Amleto a Strasburgo, ovverosia la Corte EDU allo specchio: essere o non essere “giudice”?

Andrea Buratti, nel suo post dal titolo Strasburgo, scortesie per gli ospiti, apparso il 18 giugno ’12 su www.diritticomparati.it, offre un quadro edulcorato di una questione cruciale, che va acuendosi sempre di più e che, alla fin fine, rischia di rimettere in discussione l’essenza stessa della giurisdizione europea, l’essere appunto la Corte EDU un… giudice. Una questione che, dunque, non è di mero galateo – come il garbato titolo dato da B. alla sua riflessione farebbe pensare – ma di struttura e funzione e, a conti fatti, di natura giuridica dell’organo cui i cittadini di ben 47 paesi europei affidano la loro ultima speranza di giustizia, di quella giustizia giusta che, per l’uno o per l’altro verso, reputano di non aver ottenuto entro i confini nazionali.


La vicenda ha uno svolgimento di tipo parabolico ed è riassumibile in un autentico ossimoro: quando un giudice funziona troppo bene, rischia alla fin fine di non essere più un… giudice.
Sappiamo tutti qual è stata la crescita vertiginosa registratasi nelle istanze presentate alla Corte rispetto ai primi anni del suo funzionamento, una crescita tale da obbligare lo stesso giudice a mettere in campo tutte le risorse di cui dispone per arginare la valanga dei ricorsi che, ormai da qualche tempo, va rovesciandosi senza sosta sulla sua testa, nonché per dissuadere dall’adozione di iniziative giudiziarie meramente pretestuose e, perciò, far luogo ad un’accurata e rigorosa selezione delle cause davvero meritevoli di considerazione.
Non si tratta – com’è chiaro – di un’esperienza tipica della sola Corte europea ma, anzi, assai diffusa anche in ambito interno. Conciliare le esigenze di funzionalità con la giustizia (in senso materiale, non meramente formale o di facciata dunque) è, alle volte, un’autentica quadratura del cerchio; diciamo pure: praticamente impossibile pur se… necessaria, nel senso che occorre produrre tutti gli sforzi possibili per tentare di raggiungerla o, quanto meno, di avvicinarvisi nella misura massima consentita dalle difficili condizioni oggettive di contesto.
Nel caso nostro, la lettera con la quale s’informa il soggetto ricorrente dell’esito infausto della sua richiesta, respinta dal giudice unico perché irricevibile, fa a pugni col modo con cui un organo giudiziario dovrebbe rendere quotidiana testimonianza del proprio operato, risultando priva di un pur minimo supporto argomentativo a sostegno della decisione adottata. È vero che non tutte le pronunzie degli organi giudicanti vanno motivate nel rispetto di uno standard elevato, abbisognando pertanto di articolarsi e svolgersi in ragionamenti particolarmente estesi e documentati. Si danno, infatti, molti casi in cui la parte motiva di una decisione giudiziaria può legittimamente ridursi ad un pugno di affermazioni, tanto più laddove dichiari di appoggiarsi a precedenti ormai consolidati ed indiscussi nel medesimo senso. Le stesse decisioni della Corte costituzionale – per fare un esempio a noi più vicino e familiare – che rilevano la “manifesta inammissibilità” o “infondatezza” della questione sono – come si sa – di corto svolgimento; e, tuttavia, non possono, ad ogni buon conto, considerarsi sgravate dell’onere di un pur minimo supporto argomentativo a loro sostegno. Così pure è, prima ancora, per analoghe decisioni adottate dai giudici comuni davanti ai quali sia sollevata una questione quindi non rimessa alla Corte (per quanto, a quest’ultimo riguardo, risulti largamente oscuro come stiano davvero le cose, non disponendosi di sedi e strumenti idonei ad un adeguato monitoraggio di siffatte esperienze che, come nell’iceberg, restano per la loro gran parte sommerse, non sottraendosi alla vista unicamente quelle che sfociano in un giudizio, quale che sia, della Consulta).
Ora, a mia opinione, v’è un tratto di fondo che – come mi è stata, ancora di recente, offerta l’opportunità di precisare – distingue l’attività del legislatore e, in genere, dei decisori politici da quella dei giudici, pur nella varietà delle loro articolazioni strutturali e funzionali; ed è dato proprio dal fatto che solo la seconda, diversamente dalla prima, deve (sottolineatura non casuale) dotarsi di un apparato di motivazione (pure vario da caso a caso e tuttavia) congruo, sufficiente (anche se sulla misurazione della sua consistenza molto invero potrebbe dirsi). Tanto più questo è, a mia opinione, vero con riguardo a giudici unici nel loro genere o di ultima istanza o, ancora, le cui pronunzie risultino provviste di una peculiare “forza” giuridica, dovendosi ad esse prestare ossequio in termini alle volte indistinguibili rispetto a quelli che connotano le fonti del diritto di grado primario (o, addirittura, superprimario). È ancora la nostra Corte costituzionale ad aver riconosciuto un’attitudine siffatta nella sua ultima decisione sulla vessata questione della procreazione medicalmente assistita (ord. n. 150 del 2012), laddove ha fatto richiesta ai giudici a quibus a tornare a considerare le questioni dapprima sollevate alla luce del “novum” (così ambiguamente definito) costituito dalla sopravveniente decisione della Grande Camera del novembre scorso; ed ha perciò mostrato di voler quodammodo assimilare (quanto meno, appunto, al piano degli effetti, se non pure della natura giuridica) le pronunzie della Corte EDU ad una sorta di un pur anomalo, peculiare ius superveniens.
Insomma (e in breve), l’onere della motivazione, comunque incombente su tutti i giudici, viene ad essere naturalmente sottolineato e richiede pertanto di essere in modo vieppiù stringente adempiuto proprio con riguardo ai giudici le cui pronunzie non sono impugnabili ovvero producono effetti “paranormativi” (o normativi tout court), tanto più poi quando hanno ad oggetto controversie di diritto costituzionale (in senso materiale), laddove cioè sono in gioco i diritti fondamentali dei singoli la cui salvaguardia si affida in ultima istanza proprio alle sedi giudiziarie in parola.
La “giurisdizionalità” dei giudici costituzionali in senso materiale (tra i quali – com’è stato egregiamente dimostrato da una sensibile dottrina – sono ormai da annoverare le stesse Corti europee, pur nella loro complessiva tipicità) ha, insomma, bisogno di quotidiane conferme che possono in grado eminente aversi proprio per il tramite della motivazione, il cui livello di sufficienza naturalmente s’innalza rispetto a quello proprio delle sedi di giustizia comune in considerazione dell’attitudine posseduta dalle pronunzie emesse dai giudici stessi a farsi valere non soltanto nella singola esperienza giudiziale che ha costituito l’occasio per la loro adozione ma in altre similari per connotazione oggettiva (un’attitudine di cui le decisioni della Corte di Strasburgo rendono, come si sa, sempre più nitida testimonianza).
Qui, di contro, le pronunzie della Corte EDU mostrano un volto grintoso, espressivo di un autoritarismo esasperato, dal momento che non soltanto non sono chiarite al soggetto agente le ragioni del rigetto della sua istanza e si avverte lo stesso che a nulla varrebbe farne richiesta alla cancelleria della Corte, indisponibile a dare chiarimenti di sorta, ma si aggiunge che il fascicolo di causa verrà distrutto nel giro di un anno dall’adozione delle pronunzie stesse.
Se poi si tiene conto del fatto che la percentuale delle istanze rigettate per irricevibilità ovvero per difetto di “significativo pregiudizio” appare essere assai elevata rispetto a quelle prese in considerazione nel merito, il rischio è che la Corte sia, a conti fatti, nella maggior parte dei casi, un… “non giudice”.
Su tutto ciò mi parrebbe urgente un supplemento di riflessione, magari (ed auspicabilmente) accompagnato dalla messa in atto delle necessarie misure correttive di una prassi di certo non esaltante e – voglio sperare – non gratificante per la stessa Corte.