A proposito di Diritti in transito di Anna Lorenzetti: riconoscimento e tutela della diversità nel caso dei diritti delle persone transessuali
Il libro di Anna Lorenzetti, Diritti in Transito. La condizione giuridica delle persone transessuali (FrancoAngeli, 2013) offre una ricca e dettagliata visione d’insieme delle tutele e delle difficoltà di ordine giuridico che interessano il transessuale in Italia, mettendo in rilievo come, in questo ambito, fatto e diritto siano in un rapporto di continua tensione. Il diritto, infatti, non sempre sembra in grado di rispondere alla complessità che spesso scuote i paradigmi su cui si fondano molte delle precomprensioni e delle convenzioni giuridiche che il legislatore si limita a prendere come meri presupposti della sua azione e cui i fatti tendono però a sottrarsi. Il rischio è infatti che il fatto nuovo resti, ignorato, privo di qualsiasi tutela giuridica o peggio venga stigmatizzato: particolarmente problematica per esempio, insieme alla giurisprudenza recente in merito allo scioglimento del vincolo coniugale (su cui infra), l’ambivalente posizione dei giudici sull’obbligo di operazione chirurgica per poter procedere alla rettificazione (59 ss.). Ecco perché occorre chiedersi, come afferma l’Autrice, «se respingere un fatto, una persona, una condizione umana rientri nell’orizzonte costituzionale o si collochi esternamente ad esso» (231).
Ed è anche in queste poche parole che si coglie la centralità di un tema che sembra per sua natura periferico e minoritario, ma che consente, invece, di affrontare alcune delle più attuali questioni che oggi sono di interesse del dibattito costituzionalistico. Non si fa riferimento solo alla dignità dell’uomo, oggetto ormai di imponenti studi come il recente libro curato da McCrudden, Understanding Human Dignity (Oxford University Press, 2013), su cui il Tribunale costituzionale tedesco ha costruito gran parte della sua giurisprudenza in materia, ma anche a molte altre implicazioni e declinazioni del vivere associato. Il tema del transessualismo, infatti, tagliato dalla prospettiva del diritto costituzionale, consente di affrontare, da un punto di vista privilegiato, alcuni nodi particolarmente problematici: in primo luogo, si fa riferimento al tema del catalogo chiuso o aperto dei diritti costituzionali di cui il transessualismo, con le due sentenze della Corte costituzionale che si sono interessate della questione finora nel 1979 e nel 1985, è stato senz’altro cartina di tornasole con un paradigmatico cambio di orientamento; ma anche, più di recente, alle importanti ripercussioni che emergono con grande chiarezza quando, per esempio, l’autrice, approfondendo il caso Bernaroli (cfr. infra), in cui le connessioni con i temi dell’orientamento sessuale sono fortissime, mette in evidenza tutti i limiti di una concezione performativa del genere che porta al c.d. “paradigma eterosessuale” o alla “obbligatorietà” dell’eterosessualità e che ha rappresentato, di fatto, l’argomento forte nel motivare l’impossibilità di estendere il matrimonio alle persone dello stesso sesso. Questo approccio performativo, infatti, pone ostacoli significativi sul cammino del “riconoscimento giuridico” di identità diverse, creando limiti all’inclusione dell’altro e ponendo restrizioni piuttosto forti al rispetto della sua libertà di autodeterminarsi.
Su queste ultime questioni il dibattito sociologico è ormai avanzatissimo. Emblematica la distanza tra chi declina i vari temi legati al transessualismo secondo le suggestioni di Martha Nussbaum, che legge i termini del confronto lungo il crinale umanità-disgusto, e chi, secondo le teorie di Judith Butler, invece, valorizza il superamento del binarismo dei generi. Le due autrici si dividono, quindi, sul rilievo giuridico da dare all’orientamento sessuale, in merito alla valorizzazione della “differenza” in base al genere e al ruolo del principio di non discriminazione in questa lotta per il riconoscimento. Sul punto, il dibattito costituzionale tedesco sembra aver assorbito più di altri i termini della questione e la tematizzazione della situazione giuridica del transessuale ha ormai un’ampia eco nella giurisprudenza del Tribunale costituzionale da molti anni. In particolare, gli studi di Susanne Baer, oggi giudice del Tribunale costituzionale tedesco (Würde oder Gleichheit, Nomos 1995), e, più di recente, di Laura Adamietz (Geschlecht als Erwartung, Nomos 2011), sembrano risentire della prospettiva dei gender studies che valorizza, ma al contempo pare neutralizzare, la “diversità” tramite la promozione di “identità molte” liberate però dal carattere performativo del genere. Tutto ciò dimostra la crescente attenzione verso questo tema nel dibattito in materia di diritti nelle società di tradizione occidentale. La mole crescente di questioni in materia pare confermata anche dalle più recenti questioni affrontate dalla CEDU (il riferimento è, tra gli altri, al caso H. v. Finlandia del 2012 verso cui al momento pende un ricorso alla Grande camera).
Sin dalla fine degli anni Settanta, molti, specialmente in ambito civilistico e privato-comparatistico, si sono occupati della condizione giuridica dei transessuali e, da ultimo, di particolare rilievo pare la voce nel Digesto delle discipline privatistiche di Francesco Bilotta (Transessualismo, Utet, 2013). Dal punto di vista costituzionalistico, per quanto ben presente alla dottrina come dimostrano i lavori di Barbara Pezzini sin dai primi anni Ottanta, il tema sembrava essere però tenuto in minore considerazione. Pare anche per questo particolarmente significativo il lavoro monografico di Anna Lorenzetti che riesce a dare sistematicità agli studi finora apparsi in materia, valorizzando il profilo costituzionalistico, ma tenendo sempre presente i collegamenti con le altre discipline.
Il lavoro è suddiviso in sei capitoli che, in modo completo, spiegano la disciplina giuridica del transessualismo in Italia fino alle più recenti modifiche del 2011 con uno sguardo anche alle proposte di riforma della materia presentate in Parlamento; inquadrano i diritti delle persone transessuali nell’ambito del diritto alla salute, sottolineandone pro e contro e stigmatizzando, però, quegli esiti che sembrano esacerbare il carattere “patologico” delle questioni concernenti l’identità di genere; si soffermano sui profili collegati con la vita familiare del transessuale con riferimenti particolarmente interessanti alla recente ordinanza della Corte di cassazione che ha sollevato questione di costituzionalità in merito alla legittimità dell’art. 4 della l. n. 164 del 1982 e al c.d. “divorzio imposto” facendo uso degli atti della causa; approfondiscono le problematiche legate alle discriminazioni di identità di genere sul lavoro e danno conto degli spazi, comunque poco efficaci, che in materia sono stati riconosciuti alla legislazione regionale, mettendo in evidenza i rischi di quegli approcci che suddividono, in modo manicheo, l’umanità tra “normalità” e “non normalità” (159), preferendo piuttosto le aperture in merito tracciate da alcune “buone prassi” (162 ss.) che cercano di superare impostazioni eccessivamente rigide. Da ultimo, analizzata l’esperienza comparata e sovranazionale, l’autrice, tira le fila, nel capitolo conclusivo, delle considerazioni svolte (193 ss.).
Critica verso le soluzioni che, pur delicate, hanno spesso proposto bilanciamenti di interessi costruiti secondo parametri ritagliati sulla base di un riferimento alla “tradizione culturale” facente perno su visioni maggioritarie delle questioni interessate (195) e che tendono a declinare la realtà delle opzioni percorribili secondo la dicotomia maschio/femmina, vengono messe in evidenza le difficoltà connesse con questo modo di procedere che produce sovente una sostanziale restrizione delle garanzie per le persone. L’autrice sembra, in quest’ottica, affascinata nel suo lavoro dalla critica butleriana alla performatività come strumento di stereotipizzazione della “normalità” dell’eterosessualità e del binomio maschio/femmina, quando la tutela dell’identità di genere dovrebbe passare anche tramite un riconoscimento della complessità che porti a proteggere la diversità in quanto tale (222 ss.) nel rispetto dell’autodeterminazione individuale e combattendo i rischi di marginalizzazione che provengono dal considerare il transessualismo una malattia. L’autrice mette, però, in rilievo i pericoli connessi con un “azzeramento” dei generi, che rischia di essere penalizzante più che efficace (si pensi alle norme in materia di maternità), proponendo piuttosto «il superamento della rigida costruzione binaria […] soltanto quando, e nella misura in cui, si rilevi foriero di una limitazione nel godimento di diritti» (227), secondo una logica del principio di non discriminazione che tende a riconciliare le teorie dell’autrice con Martha Nussbaum e il suo registro ricognitivo dell’umanità.
Prima di soffermarsi su alcune considerazioni finali, merita, a questo punto, un approfondimento maggiore il c.d. “caso Bernaroli” (105 ss.) che pare di particolare interesse. Si è dato conto, infatti, dell’ordinanza (n. 14329 del 2013) con cui la Corte di cassazione ha interrogato la Corte costituzionale sulla legittimità dell’art. 4 della legge n. 164 del 1982 che dispone che a seguito della rettificazione di sesso il matrimonio si considera sciolto con effetti ex nunc. Questo caso pare significativo perché, al di là dei molti possibili rilievi legati all’autodeterminazione individuale dei singoli coinvolti e delle valutazioni connesse con l’interesse dei figli, mette davvero in evidenza la crisi della tradizionale concezione della vita familiare. Torna così la chiave di lettura della distanza tra realtà e disposizione normativa. Nel caso Bernaroli, infatti, vengono posti sotto pressione concetti che sono oggetto di radicali ripensamenti in molti ordinamenti stranieri alla luce di realtà materiali che hanno messo in azione il sovvertimento di alcune logiche e certezze granitiche: in primo luogo quella secondo cui il transessuale, che aspira a cambiare chirurgicamente sesso, una volta terminato il percorso di adeguamento, dovrebbe voler anche legarsi con una persona di sesso legale diverso conformandosi in tal modo al “canone eterosessuale”. In definitiva, è proprio in questo campo che è possibile vedere i limiti e i rischi di una visione eccessivamente chiusa a ciò che la Corte costituzionale, nella sentenza sui figli incestuosi, definì “l’incerto del mestiere di vivere” e che tende a schematizzare in modo rigido la non omogeneità di situazioni pur diverse come orientamento sessuale e identità di genere.
Tra il mettere in rilievo l’insufficienza e trovarvi una soluzione, tuttavia, il passo è lungo. Senza dubbio nel caso in esame, il c.d. “divorzio imposto” finisce per incidere su valori costituzionali come l’unità familiare di una famiglia formatasi originariamente secondo i canoni previsti dal legislatore e protetta dall’art. 29 Cost. E, tuttavia, al di là delle possibili soluzioni normative che eventualmente introducano la possibilità di proseguire l’unione, eventualmente in altre forme legalmente riconosciute, o delle soluzioni giurisprudenziali cui potrà accedere la Corte costituzionale, l’incidenza del caso in esame sul c.d. “paradigma eterosessuale” del matrimonio è evidente di per sé e non lascia dubbi. Nella sua rigidità, più in generale, essa solleva perplessità legate alla sua stessa capacità di comprendere e dunque regolare un piano fenomenico che aspira ad essere performativo, ma che si scontra, inevitabilmente, con la lotta dei singoli per il diritto ad essere se stessi (P. Ridola, La dignità dell’uomo e il “principio libertà” nella cultura costituzionale europea, in Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Giappichelli 2010). Come rileva l’autrice, infatti, «le vicende familiari delle persone transessuali mettono in evidenza la progressiva erosione dei confini eretti per “difendere” quell’isola che […] il diritto può solo lambire» (137).