A margine di M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Giappichelli, Torino 2015
Sommario: 1. L’opzione per uno scetticismo “moderato” e il carattere “discrezionale” dell’attività interpretativa. – 2. Il catalogo “chiuso” dei canoni interpretativi, secondo l’art. 12 prel., la (supposta) specificità dell’interpretazione costituzionale e il carattere sistematico della interpretazione in genere, anche al piano dei rapporti tra fonti ordinate gerarchicamente e tra fonti appartenenti ad ordinamenti diversi ma reciprocamente collegati. – 3. Principio della massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali e interpretazione conforme, nelle sue plurime espressioni, nondimeno bisognose di non essere reciprocamente “graduate” e di essere riportate ad un unitario e complesso circolo interpretativo. – 4. La “creatività” della funzione giurisdizionale e i suoi tipi (in ispecie, il riempimento delle lacune quale espressione di “creazione” forte e le sentenze-fonti del diritto come “creazioni” fortissime). – 5. L’eccesso di potere giurisdizionale, il suo problematico riscontro, il bisogno di tornare al testo a presidio della tipicità del ruolo degli interpreti rispetto a quello dei decisori politici, la varia intensità dei vincoli discendenti dal testo stesso a carico dei giudici e degli interpreti in genere. – 6. La misura giusta della “discrezionalità” che può (e deve) essere concessa al giudice, apprezzabile caso per caso e secondo ragionevolezza (per una sua accezione assiologicamente qualificata) e i rimedi esperibili avverso gli eccessi di potere giurisdizionale, con specifico riguardo ai conflitti interorganici, pur nei limiti particolarmente stringenti ad essi posti dalla giurisprudenza costituzionale. – 7. Segue: La chiamata a responsabilità del giudice per errore interpretativo e la prospettiva, qui coltivata, di una possibile chiamata a responsabilità del legislatore idonea a tradursi nel risarcimento del danno causato ai diritti da leggi incostituzionali.
1. L’opzione per uno scetticismo “moderato” e il carattere “discrezionale” dell’attività interpretativa
Ci vuole coraggio da vendere per tornare a cimentarsi con un tema arato ab antiquo e gravido di implicazioni teorico-pratiche, qual è quello della interpretazione; e N. mostra, invero, di averne, nella consapevolezza nondimeno del carattere irto del percorso che l’attende, tanto da ritenere doveroso, in esordio della trattazione, dare la spiegazione della scelta fatta, delineando i tratti maggiormente salienti dello studio intrapreso.
Già dalle prime battute, si avverte come quest’ultimo, pur avendo per specifico oggetto l’interpretazione, finisca col coinvolgere generali questioni della teoria costituzionale e, ancora più largamente, della teoria del diritto, fino a riguardare la stessa connotazione complessiva del diritto e la sua distinzione dal “fatto”[1]. La qual cosa è, d’altronde, propria delle riflessioni di respiro teorico che, pur laddove ambientate nell’ambito di un ordinamento dato (qui, del nostro), in realtà si portano ben oltre i confini dello stesso aspirando a possedere, perlomeno per taluni aspetti, generale valenza.
Lo stesso titolo dato dall’a. al suo scritto ne dà, d’altronde, tangibile e sicura conferma. La teoria dell’interpretazione – fa opportunamente notare N. – è, a conti fatti, una species della teoria della separazione dei poteri o, per dir meglio, la naturale proiezione di quest’ultima in ambiti materiali in cui maturano alcune delle più rilevanti esperienze della pratica giuridica.
N. sottopone ad attenta analisi le più accreditate teorie della interpretazione, optando per quelle c.d. “scettiche”, le quali peraltro si presentano al loro interno alquanto articolate, e rigettando pertanto in partenza l’indirizzo c.d. “cognitivo”. L’interpretazione è, insomma, volontà; una volontà tuttavia non “libera” bensì “discrezionale”: l’opzione metodica fatta da N. (spec. 52 ss.) è, dunque, per uno scetticismo “moderato”, in opposizione ad uno invece “radicale”[2]. L’inquadramento è, a mia opinione, corretto; esso nondimeno obbliga a riempire di significato i termini suddetti, dal momento che senza le necessarie chiarificazioni concettuali il problema non può dirsi risolto bensì solo spostato in avanti. Un rilievo, questo, che a me pare possa valere proprio in relazione al concetto di “discrezionalità”, caricato nei varî ambiti disciplinari in cui se ne fa uso di significati talmente differenziati e distanti l’uno dall’altro da rendersi fortemente problematica ed insicura la loro riduzione ad unità, se non col costo di forzate assimilazioni concettuali. È chiaro, infatti, che nel momento in cui si predica l’esistenza di una “discrezionalità” del legislatore, comunque distinta da quella dell’amministratore e (per ciò che qui più da presso importa) del giudice, organi aventi ciascuno – perlomeno secondo modello – un proprio ruolo da incarnare in seno alla trama istituzionale, il rischio micidiale che si corre è quello della confusione dei ruoli stessi, del loro uso promiscuo ed indistinto, in esercizio di una anomala, reciproca “sussidiarietà”, che tuttavia può portare all’esito fatale della dissoluzione stessa del modello e, perciò, della Costituzione[3].
L’alternativa è, allora, secca e non lascia scampo: o si riesce a riempire la “discrezionalità” di ciascuno dei poteri in cui tradizionalmente si articola l’apparato statale di significati originali e propri di ciascuno di essi oppure è preferibile, ed anzi necessario, dismettere l’utilizzo del termine al fine di evitare preoccupanti fraintendimenti concettuali, pervenendo quindi a forzose e gracili ricostruzioni teoriche.
L’idea di N. è che tutte le funzioni, essendo comunque “creative”, siano in occasione del loro esercizio espressive di “discrezionalità”; comunque, che lo sia l’attività degli interpreti (e, segnatamente, dei giudici): “il problema della creatività dell’interpretazione”, dunque, “non riguarda l’an, ma il quantum”, vale a dire, in buona sostanza, “i confini di tale creatività”[4].
Lo stesso a. fa, peraltro, giustamente notare che, se è vero che gli enunciati positivi delimitano pur sempre l’area entro la quale ricercare i significati astrattamente possibili, è parimenti vero che la “cornice”, il perimetro dell’area stessa, non è astrattamente determinabile e si rivela a conti fatti mobile, in ragione della struttura nomologica degli enunciati stessi, nonché (e, forse, soprattutto) dei casi che sollecitano la loro interpretazione, ne danno l’orientamento, ne accompagnano gli svolgimenti.
2. Il catalogo “chiuso” dei canoni interpretativi, secondo l’art. 12 prel., la (supposta) specificità dell’interpretazione costituzionale e il carattere sistematico della interpretazione in genere, anche al piano dei rapporti tra fonti ordinate gerarchicamente e tra fonti appartenenti ad ordinamenti diversi ma reciprocamente collegati
Ovviamente, punto di partenza (e, comunque, passaggio) obbligato per un’indagine positivamente fondata sono i disposti di cui all’art. 12 delle preleggi (81 ss.). Disposti – come si sa – fatti oggetto di plurime valutazioni teoriche, componenti un autentico puzzle che solleva un mucchio di problemi, a partire da quello relativo ai canoni da porre a base della loro interpretazione, specie ove si convenga circa la inutilizzabilità di quelli dallo stesso art. stabiliti la cui conoscenza non è – per logica necessità – un prius bensì un posterius della sua interpretazione.
N. tenta di superare l’ostacolo assumendo che possa (o, meglio, debba) farsi ricorso a criteri interpretativi “diversi da quelli o, al limite, anche ad essi identici ma compresi per altra via” (94). Solo che attingendo a criteri altri, verrebbe in tesi violato lo stesso art. 12 che, nella sua formulazione generale, parrebbe dover valere per qualunque disposizione normativa (e, dunque, anche per… se stessa).
N. considera quella dell’art. 12 una “norma di diritto costituzionale”, “non evidentemente norma costituzionale” (96), specificamente riguardante i rapporti tra i poteri dello Stato, avente il precipuo fine di “disciplinare le tensioni tra legislazione e giurisdizione” (102).
Muovendo dall’assunto che i criteri d’interpretazione indicati nell’art. 12 siano tassativi, N. si dichiara dell’avviso che essi siano “violati” laddove se ne seguano anche altri non espressamente menzionati, tra i quali quello c.d. sistematico (87 ss.). Un esito teorico-ricostruttivo, questo, a prima vista fedele alla lettera e che è dall’a. sorretto da buoni argomenti, per quanto qui pure si riproponga il puzzle logico relativo al modo giusto col quale intendere l’art. in parola, nulla escludendo che proprio dalla sua considerazione nel fare “sistema” coi disposti normativi a contorno (e, segnatamente, con le restanti norme sulla normazione, in larga accezione) possa pervenirsi ad una conclusione diversa, la quale poi potrebbe riverberare la propria immagine e i propri effetti sulla interpretazione dei disposti normativi restanti. Si vuol dire, insomma, che non è detto che l’esito interpretativo apparentemente discendente dalla lettera dell’art. in esame resista alla rilettura di quest’ultimo alla luce dei disposti a contorno, senza peraltro escludere che lo stesso dettato dell’art. 12, isolatamente considerato, potrebbe ugualmente racchiudere in sé potenzialità semantiche meno asfittiche di quelle che fanno capo alla lettera e alla volontà del legislatore, oggettivamente intesa (secondo gli esiti maggiormente accreditati della dottrina della Entfremdung) e, soprattutto, senza escludere che lo stesso art. 12 debba soggiacere ad una rilettura critica che – come si preciserà a momenti – tenga conto del mutato contesto ordinamentale venutosi ad affermare a seguito della seconda grande guerra.
Ben argomentata è, poi, la tesi secondo cui è, ancora una volta, nella cornice delle teorie scettiche che può rinvenire giustificazione l’interpretazione conforme (su cui N. indugia a lungo, particolarmente a partire da 105 ss., ricostruendone puntualmente la vicenda storico-teorica), la quale interpretazione, in disparte ciò che se ne dirà a breve, non è altro che la stessa interpretazione sistematica, in alcune delle sue più salienti espressioni, pur caratterizzandosi in modo del tutto peculiare. E ciò, tanto che si acceda all’ordine di idee, in cui si situa una nutrita schiera di studiosi, secondo cui l’interpretazione sistematica potrebbe dispiegarsi unicamente al piano “orizzontale” dei rapporti tra enunciati del medesimo grado (in ispecie, tra enunciati legislativi) quanto che invece si reputi che essa possa altresì aversi a quello “verticale” dei rapporti tra fonti graduate e persino a quello dei rapporti interordinamentali.
Ora, in disparte ogni riserva a riguardo dell’utilizzo dello schema gerarchico con riguardo alle fonti rispettivamente assunte ad oggetto e parametro dell’interpretazione conforme[5], non si trascuri che si danno talune esperienze che mostrano come l’interpretazione in parola possa spiegarsi altresì tra fonti di egual grado[6].
Alle obiezioni, poi, mosse da quanti[7] propendono per tenere distinta l’interpretazione conforme rispetto a quella sistematica, facendo tra l’altro osservare come la prima, diversamente dalla seconda, possa portare ad una interpretazione “asistematica e selettiva”, sembra di poter opporre un triplice ordine di argomenti.
Per un verso, infatti, anche l’interpretazione sistematica può dimostrarsi essere (e di fatto è) “selettiva”, restando comunque circoscritto il novero delle statuizioni utilizzabili tra quelle che stanno a contorno di quella oggetto specifico d’interpretazione.
Per un altro verso, anche nel corso dell’interpretazione sistematica, e non solo in quella conforme, possono aversi vincoli per l’operatore discendenti dalle statuizioni circostanti[8], le quali reclamano di essere comunque tenute presenti, concorrendo in varia misura alla messa a punto semantica della disposizione “interpretanda”; è tuttavia vero che pure quest’ultima concorre, per la sua parte, alla ricostruzione dei significati di quelle disposizioni a contorno che dovrebbero giovare alla sua chiarificazione, confermandosi anche per quest’aspetto la strutturale, ineliminabile, “circolarità” della interpretazione giuridica.
Per un altro verso ancora, il vincolo – si tratti d’interpretazione sistematica (in ristretta accezione) come pure d’interpretazione conforme –, come si è fatto in altri luoghi notare, è pur sempre di mezzo, non già di risultato[9], nessuna garanzia avendosi circa la riuscita dell’una e dell’altra, dal momento che non è possibile escludere in partenza che il disposto fatto oggetto specifico d’interpretazione costituisca un elemento normativo spurio, inidoneo a legarsi con qualsiasi altra norma, dello stesso come di altri livello[10].
Il carattere sistematico dell’interpretazione, nondimeno, si coglie e apprezza in tutto il suo spessore non tanto nel chiuso di un ordinamento dato (e, segnatamente, di quello statale) quanto – come si diceva – al piano (e dalla prospettiva) delle relazioni interordinamentali, ove si ammetta – come non può non ammettersi – che, nel presente contesto segnato da una integrazione sovranazionale molto avanzata e da un infittirsi crescente dei vincoli discendenti dalla Comunità internazionale, il “sistema” è già al presente (e ancora di più, verosimilmente, sarà nel prossimo avvenire) – piace a me dire[11] – un “sistema di sistemi”, distinti sì ma anche reciprocamente connessi (se non pleno iure integrati, in via di progressiva e sempre più intensa integrazione).
Di qui, poi il rilievo della comparazione[12] quale strumento necessario della interpretazione – diciamo così – “intersistemica”, specificamente rilevante al piano delle vicende dei diritti fondamentali, dei modi del loro riconoscimento e tutela, specie grazie al “dialogo” tra le Corti. È evidente, ad es., che il reperimento delle “tradizioni costituzionali comuni”[13] non può aversi senza il ricorso alla comparazione, così come è sempre, e solo, per il suo tramite che si rende possibile attingere a materiali, normativi e giurisprudenziali, di origine esterna in sede d’interpretazione degli enunciati costituzionali ed al fine della messa a punto e verifica del canone della massimizzazione della tutela dei diritti stessi, secondo quanto si vedrà meglio a momenti.
Sta di fatto che l’avvento della Costituzione rigida mostra in modo lampante il carattere riduttivo di antichi schemi elaborati per l’interpretazione della legge, quale atto produttivo di norme per antonomasia e perno del sistema attorno ad (ed in funzione di) essa ricostruito, secondo un modello finemente elaborato specie durante la stagione liberale e ancora oggi non del tutto dismesso. La Carta rigida, insomma, sconvolge la quiete di un quadro estremamente semplificato nei materiali positivi riscontrabili in seno agli ordinamenti ottocenteschi e, di conseguenza, nei criteri previsti per la loro composizione in sistema. E lo fa a doppio titolo o verso: rimette in discussione i modi correnti d’interpretare le leggi (e le fonti restanti), sollecitando pertanto una reinterpretazione costituzionalmente orientata dello stesso art. 12 prel., e propone in modo imperioso la questione circa il modo con cui interpretare la Costituzione stessa. Una questione, quest’ultima, che rimanda ad altra, generale questione concernente i “luoghi” positivi in cui possono trovare ospitalità le norme sulla normazione (tra le quali, per una risalente ma ancora oggi accreditata opinione, sono le stesse norme sull’interpretazione[14]) e, ove – come da noi – esse risultino, almeno in parte, da fonti di primo grado, la loro idoneità ad asservire alla propria osservanza altre fonti del medesimo grado e, a maggior ragione, fonti di grado ancora maggiore[15].
Questa vessata questione resta fuori dell’orizzonte teorico coltivato da N. ma, a mia opinione, non può essere elusa. È pur vero, ad ogni buon conto, che la presunta “specificità” dell’interpretazione costituzionale – come si è soliti chiamarla[16] – non ha qui soltanto il suo punctum crucis, la risposta al quesito se e in che misura essa si caratterizzi rispetto all’interpretazione delle leggi comuni (o di altri atti ancora) dipendendo altresì da più generali questioni che, al fondo, rimandano alla vicenda costituente e, perciò, alle ragioni storico-politiche che hanno portato all’avvento del nuovo ordine costituzionale ed al varo di una Carta che di certo non per capriccio esibisce certi contenuti e non altri. La qual cosa si rende particolarmente evidente sul terreno sul quale matura la ricerca volta al riconoscimento dei principi fondamentali dell’ordinamento, alla messa a punto dei loro contenuti maggiormente qualificanti, all’apprezzamento del loro formidabile potenziale espressivo e della loro attitudine a pervadere l’intero campo in cui prendono forma le esperienze giuridicamente rilevanti[17]. Principi che proprio con senso storico-politico possono essere compiutamente apprezzati, disvelando essi la reazione ferma, senza riserve o condizionamento di sorta, nei riguardi di un passato col quale si voleva voltare pagina, solo così riuscendosi a coltivare la speranza di poter edificare una società ed uno Stato nuovi, nel segno della discontinuità rispetto ai principi posti a base del vecchio ordinamento e del regime politico che lo aveva governato.
Il vero è che, dietro la vessata questione se i canoni valevoli per l’interpretazione della legge fondamentale della Repubblica siano gli stessi utilizzabili per quella delle leggi restanti (o, meglio, per la gran parte delle leggi)[18], sta l’altra e prioritaria questione circa l’assimilabilità pleno iure dei documenti normativi in parola (e, perciò, se la Costituzione sia, quanto meno al precipuo fine della sua interpretazione, una “legge” come ogni altra) e, ancora, l’altra questione se e come possano reciprocamente saldarsi le due interpretazioni e i rispettivi esiti. Una questione, quest’ultima, che proprio nell’idea di “sistema” e d’interpretazione sistematica, anche nelle sue proiezioni “verticali”, può rinvenire la sua più efficace e persuasiva soluzione, ciascuna “legge” offrendosi per la compiuta interpretazione dell’altra.
Ci si avvede così dello stretto, inscindibile legame che s’intrattiene tra l’interpretazione storicamente orientata e quella sistematica, che finiscono nel vivo dell’esperienza col fare tutt’uno. Solo per il tramite della prima si può, infatti, cogliere l’essenza dei principi fondamentali (e, di conseguenza, delle norme costituzionali restanti), mentre la seconda salda alla prima l’intero ordinamento sui principi stessi fondato.
Una interpretazione “parziale”, d’altronde, che escluda in partenza dal suo ambito di svolgimento alcuni materiali normativi (anzi, proprio quelli maggiormente espressivi di valori fondamentali), sarebbe… asistematica. E non occorre qui rammentare come, già quasi un secolo addietro, la migliore dottrina avesse rinvenuto nel circolo interpretativo (nella durchgehende Korrelation, secondo la efficace definizione di Alf Ross[19]) tra tutti gli atti produttivi di norme il luogo elettivo, necessario, per lo svolgimento delle pratiche interpretative, la stessa legge fondamentale della Repubblica richiedendo di attingere alle leggi ed agli atti sottostanti in genere al fine della sua incessante rigenerazione semantica e, per ciò stesso, venendo dunque messa a fuoco unicamente nel “sistema” e attraverso il “sistema”.
3. Principio della massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali e interpretazione conforme, nelle sue plurime espressioni, nondimeno bisognose di non essere reciprocamente “graduate” e di essere riportate ad un unitario e complesso circolo interpretativo
Sta di fatto che, per un verso, l’inquadramento dell’interpretazione nell’ambito delle dottrine scettiche e, per un altro verso, l’osservazione dei più salienti svolgimenti delle dinamiche istituzionali concorrono a dare conferma di un dato di comune riscontro, anche nello studio di N. messo in chiara evidenza ed opportunamente sottolineato: quello della espansione della funzione giurisdizionale, i cui atti si pongono – com’è noto – quale veicolo privilegiato d’interpretazione: una espansione che avrebbe nondimeno dovuto (e dovrebbe) pur sempre manifestarsi lungo (e, meglio ancora, entro) le righe dello spartito disegnato negli enunciati e che invece non di rado si è espressa (e si esprime) in forme abnormi, problematicamente riconducibili alla pur amplissima area materiale ritagliata per l’“interpretazione”. Anche strumenti astrattamente “buoni”, per una singolare eterogenesi dei fini, si sono non di rado prestati ad usi cattivi (e talora pessimi), portando alla sostanziale riscrittura dei testi di legge, quando non addirittura dello stesso testo costituzionale (le più rilevanti, pur se spesso abilmente mascherate, manipolazioni della sostanza normativa degli enunciati sono infatti proprio quelle che si dirigono nei riguardi del parametro[20]).
Indice emblematico di questa tendenza è l’insistito riferimento all’interpretazione conforme, specie da parte della giurisprudenza costituzionale, che ha dato (e dà) modo al giudice delle leggi di sollecitare i giudici comuni all’assunzione di crescenti responsabilità di ordine istituzionale, tanto più evidenti in un contesto segnato da annose e palesi carenze degli organi della direzione politica (e, perciò, da vuoti di normazione che vanno sempre di più crescendo in rapporto a pretese incalzanti di appagamento dei diritti, vecchi e nuovi). Allo stesso tempo, malgrado i giudici siano in modo fermo incoraggiati a considerare meramente “residuale” la soluzione del ricorso al giudizio di costituzionalità, il solo fatto della presentazione di questioni alla Consulta, pur laddove siano quindi respinte (anche per il mancato esperimento del tentativo d’interpretazione conforme), dà modo alla Consulta stessa di riaffermare con vigore il proprio ruolo di “luogo” elettivo, pur se non esclusivo, in cui tracciare i percorsi lungo i quali avviare e far scorrere con profitto gli indirizzi interpretativi costituzionalmente orientati.
Si propone, a questo punto, la micidiale questione teorica, dalle numerose e rilevanti pratiche implicazioni, circa il modo con cui le varie specie di interpretazione conforme si compongono ad unità: se, cioè, si dia un ordine, cronologico ed assiologico, che presiede al loro svolgimento (e, se sì, se esso debba risultare dall’ordine delle fonti, la teoria delle fonti dunque traducendosi e rispecchiandosi nella teoria dell’interpretazione) ovvero se – come a me pare – le interpretazioni in parola non possano, per loro irriducibile attitudine, essere tenute innaturalmente distinte (o, peggio, separate e “graduate”) e piuttosto si immettano in un unico circuito interpretativo, strutturandosi quali interpretazioni paritariamente e circolarmente conformi. Anche (e, anzi, soprattutto) da qui si coglie in tutto il suo spessore e la sua strutturale complessità il modo di essere e di divenire del “sistema”: un “sistema”, dunque, che si compone, scompone e ricompone senza sosta in ragione dei casi e che ha nei valori fondamentali al servizio dell’uomo (e, perciò, in breve, nel principio-valore personalista) il proprio punto di unificazione-integrazione, da cui stabilmente si tiene e in funzione del quale incessantemente rinnova. La qual cosa è singolarmente evidente – come si diceva – al piano della salvaguardia dei diritti fondamentali. Il principio della massimizzazione della tutela[21], l’autentica Grundnorm e il Grundwert a un tempo delle relazioni interordinamentali (segnatamente, al piano dei rapporti tra Costituzione e Carte internazionali dei diritti), un principio fatto proprio da tutte le Carte e nel quale (perlomeno a parole…[22]) tutte le Corti dichiarano di riconoscersi, mostra come nessuna graduatoria possa, a mio modo di vedere, farsi su basi formali-astratte tra i documenti normativi in parola, la graduatoria piuttosto potendo (e dovendo) essere ricercata nei singoli casi e fatta quindi poggiare su basi assiologico-sostanziali. E mostra – per ciò che qui maggiormente importa – come il principio stesso debba, più (e prima ancora) che porsi a fondamento e giustificazione della selezione della norma o del “sistema” di norme da far valere nel caso, dare luce ed orientamento al processo interpretativo, all’unitario processo interpretativo circolarmente conforme.
Sul punto, di cruciale rilievo, N. sembra invero esibire qualche oscillazione.
Per un verso, si dichiara (spec. 188 ss.) dell’idea che le tre specie d’interpretazione conforme (a Costituzione, diritto internazionale, diritto “comunitario” o, come a me piace dire, “eurounitario) debbano svolgersi contestualmente (meglio, però, come si è venuti dicendo, potrebbe dirsi unitariamente).
Per un altro verso, timoroso che possa lasciarsi “all’interprete un raggio d’azione davvero troppo ampio” (191), e preoccupato di mettere al riparo, perlomeno fin dove possibile, il bene-valore indisponibile della certezza, finisce col tornare a far valere “una logica di tipo gerarchico, che nonostante tutti i suoi limiti può, se non altro, continuare a funzionare come strumento effettivamente maneggiabile da parte del giudice” (192).
Questo slittamento di piano (da una prospettiva d’ispirazione assiologico-sostanziale ad una formale-astratta) non è, per le ragioni sopra esposte e per quelle che subito si diranno, condivisibile.
D’altro canto, è vero che non poche sono le circostanze della vita in cui l’interprete e i fruitori dei suoi prodotti hanno da correre rischi anche assai rilevanti e far luogo a scelte particolarmente sofferte e gravide d’implicazioni. La certezza del diritto, specie in alcune circostanze, può, sì, andare incontro a gravi inconvenienti e trovarsi fortemente esposta, per quanto – non si dimentichi – non poche siano le esperienze e le tecniche che quotidianamente connotano l’operato dei giuristi (e, segnatamente, degli interpreti) in cui la certezza è messa sotto stress, senza che ciò rechi alcuno scandalo[23].
Solo che – qui è il punto – la sola certezza del diritto, specie nella sua più elevata espressione, quale certezza del diritto costituzionale, che io conosca ed apprezzi – come mi è venuto di dire in altre occasioni[24] – è quella che si dimostra in grado nella pratica giuridica di convertirsi e risolversi per intero in certezza dei diritti costituzionali, cioè nella effettività della loro tutela. E il raggiungimento di quest’ultima è, a conti fatti, demandato ai giudici, a tutti i giudici (sovranazionali e nazionali, costituzionali e non).
Il vero è che non è tanto il principio dell’apertura al diritto di origine esterna, pure risultante – non si dimentichi – da enunciati espressamente etichettati come “principi fondamentali” (artt. 10 e 11), a portare diritto all’esito di escludere ogni forma di ordinazione gerarchica, astrattamente qualificata, tra i tipi d’interpretazione conforme, di contro spingendo vigorosamente per la loro mutua e paritaria integrazione, quanto lo sono i principi di libertà ed eguaglianza e gli altri principi che con essi fanno “sistema”. E ciò, ove si convenga – come, a mia opinione, devesi – che il principio di cui agli artt. 10 e 11 è, sì, un principio-fine (nessuno dubitando che pace e giustizia tra le Nazioni siano obiettivi bisognosi di essere costantemente e fermamente salvaguardati) ma è anche, e soprattutto, un principio-mezzo, al servizio della coppia assiologica fondamentale, come a me piace chiamarla, risultante dagli artt. 2 e 3 e, in ultima istanza, al servizio della dignità della persona umana, mortificata al tempo della guerra da uomini trasformatisi in belve (ancora una testimonianza – come si vede – di quel cruciale rilievo del riferimento storico-politico nell’interpretazione costituzionale, cui si faceva cenno poc’anzi).
Tutto ciò che, nei fatti, si dimostra conducente allo scopo di apprestare la migliore tutela possibile, alle condizioni oggettive di contesto, ai diritti fondamentali dell’uomo (e, in ispecie, alla sua dignità) può (e deve) esser posto in essere, senza esitazione o riserva alcuna, costi quel che costi. È questo, in nuce, il canone fondamentale che presiede alle vicende dell’interpretazione, ne traccia il verso, vi dà luce e significato.
Se n’è avuta, ancora non molto tempo addietro, conferma ad opera di Corte cost. n. 238 del 2014, dove si è con chiarezza mostrato che l’interpretazione giusta dello stesso principio fondamentale enunciato nel primo comma dell’art. 10 riceve orientamento e sostegno proprio dall’art. 2 (e, specificamente, dal valore indisponibile della dignità). È vero che nella circostanza, sulla quale ovviamente non è qui possibile indugiare, la Corte pur di raggiungere il fine s’è messa sotto i piedi antiche e consolidate credenze in fatto di processo costituzionale (mutatis mutandis, qualcosa di simile si è avuta anche con Corte cost. n. 10 del 2015 e in altri casi ancora). Un costo, questo, ad opinione di molti studiosi[25], giudicato insopportabile, se si conviene che la fedeltà ai canoni che reggono il processo costituzionale è condizione del mantenimento della “giurisdizionalità” dell’attività in esso svolta dal giudice e, perciò, della sua legittimazione, onde parare il rischio dello snaturamento del giudice stesso nel massimo dei decisori politici o – come pure mi è venuto di dire in altre occasioni – in un mostruoso potere costituente. Con ogni probabilità, dunque, in nome di una giusta, sacrosanta, causa si è battuta una via impercorribile. Il caso è, tuttavia, emblematico; e, al di là delle forme esasperate di cui si è rivestita la soluzione datavi, testimonia per tabulas ciò che qui si viene dicendo, e cioè che senza l’effettiva salvaguardia dei diritti costituzionali (specie del diritto indisponibile alla incondizionata e piena tutela della dignità) non v’è, non può esservi certezza del diritto costituzionale, nella sua più genuina espressione: appunto, quale certezza dei diritti stessi.
4. La “creatività” della funzione giurisdizionale e i suoi tipi (in ispecie, il riempimento delle lacune quale espressione di “creazione” forte e le sentenze-fonti del diritto come “creazioni” fortissime)
Come che stiano al riguardo le cose, l’interpretazione conforme, tanto nelle sue articolazioni “plurali” quanto nella unitaria ricostruzione qui nuovamente patrocinata, unitamente ad altre esperienze nel corso delle quali si è assistito ad un ruolo di centrale rilievo svolto dai giudici (reso viepiù palese dal ricco armamentario di tecniche decisorie di cui gli stessi si sono dotati), ripropone in termini imperiosi e pressanti l’impegnativa questione, teorica e pratica allo stesso tempo, relativa a come stabilire (o, con maggiore cautela, tentare di stabilire), sia pure in modo approssimativo, i limiti entro i quali la funzione giurisdizionale è tenuta a stare a pena di snaturarsi senza rimedio, confondendosi con le attività di carattere politico ed anzi finendo col sopraffare queste ultime, affermandosi a loro discapito.
La formula largamente in uso secondo cui quella giurisdizionale sarebbe un’attività “creativa”, col carattere evanescente che la connota, non vale tuttavia a rendere neppure approssimativamente l’idea dei modi con cui l’espansione della funzione giurisdizionale ha preso forma, nella varietà delle sue (anche significativamente diverse) espressioni.
A questo proposito, N. propone una catalogazione per gradi della “creatività” in discorso, cui è assegnato un significato “debolissimo”, “debole”, “forte” e “fortissimo” (199 ss.). Ovviamente, sono soprattutto le ultime due specie quelle meritevoli della maggior attenzione, in occasione delle loro manifestazioni potendosi realizzare le più incisive interferenze con le attività proprie dei decisori politici (e, segnatamente, del legislatore).
Qui pure lo studio mostra per vero qualche oscillazione, spostandosi da un piano all’altro e adottando una prospettiva ora sostanziale ed ora formale di osservazione dei fenomeni indagati.
La qualificazione come “forte” del ruolo giocato dall’interprete in relazione alle lacune e ai modi del loro riempimento (209 ss.) si dispone al primo piano e si coglie dalla prima prospettiva; all’altro piano e dalla seconda, sta invece la qualificazione come “fortissimo” del ruolo proprio di alcune sentenze che, per un’accreditata dottrina cui N. si allinea, si porrebbero quali vere e proprie fonti del diritto.
Quanto alle lacune, l’a. sposa la tesi secondo cui la loro esistenza o inesistenza, “più che costituire un problema interpretativo, stia a valle della sua risoluzione, o meglio di una sua possibile risoluzione” (214; c.vo testuale). Rifacendosi ad una nota indicazione di R. Guastini (e di altri), l’interprete dunque “crea la lacuna” (ivi). In realtà, prende qui corpo – a me pare – un processo interpretativo complesso che si snoda in più fasi: in un primo momento, l’operatore cerca una norma che sa (o, meglio, intuisce) in partenza di potergli giovare per il caso, avvalendosi delle disposizioni esistenti.
Si fermi, solo per un momento, l’attenzione sul punto. Forse, si è ad oggi poco riflettuto sulla circostanza per cui, se è vero che è dalla disposizione che, per il tramite dell’interpretazione, si trapassa alla norma (secondo l’aureo insegnamento crisafulliano), non è meno vero che la stessa individuazione e selezione delle disposizioni astrattamente disponibili, tra le quali presuntivamente si situa quella giusta, buona per il caso, ha luogo sotto la spinta di una norma pur se confusamente intuita, che dunque (pre)orienta la ricerca e in varia misura condiziona il reperimento della disposizione stessa[26].
In un secondo momento, poi, qualora l’operatore non abbia trovato la norma voluta o attesa e constatata, perciò, l’esistenza della lacuna, colma quest’ultima attingendo pur sempre, di necessità, alle disposizioni stesse, reinterpretandole. La lacuna, insomma, sta a mezzo di un processo interpretativo internamente complesso; in qualche modo, può dirsi che segue una prima interpretazione e precede una seconda. In ogni caso, è chiaro che tanto la “scoperta” (o, se si preferisce, la creazione) quanto il riempimento della lacuna vanno ambientati al piano sostanziale, com’è proprio di ogni attività di produzione di norme per via d’interpretazione.
La prospettiva dalla quale invece anche N. guarda alle sentenze-fonti è, come si diceva, d’ispirazione formale-astratta. Ogni sentenza di una certa specie (ad es., la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale) è sempre, in tesi, espressiva di un ruolo “fortissimo” (216 ss.).
È chiaro che, se si guarda agli effetti, la qualificazione è lineare, direi obbligata; e basti solo, al riguardo, pensare alla communis opinio che tiene – a mia opinione, innaturalmente – distinte (e, anzi, contrapposte) le decisioni di rigetto da quelle di annullamento della Corte costituzionale. Ciò che fa della sentenza costituzionale un atto davvero singolare, l’unico – che io sappia – che, a stare al comune sentire, cambia camaleonticamente pelle e natura secundum eventum litis, ora presentandosi quale vera e propria fonte del diritto ed ora invece no, in quanto produttiva di effetti ora generali ed ora particolari[27].
Si tratta nondimeno, una volta di più, d’intendersi su cosa debba intendersi per “creatività” o “innovatività” o ancora, per un’altra ricorrente qualifica, “normatività” di alcune specie di sentenza[28].
L’assunto da cui anche N. muove, allineandosi ad una lunga schiera di studiosi, è che la “normatività” debba misurarsi in relazione al numero indeterminato dei destinatari dell’atto che la esprime, l’efficacia generale ponendosi quale un indice particolarmente attendibile, seppur non esclusivo[29], di siffatta proprietà dell’atto e, perciò, del carattere “fortissimo” della creatività espressa dall’operatore in occasione della sua adozione.
Questa è, però, a mio modo di vedere, solo una delle due facce della luna; poi, c’è quella nascosta, non meno rilevante della prima. Non sono poche, infatti, le esperienze in cui pronunzie di rigetto esprimono una “creatività” ancora maggiore di alcune decisioni di accoglimento: ad es., laddove mascherino – alle volte abilmente, altre goffamente – una manipolazione della sostanza normativa della legge interpretata e – di più – laddove la manipolazione si diriga verso (e cioè contro) il parametro costituzionale o, addirittura, in entrambi i versi (oggetto e parametro assieme). Taluni usi abnormi, ma non per ciò non infrequenti, dell’interpretazione conforme ne danno tangibile ed inequivoca testimonianza.
Insomma, la “creatività” in sé e per sé è una cosa, e dipende dall’entità della incisione operata a carico del dettato normativo preesistente; la estensione della cerchia di coloro che ne sono interessati, un’altra.
5. L’eccesso di potere giurisdizionale, il suo problematico riscontro, il bisogno di tornare al testo a presidio della tipicità del ruolo degli interpreti rispetto a quello dei decisori politici, la varia intensità dei vincoli discendenti dal testo stesso a carico dei giudici e degli interpreti in genere
Anche (e, forse, soprattutto) da qui si ha conferma dei non pochi casi in cui è dato assistere ad un eccesso di potere giurisdizionale, sul quale N. si sofferma con opportuni rilievi (p. 233 ss.). Uno degli esiti ricostruttivi cui N. perviene mi parrebbe difficilmente confutabile, segnatamente laddove fa notare non esservi “niente di sbagliato (né, in fondo, di particolarmente innovativo) nel rifiutare l’idea del giudice bocca della legge, ma occorre fare uno sforzo per evitare di cadere nella trappola degli eccessi opposti, a meno che non si ritenga salutare il semplice sostituire un mito con un altro (dal giudice meccanico esecutore della Legge al Giudice unico vero decisore del diritto vigente, più o meno efficacemente nascosto dietro il paravento della legge)”(239; c.vi testuali).
Che il giudice, dunque, debba tenersi alla larga da ciascuno dei corni estremi e soffocanti dell’alternativa suddetta mi parrebbe innegabile; il punto, però, non chiarito (e sul quale possiamo legittimamente dividerci) è dove a conti fatti si situi, vale a dire quale sia, per quantità e soprattutto qualità, il “tasso” di “creatività” fisiologicamente esprimibile ed effettivamente espresso dall’operatore di giustizia.
Temo che un parametro certo, suscettibile di meccaniche e ripetitive applicazioni, non si dia e non possa darsi. Il che vale come dire che l’equilibrio al piano dei rapporti tra giudici e decisori politici è mobile, potendo fissarsi e rinnovarsi di continuo su più punti della retta che li unisce e pone in reciproco rapporto. Il modello costituzionale è, insomma, aperto; i ruoli sono, sì, anche a mia opinione bisognosi di essere tenuti distinti, risultando altrimenti pregiudicata quella separazione dei poteri che, pur nei limiti in cui da noi come altrove trova accoglienza, identifica l’essenza di ogni Costituzione di stampo liberale, secondo la efficacissima e ad oggi nient’affatto obsoleta indicazione dell’art. 16 della Dichiarazione del 1789, già richiamato in esordio di questa esposizione. È pur vero, tuttavia, che le attività di garanzia (in senso lato) e le attività di direzione politica possiedono, ciascuna, connotati loro propri inconfondibili, malgrado i tentativi periodicamente ricorrenti[30] volti a tenerli sotto traccia.
In un quadro gravato da molte ipoteche di ordine teorico, nelle quali peraltro si traduce e rispecchia un contesto istituzionale complesso e confuso, N. trova rassicurante (almeno in parte…) il ritorno al testo, quale dato anche esteriormente visibile al quale l’interprete è sollecitato ad ancorarsi e dal quale stabilmente tenersi (spec. 258 ss.)[31]. Il testo non è, infatti, mai totalmente muto, come vorrebbero le dottrine che si rifanno allo scetticismo “radicale”; invece, parla, anche se in misura e con toni continuamente cangianti, come tali idonei ad esprimere vincoli di varia intensità a carico degli interpreti.
Il testo – ci dice N., rifacendosi all’insegnamento di Popper (260) – è “criterio di falsificazione della costruzione interpretativa”; è, cioè, punto di riferimento per la “riprova” della bontà dell’interpretazione.
Qui, nuovamente, N., dopo aver svolto considerazioni apprezzabili al piano sostanziale, opta quindi nelle conclusioni per valutazioni e canoni qualificatori di formale fattura onde tenere distinti gli atti stricto sensu “normativi” da quelli restanti (e, segnatamente, da quelli giurisdizionali): il nomen iuris degli atti (legge, sentenza, ecc.), il carattere generale ed astratto delle norme, la generalità degli effetti, il carattere libero ovvero vincolato della funzione esercitata, la presenza, o no, di motivazione, soprattutto i diversi procedimenti a conclusione dei quali prendono forma gli atti giuridici, ecc. (v. un puntuale elenco a 260 s.). Eppure, come lo stesso N. non manca di far notare, non si tratta di criteri affatto sicuri (si pensi ai non infrequenti casi di leggi non generali ed astratte o di attività non libera del legislatore, di sentenze non particolari, e via discorrendo).
In realtà, i vincoli che i testi di legge possono esprimere a carico dei giudici (e degli interpreti in genere) si distendono e contraggono a fisarmonica, presentandosi in misura ora maggiore ed ora minore, esattamente così come lo sono quelli posti dalla Costituzione alla legge: alle volte, sono meramente negativi, altre volte positivi, comunque ora più ed ora meno stringenti. L’intensità prescrittiva – come a me piace chiamarla – dell’atto condizionante nei riguardi dell’atto condizionato è, dunque, assai varia[32], con la conseguenza che si rivela essere un’impresa disperata, votata a pressoché sicuro insuccesso, quella volta alla catalogazione dei vincoli stessi entro schemi pur se approssimativamente attendibili.
La forza normativa, insomma, intesa quale forza in senso sostanziale (prescrittiva, appunto), ha molti volti, persino per uno stesso documento normativo (a partire dalla stessa Costituzione)[33]; e molti volti ha, di conseguenza, anche l’attività posta in essere dagli interpreti volta a dare (a seconda dei casi, e sia pure approssimativamente) ora attuazione ed ora mera applicazione dei documenti medesimi[34].
6. La misura giusta della “discrezionalità” che può (e deve) essere concessa al giudice, apprezzabile caso per caso e secondo ragionevolezza (per una sua accezione assiologicamente qualificata) e i rimedi esperibili avverso gli eccessi di potere giurisdizionale, con specifico riguardo ai conflitti interorganici, pur nei limiti particolarmente stringenti ad essi posti dalla giurisprudenza costituzionale
A conclusione del suo lungo ed articolato percorso di ricerca, N. si interroga circa i possibili rimedi attivabili avverso i casi di riscontrato eccesso di potere giurisdizionale (263 ss.).
La buona legislazione può, al riguardo, fare molto. È chiaro che la puntualità di disposto può contenere, anche in significativa misura, la “discrezionalità” dell’interprete; alle volte, però, la soffoca, dando vita a guasti ancora maggiori dei vantaggi che pure potrebbero aversene.
Come l’esperienza ha molte volte dimostrato, laddove il dettato legislativo si presenta troppo rigido e dettagliato, lì non di rado il giudice delle leggi s’è trovato (e si trova) costretto ad intervenire per temperarlo e renderlo flessibile, al fine di poter pervenire ad un bilanciamento complessivamente appagante degli interessi in gioco, tutti – quale più quale meno – meritevoli comunque di protezione. Insomma, al giudice non conviene che sia concessa né troppa né troppo poca “discrezionalità”. Non si ha, però, un metro che consenta di far luogo ad un dosaggio buono una volta per tutte; la misura è, invece, varia e la sua determinazione, a conti fatti, non può che essere apprezzata secondo ragionevolezza: una ragionevolezza che – come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi – ha da volgersi, a un tempo, verso il basso, gli interessi oggetto di regolazione, e verso l’alto, i valori costituzionali nel loro fare “sistema”. Da entrambi i poli, la ragionevolezza prende luce ed orientamento, dal momento che essi si implicano a vicenda. Le combinazioni di valore sono, infatti, sollecitate dai casi, con gli interessi di cui essi si fanno portatori, ma questi ultimi non possono essere apprezzati come si conviene senza il necessario e costante riferimento ai valori (e, perciò, ai parametri costituzionali in cui essi si incarnano e per il cui tramite si rendono giuridicamente visibili).
Ecco perché, come vado dicendo da tempo, ogni giudizio di costituzionalità è, a conti fatti, sempre, un giudizio secondo ragionevolezza, una ragionevolezza assiologicamente qualificata.
Il rimedio sulla carta più efficace avverso le deviazioni dei giudici (ma degli organi di rilievo costituzionale in genere) dal solco entro il quale sono tenuti a stare è dato – come si sa – dal ricorso per conflitto tra poteri e dalle sanzioni che possono essere adottate in occasione della relativa risoluzione (270 ss.).
N. rammenta l’orientamento restrittivo al riguardo manifestato dalla giurisprudenza, favorevole al controllo non già in caso di cattivo esercizio della funzione bensì in quello di impossibile riconducibilità dell’atto alla funzione stessa. Non manca, però, di rilevare come i “contorni” della distinzione suddetta, “teoricamente molto netti, rischiano di sfumare un po’ in concreto” (ancora 270).
Si capisce la preoccupazione sottesa all’indirizzo giurisprudenziale in parola, nel timore, fortemente avvertito dal giudice costituzionale, che i propri verdetti possano essere intesi quali espressioni di una “forza politica” – per riprendere una fortunata formula coniata dal mio Maestro[35] – smodata e francamente intollerabile, espressiva di una vera e propria invasione di campo altrui[36].
Si tratta, nondimeno, di un indirizzo cui è assai difficile poter dare accoglienza, sol che si pensi che la Corte non è stata istituita allo scopo di acclarare i casi… certi di incostituzionalità o, come pure è stato proposto di dire[37], di anticostituzionalità, siccome risultanti da macroscopiche violazioni della Carta ad opera di atti o comportamenti che già a primo acchito appaiano dei monstra; il tribunale costituzionale deve piuttosto la ragion d’essere della propria esistenza nel bisogno di risolvere i casi dubbi (le “controversie”,secondo la testuale, non casuale, indicazione del dettato costituzionale; e “controversie” sono, ovviamente, anche i conflitti interorganici).
Ora, il cattivo esercizio della funzione, sia essa la legislativa come la giurisdizionale, è causa di annullamento dell’atto che se ne renda responsabile; la impossibile riconducibilità dell’atto alla funzione dovrebbe, invece, considerarsi causa di nullità-inesistenza. Senza, dunque, escludere che possano essere portati alla cognizione della Corte anche atti nulli, affetti cioè da invalidità in senso forte (per riprendere una nota qualifica di R. Guastini[38]) o – se più piace dire – da anticostituzionalità e che la Corte possa accertarne la radicale incompatibilità con la Costituzione[39], per norma l’invalidità è però di tipo debole (si tratta, cioè, di una mera incostituzionalità, in senso stretto), che richiede di esser sanzionata con le forme usuali dell’annullamento.
Insomma, pur comprendendosi la cautela e ritrosia della Corte in ordine alla cognizione dei casi di eccesso di potere giurisdizionale, resta ugualmente irrisolta l’aporia di costruzione sottesa all’indirizzo giurisprudenziale suddetto, tanto più se posta a raffronto con la diversa soluzione adottata in relazione ai casi di eccesso di potere legislativo.
7. Segue: La chiamata a responsabilità del giudice per errore interpretativo e la prospettiva, qui coltivata, di una possibile chiamata a responsabilità del legislatore idonea a tradursi nel risarcimento del danno causato ai diritti da leggi incostituzionali
Al di là dei (e, comunque, in aggiunta ai) rimedi esperibili sugli atti, resta poi pur sempre percorribile la strada della chiamata a responsabilità del giudice per errore interpretativo (272 ss.): una strada tuttavia in salita, impervia, che può portare alla meta unicamente in casi assai limitati ed al verificarsi di condizioni fatte oggetto di riscontro con somma oculatezza. Ed una strada, a mia opinione, meritevole di essere percorsa non soltanto con riguardo ai casi di deviazioni gravi del giudice dal solco costituzionale precostituito per le attività inerenti al suo ufficio ma anche per quelli in cui la torsione dei ruoli istituzionali si debba ad organi diversi, e segnatamente – per ciò che più importa – dei decisori politici (e, dunque, principalmente del legislatore).
Su quest’ultimo punto, di cruciale rilievo, N. non s’intrattiene a completamento del suo accurato studio; ed è un punto – come si sa – in relazione al quale dottrina e giurisprudenza da noi (e diversamente da altri ordinamenti) faticano a prendere consapevolezza di ciò che può (e deve) farsi, coltivando un campo ricco di risorse ma ad oggi non arato come si conviene.
Sono da tempo persuaso (e mi radico sempre più nel convincimento) che molte delle decisioni della Corte costituzionale in cui si lamenta l’inadempienza rispetto ad obblighi di facere gravanti sul legislatore (ad es., in ordine al “seguito” da dare alle additive di principio) ovvero di non facere (ad es., evitare di dar vita ad atti lesivi del giudicato costituzionale), obblighi – si badi –giuridicamente (e non solo politicamente) rilevanti, siano purtroppo condannate a restare lettera morta a motivo del fatto che una terapia veramente efficace per la sordità cronica del legislatore rispetto alle indicazioni dategli dalla Consulta a tutt’oggi non è stata somministrata. Certo, molti moniti contenuti in pronunzie di rigetto e rimasti inascoltati possono quindi portare al successivo accoglimento della medesima questione, per effetto di un revirement peraltro non sempre facilmente argomentabile in modo persuasivo, così come le stesse additive di principio si sono qualche volta, stranamente, convertite in additive di regola[40]. Sta di fatto però che non si è ad oggi riusciti ad inventare un modo stringente per porre rimedio alle complessive carenze della legislazione, nelle quali poi – come si è sopra accennato – sta una delle cause, e di certo tra le non secondarie, di alcune delle più vistose deviazioni istituzionali dei giudici. Se, invece, si stabilisse che può esservi altresì una responsabilità dell’erario per danni a carico dei diritti lesi da leggi incostituzionali[41] e che il risarcimento del danno può (e deve) essere non meramente simbolico, allora credo che, almeno in molti casi, il legislatore si risveglierebbe dal suo atavico torpore.
Come che sia di ciò, la lettura del libro conferma la bontà di un accreditato insegnamento, secondo cui proprio sul terreno dell’esperienza costituzionale, laddove cioè si tessono e prendono forma le relazioni al massimo livello di esercizio del potere, i precetti costituzionali risultano sorretti da sanzioni solo fino ad un certo punto, senza nondimeno per ciò vedere sminuita la loro formidabile carica deontica[42]; di lì in avanti, infatti, l’osservanza degli stessi è rimessa al senso dello Stato, al dovere di fedeltà alla Repubblica ed all’etica di cui la Carta costituzionale si fa portatrice[43].
Certo, l’equilibrio tra decisori politici e controllori (e gli atti dagli stessi adottati) resta pur sempre strutturalmente precario, soggetto a continue oscillazioni, obbligato a ricercare in se stesso sintesi complessivamente concilianti e, almeno in parte, appaganti. La luce che illumina il cammino degli operatori nondimeno non manca e non è fievole, risultando proprio da quei valori fondamentali positivizzati nei quali l’etica repubblicana rinviene la sua più genuina ed espressiva rappresentazione.
Si giunge così al termine del percorso di ricerca di N., lungo il quale – come si è veduto – si trovano disseminati spunti di largo interesse che meritano di essere ripresi e opportunamente coltivati, offrendo alimento e orientamento agli studi a venire.
Per questo verso, quella di N. resta dunque una riflessione “aperta”, che non consegna molte certezze operative né – mi pare di poter dire – era (ed è) questa la sua ambizione. Piuttosto, apre problemi nuovi; e, proprio per ciò e in ciò, ha il suo maggior pregio, com’è d’altronde tipico delle migliori indagini teoriche, che servono se ed in quanto danno la spinta e tracciano il verso per future indagini, spianando loro plurime piste da battere con profitto.
Fa piacere – in conclusione – leggere lavori come questo, che si cimentano su temi di ordine teorico e non indulgono a quelli che, con severo distacco, M.S. Giannini chiamava i “raccontini”. Lavori fatti non ad “usa e getta” ma per durare (e durare a lungo), perché provvisti di solido impianto metodico; scritti non per superare un concorso alle porte ma coi tempi giusti per la loro compiuta maturazione; lineari negli svolgimenti argomentativi ed equilibrati nelle soluzioni raggiunte, con le quali ci si deve comunque confrontare, pur laddove poi non le si condivida, ancorché solo in parte. Un lavoro, infine, che denota una sensibilità e maturità inusuali per un giovane studioso, qual è il suo autore, e che – sono certo – non passerà inosservato in seno alla cerchia degli studiosi, di diritto costituzionale e non.
[1] Un pur fugace richiamo alla legge di Hume ed al suo necessario superamento è a 45 ss.
[2] Avverso quest’ultimo, efficacemente si rileva che non “si deve necessariamente concludere che il significante sia del tutto in-significante” (29).
[3] Non si dimentichi che quest’ultima, secondo la magistrale indicazione dell’art. 16 della Dichiarazione del 1789, ha quale suo tratto identificante e perciò indisponibile la separazione dei poteri, sul cui perdurante significato N. si intrattiene specificamente a 66 ss.
[4] Così, in relazione alla presa di posizione al riguardo assunta da Corte cost. n. 138 del 2010, a 81.
[5] Ragguagli nel mio Alla ricerca del fondamento dell’interpretazione conforme, in AA.VV., Interpretazione conforme e tecniche argomentative, a cura di M. D’Amico e B. Randazzo, Giappichelli, Torino 2009, 388 ss.
[6] Riferimenti in E. Cannizzaro, Interpretazione conforme fra tecniche ermeneutiche ed effetti normativi, in AA.VV., L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea. Profili e limiti di un vincolo problematico, a cura di A. Bernardi, Jovene, Napoli 2015, 8 ss.
[7] … e, fra questi, lo stesso a. da ultimo richiamato, 5 ss.
[8] Proprio su ciò fa invece leva una pur sensibile dottrina, a cui opinione il quid proprium che connota l’interpretazione conforme, distinguendola da quella sistematica, sarebbe dato dalla “cogenza” della prima (così, da ultimo, A. Bernardi, Presentazione. Nei meandri dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, in AA.VV., L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, cit., XIII).
[9] Così, invece, ancora E. Cannizzaro, op. et loc. ult. cit.
[10] Che, poi, così facendo, lo stesso disposto che si dimostri essere incoerente col resto del tessuto normativo in cui s’inscrive, a mo’ di una pianta che non porta frutto, meriti di essere estirpato è una evenienza, ovviamente, da mettere in conto. Altro è però – uscendo di metafora – la incoerenza/irragionevolezza di un disposto ormai interpretato, quale causa del suo possibile annullamento, ed altra cosa il significato in sé posseduto dal disposto medesimo che, appunto nella sua irragionevolezza, potrebbe risultare… chiarissimo.
[11] Mi sono sforzato di argomentare quest’idea in più scritti, tra i quali L’interpretazione conforme e la ricerca del “sistema di sistemi” come problema, nel vol. coll. da ultimo cit., 153 ss., nonché in www.rivistaaic.it, 2/2014.
[12] L’utilità della comparazione negli studi di diritto e nella pratica giuridica è avvertita – come si sa – da tempo e da molti; fatica, invece, a farsi largo l’idea che essa sia – più ancora – necessaria, quanto meno per ciò che attiene all’interpretazione degli enunciati costituzionali relativi ai diritti fondamentali.
[13] Sui non lievi problemi di ordine teorico e sulla ricaduta pratica delle relative soluzioni, v., di recente e per tutti, O. Pollicino, Corte di giustizia e giudici nazionali: il moto “ascendente”, ovverosia l’incidenza delle “tradizioni costituzionali comuni” nella tutela apprestata ai diritti dalla Corte dell’Unione, in Consulta OnLine, 1/2015, 20 aprile 2015, 242 ss., e, dello stesso, ora, Servono ancora le “tradizioni costituzionali comuni” dopo la Carta di Nizza-Strasburgo?, relaz. alla Giornata di studi su La Carta dei diritti dell’Unione europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), Messina 16 ottobre 2015, in paper.
[14] Il riferimento è, ovviamente, a E. Zitelmann, Geltungsbereich und Anwendungsbereich der Gesetze. Zur Grundlegung der völkerrechtlichen Theorie des Zwischenprivatsrechts, in Festgabe der Bonner Juristischen Fakultät für K. Bergbohm, Marcus-Weber, Bonn 1919, 207 ss. (trad. it., a cura di T. Ballarino, Sfera di validità e sfera di applicazione delle leggi, in Dir. internaz., 1961, 152 ss.). Critico nei riguardi della distinzione di Z. tra Geltung e Anwendungsbarkeit delle leggi, R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale. Art. 10-15, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma 1974, 5 ss.
[15] Il mio punto di vista sulla vessata questione può, volendo, vedersi nel mio Norme e tecniche costituzionali sulla produzione giuridica (teoria generale, dogmatica, prospettive di riforma), in Pol. dir., 2/1987, 175 ss., con le ulteriori precisazioni che sono in La legge come fonte sulla normazione?, in Studi in onore di Franco Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011, 3083 ss., nonché in www.osservatoriosullefonti.it, 2/2010. Ha, ancora da ultimo, fatto propria la tesi, nella quale non mi riconosco, favorevole alla posizione di norme sulla normazione in atti della medesima specie o forza di quelli regolati P. Pinna, La disposizione valida e la norma vera, FrancoAngeli, Milano 2015.
[16] In argomento, di recente, C. De Fiores, Interpretazione delle leggi e interpretazione costituzionale, in Dir. soc., 1/2015, 13 ss.
[17] Sulle non poche né lievi questioni di ordine teoriche che al riguardo si pongono si è, da ultimo, intrattenuto P. Faraguna, Ai confini della Costituzione. Principi supremi e identità costituzionale, FrancoAngeli, Milano 2015.
[18] Vi sono leggi, infatti, che si sottraggono ai canoni valevoli per le altre, quali quelle che danno esecuzione ai trattati internazionali e che si presentano a mo’ di “contenitori” che rimandano, in ordine alla loro comprensione, ai canoni stabiliti per gli atti cui fanno rinvio. A loro volta, i trattati non si interpretano tutti allo stesso modo: ad es., la CEDU – ci dice la giurisprudenza costituzionale – va intesa così come la intende la Corte di Strasburgo ma gli indirizzi interpretativi messi a punto da quest’ultima sono vincolanti per gli operatori di diritto interno unicamente se “consolidati” (sent. n. 49 del 2015). Ricorrendo siffatta condizione, poi, occorre distinguere: se la norma convenzionale “vivente” appare compatibile con la Costituzione – sta scritto nella decisione appena cit. –, essa potrà (e dovrà) assunta a parametro dell’interpretazione delle leggi nazionali, obbligata perciò a conformarvisi; qualora, di contro, dovesse apparire irrispettosa della Carta costituzionale, occorrerà sollevare una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la legge di esecuzione “nella parte in cui”. Ove, poi, l’indirizzo del giudice europeo non dovesse risultare “consolidato”, l’operatore di diritto interno potrà discostarvisi, specificamente nel caso che lo stesso si presenti di dubbia conformità a Costituzione (e, a maggior ragione, se di certa incostituzionalità).
Come si vede, si danno leggi per le quali i canoni di cui all’art. 12 prel. potrebbero non valere; anzi, è pressoché certo che non valgano, specie ove si consideri che – come si è veduto – le leggi nazionali si interpretano nel loro fare “sistema” con le leggi a contorno, delle quali ovviamente non si fanno cura i giudici non nazionali, quale la Corte EDU.
[19] V. l’ormai classica Theorie der Rechtsquellen. Ein Beitrag zur Theorie des positiven Rechts auf Grundlage dogmenhistorischer Untersuchungen, Deuticke, Leipzig-Wien 1929.
[20] Frequenti e consistenti le “modifiche tacite” del parametro ad opera non solo dei decisori politici ma anche degli stessi garanti, a partire dal massimo di essi (si rammenti, per tutte, la riscrittura del Titolo V operata dalla Consulta, al fine di rimediare a sviste e carenze dell’autore della riforma del 2001).
[21] … a riguardo del quale – come si sa – il dibattito si è molto infittito, specie per ciò che concerne i rapporti tra Corti europee e Corti nazionali [riferimenti e notazioni di vario segno in T. Giovannetti – P. Passaglia, La Corte ed i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2011-2013), a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2014, 389 ss.; L. Tria, La tutela dei diritti fondamentali. Le tecniche di interrelazione normativa indicate dalla Corte costituzionale. L’abilità di usare il patrimonio di sapienza giuridica ereditato dal passato per preparare il futuro, in www.cortecostituzionale.it, dicembre 2014; C. Amalfitano – M. Condinanzi, Unione europea: fonti, adattamento e rapporti tra ordinamenti, Giappichelli, Torino 2015, 126 ss. e 168 ss.; G. D’Amico, La massima espansione delle libertà e l’effettività della tutela dei diritti,in AA.VV., Il diritto e il dovere dell’uguaglianza. Problematiche attuali di un principio risalente, a cura di A. Pin, Editoriale Scientifica, Napoli 2015, 17 ss.; G.M. Salerno, I diritti fondamentali tra le tradizioni costituzionali comuni e i controlimiti a tutela dell’identità costituzionale, in Il Filangieri, Quad. 2014 su Unione europea e principi democratici, Jovene, Napoli 2015, 103 ss.; A. Spadaro, Sull’aporia logica di diritti riconosciuti sul piano internazionale, ma negati sul piano costituzionale. Nota sulla discutibile “freddezza” della Corte costituzionale verso due Carte internazionali: la CSE e la CEAL,inConsulta OnLine, 2/2015, 3 giugno 2015, e, dello stesso, ora, La “cultura costituzionale” sottesa alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, fra modelli di riferimento e innovazioni giuridiche, relaz. alla Giornata di studio su La Carta dei diritti dell’Unione Europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), cit., in paper].
[22] Nei fatti, di contro, non poche sono le resistenze a far valere fino in fondo, e coerentemente, il principio in discorso, manifestate tanto dalle Corti europee quanto dalle nazionali ed espressive di un “patriottismo” costituzionale esasperato e, a mia opinione, controproducente.
[23] Un esempio per tutti: l’abrogazione tacita, il cui riscontro è rimesso a ciascun interprete, non di rado peraltro svolgendosi su un terreno scivoloso e punteggiato da molte insidie.
Confesso di faticare a comprendere come mai la dottrina corrente rigetti in modo secco ogni orientamento teorico di stampo sostanziale (o, meglio, assiologico-sostanziale), quale quello in cui mi riconosco a riguardo della ordinazione delle fonti in sistema, specie facendo leva sull’argomento che ne verrebbe gravemente pregiudicata la certezza del diritto, senza poi avvedersi che la stessa è comunque, fisiologicamente, a rischio in talune esperienze universalmente accettate, quale quella sopra in via meramente esemplificativa richiamata in relazione all’avvicendamento delle norme nel tempo.
[24] Ad es., annotando Corte cost. n. 113 del 2011 (v., dunque, volendo, il mio Il giudicato all’impatto con la CEDU, dopo la svolta di Corte cost. n. 113 del 2011, ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, in www.rivistaaic.it, 2/2011).
[25] Per tutti, R. Romboli, Natura incidentale del giudizio costituzionale e tutela dei diritti: in margine alla sentenza n. 10 del 2015, in Quad. cost., 3/2015, 607 ss. (nello stesso fasc. sono numerosi altri commenti, in larga misura critici, a Corte cost. n. 10 del 2015).
[26] Questa considerazione può vedersi nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Giappichelli, Torino 2009, 8, con richiamo ad un pensiero di R. Bin.
[27] Ho affacciato quest’appunto critico, unitamente ad altri, nel mio Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990, con gli ulteriori svolgimenti dativi in Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi – M. Cavino – J. Luther, Giappichelli, Torino 2011, 349 ss.
[28] Le sentenze normative della Corte costituzionale è l’emblematico titolo di un noto studio di G. Silvestri, in Scritti su la giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, I, Cedam, Padova 1985, 755 ss. Più di recente, v. le precisazioni che sono in C. Panzera, Sentenze “normative” della Corte costituzionale e forma di governo, in AA.VV., La ridefinizione della forma di governo attraverso la giurisprudenza costituzionale, a mia cura, ESI, Napoli 2006, 497 ss. e, dello stesso, amplius, ora, Interpretare Manipolare Combinare. Una nuova prospettiva per lo studio delle decisioni della Corte costituzionale, ESI, Napoli 2013.
[29] Non si trascuri, infatti, che vi sono atti “generali” e, ciononostante, usualmente considerati non “normativi”; e ciò senza tacere le non poche riserve di ordine teorico-pratico che investono l’idea stessa di “generalità” e il suo pratico riscontro.
[30] … e ancora di recente avanzati – convengo, con fine argomentazione –, quale quello di O. Chessa, Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo, Jovene, Napoli 2010 e, dello stesso, Capo dello Stato, politica nazionale e interpretazione costituzionale. Una replica ai critici, in www.forumcostituzionale.it, 24 gennaio 2012.
[31] Sul rilievo del testo in sé e per sé insiste – come si sa – una nutrita schiera di studiosi (per tutti, M. Luciani, L’interprete della Costituzione di fronte al rapporto fatto-valore. Il testo costituzionale nella sua dimensione diacronica, in Dir. soc., 1/2009, 1 ss.).
[32] … alle volte scemando quanto più si sale lungo la scala gerarchica; e basti solo considerare come proprio le norme apicali dell’ordinamento, i principi fondamentali, si trovino gravemente esposti a loro anche incisive manipolazioni semantiche, a motivo della singolare apertura della struttura nomologica che li connota: come si è fatto, ancora da ultimo notare, essi si presentano “duri e iscalfibili quanto, ossimoricamente, indeterminati e dunque plasmabili” (A. Bernardi, Presentazione. Nei meandri dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, cit., XVII).
[33] E questo spiega come l’ordine delle fonti secondo forma possa essere persino ribaltato su se stesso, non di rado la forza sostanziale, nel senso appena precisato, di un testo legislativo dimostrandosi maggiore di quella propria del dettato costituzionale, tanto da non essere infrequenti i casi in cui si fa luogo ad un’interpretazione non già della legge in senso conforme a Costituzione bensì di quest’ultima orientata verso la prima.
[34] Riconduce, di contro, l’operato del giudice sempre all’applicazione delle legge M. Luciani, Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in www.rivistaaic.it, 3/2012, 3 luglio 2012, spec. al § 4, ma passim, e, dello stesso, Garanzie ed efficienza nella tutela giurisdizionale, in www.rivistaaic.it, 4/2014, 10 ottobre 2014, e, su di lui, però, i rilievi di R. Bin, in più scritti, tra i quali I principi costituzionali: uso e applicazioni, in Roma e America. Diritto romano comune, 34/2013, 215 ss., spec. 224 ss. In realtà, non poche volte – come si viene dicendo nel testo – il giudice è chiamato ad estrarre da un dettato legislativo fatto a maglie larghe (e, talora, larghissime) e, perciò, estremamente carente regole in esso non esplicitate; e così pure, ad es., laddove si tratti di dare seguito a pronunzie additive di principio della Corte costituzionale ovvero a fare “applicazione” (rectius, “attuazione”) diretta dei principi costituzionali, svolgendo pertanto un’attività in tutto e per tutto (se non per gli effetti) eguale a quella posta in essere dal legislatore. Di una “co-produzione” normativa tra giudici e legislatore ragiona, ora, anche A. Gusmai,Giurisdizione, interpretazione e co-produzione normativa, Cacucci, Bari 2015.
[35] Di T. Martines, v., almeno, l’ormai classico Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Giuffrè, Milano 1957, ora in Opere, I, Giuffrè, Milano 2000, spec. 196 ss.
[36] Gli stessi sentimenti tornano a manifestarsi in altri ambiti materiali di esperienza: ad es., con riguardo alle condizioni al ricorrere delle quali la Corte ritiene di poter esperire il proprio sindacato sui decreti-legge, sotto lo specifico aspetto della “evidente mancanza” dei presupposti fattuali giustificativi della loro adozione.
[37] A. Spadaro, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, ESI, Napoli 1990, 262 ss.
[38] Tra gli altri suoi scritti, v. Dalle fonti alle norme2, Giappichelli, Torino 1992, 207 ss.
[39] Forse, però, come si è fatto notare in altri luoghi, la soluzione più lineare sarebbe quella di una pronunzia di manifesta inammissibilità di questioni aventi ad oggetto atti radicalmente nulli (“non-leggi”, “non-sentenze”, ecc.), accompagnata dall’accertamento della loro “anticostituzionalità”.
[40] È invero singolare che, ferma la “situazione normativa” di partenza – come a me piace chiamarla –, la Corte possa spingersi alla produzione di quelle regole dapprima esclusa in nome del doveroso rispetto nei riguardi della “discrezionalità” del legislatore.
[41] L’ipotesi ora ragionata è stata coraggiosamente avanzata da R. Conti, Il rilievo della CEDU nel “diritto vivente”: in particolare il segno lasciato dalla giurisprudenza “convenzionale” nella giurisprudenza dei giudici comuni, in AA.VV., Crisi dello stato nazionale, dialogo intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, a cura di L. D’Andrea – G. Moschella – A. Ruggeri – A. Saitta, Giappichelli, Torino 2015, 87 ss., con riguardo ad una fattispecie determinata (la mancanza di disciplina legislativa per le coppie dello stesso sesso) ma con soluzione a mia opinione generalizzabile, sempre che risulti provato che la lesione del diritto costituzionale sia conseguenza diretta, immediata e necessaria del vuoto legislativo.
[42] Il punto è da tempo rilevato dalla migliore dottrina: ha finemente osservato F. Modugno, Norma (teoria gen.), in Enc. dir., XXVIII (1978), 346, esser la coattività attributo non già delle singole norme bensì dell’intero ordinamento cui esse appartengono, dal quale “si trasmette distributivamente” alle norme stesse. Dal suo canto, M. Mazziotti di Celso, Norma giuridica, in Enc. giur., XXI (1990), 5, ha fatto acutamente notare che, pur laddove facciano difetto sanzioni efficaci a garanzia dell’ordinato svolgimento delle relazioni tra gli organi supremi, si sarebbe in presenza di un fatto che, “per paradossale che ciò possa apparire, è una conseguenza della ragion d’essere della coercibilità”. Sulle sanzioni in diritto costituzionale e sui limiti della loro efficacia, v., per tutti, L. Ventura, Le sanzioni costituzionali, Giuffrè, Milano 1981.
[43] Il fondamento e la garanzia, a un tempo, della tipizzazione dei ruoli istituzionali sta, dunque, nel dovere di fedeltà alla Repubblica, per una sua densa, particolarmente espressiva accezione (ne ha, di recente, fatto oggetto di una fine ricostruzione teorica A. Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano 2013).