenti” – se vogliamo seguitare a chiamarli così – di giurisprudenza della Cassazione, avuto specifico riguardo a quelli che attengono alla libertà della persona nel suo fare tutt’uno con l’eguaglianza. Forse, si dirà, non appare corretto che il vincolo stesso sia accostato in tutto e per tutto a quello che tipicamente discende dagli atti legislativi. E sia. Resta nondimeno il fatto che la Cassazione, al pari per questo verso di ogni altro giudice, se vuol dare – come deve – certezze (di diritto in senso oggettivo e di diritti soggettivi), è obbligata a restare coerente con se stessa, rebus sic stantibus, restando cioè immutata la “situazione normativa” in presenza della quale emette i propri verdetti.
E gli altri giudici?
Libertà ed eguaglianza, a mia opinione, non lasciano loro scampo. Perché sono il solo terreno su cui possono in modo appropriato svolgersi i bilanciamenti di ordine assiologico, il punto fermo da cui essi si tengono, pur nella strutturale, incessante mobilità delle combinazioni di valore e dei relativi esiti. Ancora la dottrina poc’anzi richiamata ha fatto, in altra occasione[19], efficacemente notare che la dignità non è un diritto o un valore “bilanciabile” al pari di ogni altro bensì la “bilancia” su cui si dispongono i beni bisognosi di ponderazione. Una conclusione, questa, che è, a mia opinione e malgrado il diverso orientamento manifestato da altri studiosi[20], da tenere ferma, sempre.
Dunque, non qualunque giudicato può “saltare” per effetto di un sopravveniente indirizzo interpretativo del giudice della legittimità; la stella polare che consente di discernere caso da caso è la dignità, al cui ottimale appagamento si volge la ricerca, non di rado affannosa e sofferta, che porta a fissare ogni volta il più in alto possibile, alle condizioni oggettivamente date (in relazione cioè alla singola “situazione normativa”), il punto di sintesi dei valori in campo.
Chi patrocina una soluzione diversa è obbligato – a me pare – ad interrogarsi su cosa vuol fare della dignità della persona, qual è l’ordine assiologico in cui si riconosce, quale l’idea di Costituzione di cui vuol farsi portatore ed alla quale comunque restare fedele.

 

[1] … e che ho avuto modo di rappresentare nel mio Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012), in www.diritticomparati.it, 15 ottobre 2012, e www.giurcost.org, 16 ottobre 2012.

[2] Più in genere, le difficoltà che ostano al reciproco accostamento, oltre una certa misura, dei varî modelli ed esperienze processuali hanno costituito oggetto, dal peculiare angolo visuale della giurisprudenza costituzionale, di ripetute analisi che vi sono state dedicate dal Gruppo di Pisa (in particolare, v. i contributi di AA.VV. che sono sotto i titoli I principi generali del processo comune ed i loro adattamenti alle esperienze della giustizia costituzionale, a cura di E. Bindi – M. Perini – A. Pisaneschi, Torino 2008; Il diritto penale nella giurisprudenza costituzionale, a cura di E. D’Orlando e L. Montanari, Torino 2009, e I modelli processuali nella giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Serges, Torino 2010).

[3] Sopra tutti, P. Carnevale, Il caso delle leggi contenenti clausole di “sola abrogazione espressa” nella più recente prassi legislativa. Per un tentativo di rimeditazione organica anche alla luce della problematica degli autovincoli legislativi, in AA.VV., Le trasformazioni della funzione legislativa. I “vincoli” alla funzione legislativa, a cura di F. Modugno, Milano 1999, 3 ss. e, dello stesso, più di recente, Dialogando con Franco Modugno sul fondamento dell’abrogazione e … dintorni, in Studi in onore di Franco Modugno, I, Napoli 2011, 581 ss., spec. 599 ss.

[4] La più avvertita dottrina ha da tempo e con stringenti argomenti fato notare come la linea divisoria tra i due modelli si faccia sempre più sfumata e tolleri frequenti e rilevanti passaggi da una parte all’altra (per tutti, A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, Bologna-Roma 2011, spec. 710 ss.).

[5] Leggo in questa prospettiva la pregevole ordinanza del tribunale di Torino, sez. giudici per le indagini preliminari, del 30 gennaio 2012 (a firma S. Recchione), relativa ad un caso del tutto analogo a quello che ha costituito oggetto della pronunzia del giudice delle leggi qui annotata [in argomento, ora, V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it, 19 ottobre 2012, ed ivi, 5 in nt. 12, ulteriori richiami di lett.]. In essa il mutato indirizzo della Cassazione è subito portato ad effetto, specie facendo leva sull’argomento, attinto dalla giurisprudenza europea, secondo cui il novum giurisprudenziale fa tutt’uno con l’enunciato normativo al quale si riferisce, dando pertanto vita ad un unicum inscindibile nelle sue parti.

[6] … ancora di recente patrocinata da F. Viganò, nella sua Nota introduttiva allo scritto sopra cit. di V. Napoleoni.

[7] … una tesi che pure meriterebbe di essere nuovamente discussa, ma in un luogo a ciò espressamente dedicato.

[8] Ho iniziato a discorrerne nel mio Le attività “conseguenziali” nei rapporti fra la Corte costituzionale e il legislatore (Premesse metodico-dogmatiche ad una teoria giuridica), Milano 1988, 55 ss., precisando e mettendo quindi a punto il concetto in più studi successivi.

[9] Si pensi solo a quanto abbia inciso, e quotidianamente incida, lo sviluppo scientifico e tecnologico nella riconsiderazione di enunciati costituzionali e testi normativi in genere anche molto risalenti, i mutamenti del contesto obbligando a rileggerli in modi inusuali.

[10] Con riguardo al nostro caso, rivisto però da una prospettiva diversa da quella qui adottata ed a finalità ricostruttive parimenti non coincidenti, anche V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem, cit., § 5, giudica improprio qualificare come “mutamento” l’indirizzo venutosi a formare presso la Cassazione.

[11] Esattamente, allo stesso modo con cui nel segno della continuità si presentano le revisioni della Carta costituzionale che di quest’ultima lasciano nondimeno integra l’essenza, consentendole appunto di trasmettersi sempre identica a sé nel tempo, pur nella riscrittura dei suoi disposti e nei limiti alla stessa segnati.

[12] Non sono infatti così ingenuo da non sapere come vanno non di rado le cose nell’esperienza. La circostanza però che essa si discosti dal modello nulla toglie alla validità di quest’ultimo ove si ammetta – come devesi – che esso risponda a principi di struttura dell’ordinamento.

[13] La sola eccezione a quest’esito teorico-ricostruttivo parrebbe esser data dalle pronunzie del giudice costituzionale, segnatamente – come si sa – da quelle ablative, usualmente assimilate, quanto agli effetti, agli atti legislativi (o, addirittura, “superlegislativi”), secondo un indirizzo teorico dalle nobili e salde ascendenze, che muove dal magistero kelseniano e perviene al nostro Calamandrei (e ad altri). Un’eccezione che è tuttavia, a mia opinione, meramente apparente, sol che si consideri la diversa, peculiare ed irripetibile, natura che è propria del tribunale costituzionale e che non ne consente l’accostamento a quella del giudice comune. È pur vero che, per prassi consolidata (diciamo pure, per consuetudine), si reputa cadere, con la norma specificamente fatta oggetto di sentenza di accoglimento, anche la disposizione che quella norma sostiene ed esprime: né più né meno, come si vede, di ciò che è proprio dell’abrogazione nominata. In altri luoghi (e, tra questi, nel mio Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Milano 1990, spec. 77 ss., ma passim), tuttavia, mi sono dichiarato fermamente avverso a quest’esito che: 1) fa della Corte costituzionale un organo d’interpretazione autentica (ma – si faccia caso – solo… a metà, non pure stranamente con riguardo alle pronunzie di rigetto) sia della Costituzione che, appunto, delle leggi, quasi che la norma desunta in sede di giudizio di costituzionalità sia l’unica sempre e comunque estraibile dalla disposizione; 2) opera una indebita assimilazione tra l’effetto di annullamento e l’effetto di abrogazione; 3) incide senza riparo sulla separazione dei poteri, assegnandosi ad un giudice, sia pure peculiare ma appunto “giudice”, un compito che dovrebbe considerarsi esclusivamente proprio del legislatore; 4) indebitamente converte la decisione su un oggetto puntualmente determinato (la norma, quale prospettata dal giudice a quo ovvero, in caso di sentenza interpretativa, per come riformulata dal giudice ad quem) in una estesa ad ogni altro possibile oggetto astrattamente riferibile alla disposizione data.

Come che sia di ciò, proprio perché la Corte è organo – come suol dirsi – di “chiusura” del sistema (tale essendo comunemente considerato in forza del disposto di cui all’art. 137, ult. c., secondo una sua lettura che però non tiene oggi conto dei vincoli ai quali la stessa Corte può andare incontro per effetto di non coincidenti pronunzie delle Corti europee), ancora di più avvalorata risulta la tesi che vuole le decisioni della Consulta sempre sorrette da un congruo apparato di motivazione ed esse per prime, dunque, obbligate a prestare ossequio ai propri precedenti, ferma la “situazione normativa” di partenza. Senza di ciò, non può esservi né certezza del diritto costituzionale né certezza dei diritti costituzionali.

[14] … del quale mi limito qui a rammentare la nota voce Disposizione (e norma), per l’Enc. dir., XIII (1964), 195 ss.

[15] V., nuovamente, lo scritto dietro cit. di F. Viganò.

[16] V., part., G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009.

[17] … nel loro fare “sistema” coi principi restanti (e, segnatamente, per ciò che ha specifico riguardo alla tutela dei diritti, col principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale, di cui agli artt. 10 e 11, seguiti dal I c. dell’art. 117).

[18] Della dignità come valore “supercostituzionale” si discorre già in A. Ruggeri – A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in AA.VV., Libertà e giurisprudenza costituzionale, a cura di V. Angiolini, Torino 1992, 221 ss. (e in Pol. dir., 1991, 343 ss.). Ha di recente ripreso questa indicazione C. Drigo, La dignità umana quale valore (super)costituzionale, in AA.VV., Principî costituzionali, a cura di L. Mezzetti, Torino 2011, 239 ss. Sulla dignità, da ultimo, A. Pirozzoli, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, Napoli 2012.

[19] G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[20] … e, tra questi, M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare, a cura di G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, Napoli 2009, 1060 ss.