A Strasburgo c’è un “Judge in the Town”: analisi del caso Costa e Pavan contro Italia in materia di diagnosi genetica preimpianto

Il 20 settembre 2010, Rosetta Costa e Walter Pavan adivano la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’Italia, invocando la violazione del combinato disposto degli articoli 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (Divieto di discriminazione) della Convenzione, lamentando che la legge italiana (in particolare la n. 40 del 19 febbraio 2004 recante “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) non avrebbe consentito loro l’accesso alla diagnosi preimpianto. I due, entrambi portatori sani di fibrosi cistica (o mucoviscidosi), già genitori di una figlia colpita da tale malattia, nel febbraio 2010, a seguito di una seconda gravidanza, abortirono un feto che, dalla diagnosi prenatale, risultava affetto dalla medesima disfunzione. Così, desiderosi di un figlio privo della grave patologia, i ricorrenti reclamano il diritto all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) e alla diagnosi genetica preimpianto (PGD). Rispetto alle tecniche di diagnosi prenatale, la PGD permette infatti di identificare la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche in embrioni in fasi molto precoci di sviluppo, per selezionarli (eliminando quelli indesiderati) prima del loro impianto in utero.

Tuttavia, ai sensi della celebre e controversa legge 40 ora richiamata, nell’ordinamento italiano, l’accesso alle PMA è consentito esclusivamente alle coppie che, sulla base di accertamenti medici, risultino sterili o infertili (la legge, fra l’altro, specifica che alle tecniche di procreazione assistita possono accedere esclusivamente coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertili, entrambe viventi e che è vietato il ricorso a tecniche di fecondazione eterologa). Un decreto del Ministero della Salute dell’11 aprile 2011 ha poi esteso la pratica anche a quelle coppie in cui il partner maschile abbia una malattia sessualmente trasmissibile, come l’AIDS e l’epatite B e C.

La Corte esordisce precisando che, a differenza di quanto sostenuto da alcune associazioni intervenute come terze parti in qualità di amici curiae (ci riferiamo in particolar all’European Centre for Law and Justice e al Movimento per la vita, cui si sono affiancati cinquantadue parlamentari italiani), quello invocato dai ricorrenti non fosse il “diritto ad un figlio sano”, quanto piuttosto quello di ricorrere alle summenzionate tecniche di PMA. Per i giudici della seconda sezione, il diritto invocato costituisce una forma di espressione del rispetto alla vita privata e familiare (ex art. 8 della Convenzione). L’ingerenza dello Stato italiano è certamente legale poiché fondata sulla summenzionata legge 40 e può essere anche considerata legittima in quanto fondata sulla necessità di tutelare la morale e le libertà altrui (§ 59).

Seguendo i consolidati passaggi dell’ermeneutica della Corte di Strasburgo, restava da verificare se tale ingerenza potesse essere considerata proporzionale e necessaria in una società democratica. Lasciando la parola alla Corte, viene concluso che: « Force est de constater que le système législatif italien en la matière manque de cohérence. D’une part, il interdit l’implantation limitée aux seuls embryons non affectés par la maladie dont les requérants sont porteurs sains ; d’autre part, il autorise ceux-ci d’avorter un fœtus affecté par cette même pathologie » (§ 64).

Fin qui, la cronaca dei fatti. Per poter commentare la sentenza è bene premettere che la sistemazione giuridica di profili che investono questioni etiche così sensibili è da sempre opera ardua, sia sul piano legislativo che su quello giudiziale. Il dibattito in materia è comprensibilmente acceso e condizionato non solo dalle sensibilità politico-culturali degli addetti ai lavori ma anche di quelle del più ampio contesto sociale delle società storiche.

Pur tuttavia, davanti al guazzabuglio giuridico del caso Costa Pavan contro Italia, mi concedo una certa libertà di tono che spero i lettori sapranno perdonare, appena si abbia la pazienza di considerare i seguenti argomenti.

In primo luogo, i signori Costa e Pavan non solo non si sono rivolti a nessuna Autorità giudiziaria italiana (nel caso, quindi, non potremmo neppure parlare di mancato esaurimento dei ricorsi interni ex articolo 35 della Convenzione europea, quanto piuttosto di mancato ricorso in generale), ma non hanno neppure tentato di richiedere di potersi avvalere di una PMA presso una struttura sanitaria del nostro Paese. Il Governo resistente, contestando opportunamente l’ammissibilità del caso, invocava l’esempio di una coppia non sterile portatrice genetica di atrofia muscolare per cui il Tribunale di Salerno, tramite una decisione divenuta definitiva il 13 gennaio 2010, ritenne legittimo il ricorso alla PGD (Il Governo italiano non ha peraltro citato altri provvedimenti analoghi come quelli dei tribunali di Firenze e Bologna, rispettivamente del 17 dicembre 2007 e del 29 giugno 2009).

Ci sarà pure un Giudice a Strasburgo devono aver pensato i signori ricorrenti, parafrasando la famosa citazione brechtiana. Ma a differenza del mugnaio di Potsdam della storia del drammaturgo tedesco, non c’è stato bisogno di bussare a tutte le porte del regno per ottenere finalmente giustizia. Anzi, nel caso di specie potremmo parlare di una sorta di chiamata diretta da parte della signora Tulkens, Presidente della II Sezione che si è occupata del caso in prima istanza, la quale, seguendo l’articolo 41 del Regolamento interno della Corte e quindi ritenendo particolarmente importante e urgente il caso, ha spalancato le porte ai ricorrenti decidendo di trattare il ricorso prioritariamente.

Siamo innanzi a quella che il Governo resistente ha giustamente definito una vera e propria actio popularis, vale a dire un tentativo di contestare la legislazione democraticamente e sovranamente espressa da un Paese in una determinata materia direttamente e in astratto, scavalcando i circuiti legislativi interni (che peraltro sono sottoposti allo scrutinio delle rispettive Corti costituzionali). Un qualcosa di simile è ad esempio successo nel recente e già famoso A. B. C. contro Irlanda. Sul punto, Grégor Puppinck, direttore dell’European Centre for Law and Justice, commenta «Compared to other cases declared inadmissible, among which the Swiss case regarding the constitutional prohibition of minarets (Ligue des musulmans de Suisse et autres c. Suisse del 28 giugno 2011, ndr), the criteria of the Court are becoming unforeseeable, unless the Court is moving towards a practice of “pick and choose” in the American way, deciding to judge only the cases it is interested in rather than strictly applying the admissibility criteria. In any case, in declaring this application admissible, the Court grants the possibility directly to question a law in Strasbourg, without proving one’s quality of victim nor submitting the case to the domestic courts».

Sul merito della questione, va poi notato che la Corte finge di non conoscere la nota dottrina del margine di apprezzamento (che pure richiama al paragrafo 67), vale a dire l’ampio spazio di manovra normativa di cui gli Stati godono in materie che sollevano importanti questioni di ordine morale o etico e su cui non esiste un consenso nell’ambito dello spazio giuridico europeo (ai paragrafi 29-32 della decisione, è la stessa seconda Sezione che, contraddicendosi, ricorda come, fra i Membri del Consiglio, a fronte di 17 Stati che consentono la PGD al fine di prevenire la trasmissione di malattie genetiche, ve ne siano 3 che la impediscano e 12 privi di una regolamentazione specifica in materia). In un caso recente e molto simile, la Camera Grande aveva ribadito con forza come questo  “wide margin of appreciation”, si estende  “both to its decision to intervene in the area and, once having intervened, to the detailed rules it lays down in order to achieve a balance between the competing public and private interests” (S.H contro Austria, 28 giugno 2011, § 97).

Sempre in riferimento alla dottrina del margine di apprezzamento degli Stati, prima di stralciare selvaggiamente la legge 40/2004 senza nemmeno passare per un ricorso, la seconda Sezione della Corte di Strasburgo avrebbe dovuto riflettere su come quella fosse stata approvata a seguito di un ampio e approfondito dibattito parlamentare (sviluppatosi lungo il filo di tre legislature) che ospitò fra l’altro il confronto scientifico di numerosi esperti. Non bastasse, nel giugno 2005, un referendum popolare ne ratificò l’impianto normativo, anche se, nella circostanza, non mancarono oppositori dell’esito della votazione a far notare che più che l’avallo della legge fu l’astensione a prevalere. Di certo, l’iter democratico poteva dirsi concluso e rafforzato da un pronunciamento popolare.

In effetti, posto che tutti gli atti giuridici sono perfettibili, la logica della legge 40 è quella di consentire il ricorso alla PMA per la risoluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umane; è innegabile che la sua ispirazione di fondo sia quella del riconoscimento dell’esistenza di un essere umano fin dal concepimento. Questo potrà anche spiacere alle avanguardie illuminate della vecchia Europa, ma la Corte di Strasburgo non dovrebbe essere impiegata come il grimaldello giuridico per combattere a colpi di sentenza battaglie ideologiche contro leggi indesiderate. Del resto, nel panorama del diritto internazionale e costituzionale, non mancano certo riconoscimenti giuridici della soggettività del concepito e del suo diritto ad una piena dignità, mentre non esistono atti che esplicitamente, formalmente e direttamente possano negare che l’inizio della vita umana si determini col concepimento. L’argomento appena evocato è stato opportunamente impugnato dal Movimento per la vita, intervenuto in qualità di amicus curiae innanzi la Corte. Negli appunti per la memoria difensiva si ricorda innanzi tutto la “Convenzione sui diritti dell’uomo e biomedicina”, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, che nel suo articolo 18 consente agli stati di vietare la sperimentazione embrionale a causa della sua potenzialità distruttive, anche se diretta all’ampliamento della conoscenza. A questo proposito, vengono poi ricordate la Convenzione americana sui diritti umani, firmata a San José di Costarica il 22/11/1969; la Costituzione irlandese all’art. 40, la Costituzione ungherese, la giurisprudenza costituzionale tedesca nelle note sentenze del 1975-1992-1993, quella italiana nella decisione costituzionale n. 35 del 10/2/97, quella polacca con la decisione del 5/5/97, le raccomandazioni dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa N. 904 dell’1982 sull’ingegneria genetica, N. 1046 del 1986 sull’utilizzazione degli embrioni e dei feti umani, ai fin diagnostici, terapeutici, scientifici, industriali e commerciali, N. 1100 del 1989, sulla ricerca scientifica relativa agli embrioni e feti umani; le risoluzioni del Parlamento europeo adottate il 16 marzo 1989 sui problemi etici e giuridici della ingegneria genetica e della procreazione artificiale e così via

Come promesso nel titolo del post, completo quest’analisi osservando come quello sviluppatosi nel sistema Strasburgo sia un modello di “judge in the town”, (spesso) complementare (e non necessariamente opposto) al ruolo di “judge in the court”. Gli stessi meccanismi di selezione dei giudici sono condizionati da logiche politiche contingenti, in quanto espressione di volontà governative interne necessariamente mutevoli. Più significativamente, guardando alle prassi, si constata come gli ambienti di provenienza dei membri della Corte siano in massima parte quelli dell’accademia. Normalmente, non si tratta quindi di funzionari dei sistemi di giustizia nazionali, ma di intellettuali che arrivano al prestigioso incarico con un’impronta identitaria forte e con un progetto “dirittoumanistico” da realizzare: quello con la borghesia cittadina è quindi un dialogo fitto e costante.  E certo non può considerarsi un mistero il fatto che, nel laico occidente, élites secolarizzate (di cui i giudici rappresentano un importante punto di riferimento) siano ferocemente impegnate ad imporre un’agenda neoliberal e postmoderna all’Europa.

La digressione serve a spiegare come, in Camera bassa, avvenga di frequente che i giudici provenienti dai Paesi occidentali, grazie alla loro esperienza, riescano a prevalere sui colleghi orientali, ancora prigionieri di un certo complesso di inferiorità. In fase di ricorso, la composizione più ampia e articolata della Camera grande, favorisce invece un dialogo meno fazioso, in cui gli Stati riescono ad approntare difese più solide e coerenti delle proprie leggi e dei propri provvedimenti giudiziali e amministrativi. È questo uno dei modi in cui si possono spiegare alcuni spettacolari sovvertimenti fra i due gradi di giudizio: il citato S. H. contro Austria ed il caso Lautsi sulla nota questione del Crocifisso nelle aule scolastiche rappresentano momenti paradigmatici di questo andamento, non fosse altro perché, in fase di attacco, ritroviamo sovente gli stessi accaniti protagonisti.

Costa e Pavan contro Italia, caso da manuale di accogliemento partigiano di un ricorso palesemente inammissibile, rappresenta l’apice dei meccanismi degenerativi che abbiamo descritto. L’impiego della giustizia come prosecuzione della guerra (ideologica) con altri mezzi deriva dalla postura individualistica tipicamente contemporanea per la quale ogni pretesa, richiesta, punto di vista del singolo assume la veste giuridica del diritto umano fondamentale.  Il mondo moderno, scriveva Chesterton, ha subito un tracollo mentale, molto più consistente del tracollo morale; per questo mi piacerebbe concludere questo intervento condividendo con i lettori del blog una riflessione suscitatami dalla lettura di un bell’articolo del Foglio di Giuliano Ferrara, intitolato “il paradosso delle paraolimpiadi”.

La commozione di un vastissimo pubblico davanti alle spettacolari prodezze di ciechi, storpi e menomati vari avrà pure sinceramente commosso il pubblico di mezzo mondo, eppure rappresenta una prova del profondo deficit di ragione degli spettatori (o almeno di quelli occidentali) denunciato da Chesterton. Credo infatti che pochi si siano fermati a riflettere sul fatto che la manifestazione è stata ospitata da un Paese “all’avanguardia” in materia di diritti umani in cui, dati alla mano, quelle persone che oggi si confrontano con magnifico ardore sui campi di gioco non sarebbero mai venute al mondo perché considerate condannate ad una “qualità della vita inaccettabile”. Quanti di quegli atleti nascerebbero oggi se fossero degli inglesi, si domanda l’editoriale?

Scriveva Manzoni ne “i Promessi sposi”, il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune. Se sarà presentato un ricorso dinnanzi la Camera grande, potrei concludere con un messaggio ai giudici: coraggio!

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