Accordi e disaccordi: ancora sul ‘tempo’ per l’equa riparazione all’offeso e l’irragionevole durata delle indagini (Corte cost. n. 203 del 2021)

Sembra alimentare distanze quello scambio di battute tra la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale sul delicato tema della tutela dell’offeso dal reato che, determinatosi a ottenere ristoro nella sede penale, subisce le più profonde patologie del sistema inefficiente e della conseguente declaratoria di prescrizione già nella fase investigativa.
Alla base dell’ulteriore ordinanza di rimessione alla Consulta, questa volta, v’è stata sempre l’adduzione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, con riferimento alla posizione della parte civile (avendo riguardo agli artt. 3 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 paragrafo 1, CEDU) destinataria di una pregressa decisione di estinzione dei reati per prescrizione ancorata alla durata irragionevole delle indagini preliminari.
È noto l’attrito tra la norma suddetta e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a mente della quale nel diritto italiano la posizione della parte lesa che, in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e facoltà ad essa riconosciuti dalla legislazione interna, non differisce, per quanto riguarda l’applicabilità dell’art.  6 CEDU, da quella della parte civile (Corte EDU, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia).
Ma già con la sentenza n. 249 del 2020 (per un commento v. https://www.diritticomparati.it/le-due-vie-per-il-ristoro-economico-delloffeso-dal-reato-che-escludono-lequa-riparazione-per-irragionevole-durata-delle-indagini-preliminari-corte-cost-n-249-del-2020/), pubblicata successivamente all’ordinanza di rimessione, la Corte delle leggi aveva scandagliato l’assetto generale, posto a base del codice di procedura penale del 1988 e ispirato a quell’idea di separazione dei giudizi: da una parte quello penale e, dall’altra, quello finalizzato alla soddisfazione delle pretese risarcitorie della persona offesa, che rimane- malgrado le più recenti prospettive che ne valorizzano le prerogative- un soggetto «eventuale del procedimento o del processo» (cfr. Corte cost., ord. n. 254 del 2011 e n. 339 del 2008).
In quell’occasione, la lettura della Corte costituzionale aveva valorizzato, in special modo, la doppia via percorribile dall’offeso per il conseguimento del ristoro economico al fine di escludere l’irragionevolezza nella diversità dei modi di intendere la fase investigativa per l’accusato a norma di quell’art. 2, comma 2-bis, della legge “Pinto”. Quasi a voler sostenere che, optando per l’esercizio dell’azione civile in seno al rito penale, l’offeso accetti il rischio dei condizionamenti, anche temporali, derivanti da quell’accessorietà che regola i rapporti – nel sistema vigente- tra azione penale e azione civile.
In proposito, anche la più recente esegesi costituzionale (Corte cost. n. 182 del 2021) ha richiamato il principio dell’“accessorietà” dell’azione civile rispetto a quella penale, che ha fondamento nelle “esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”. La sua naturale implicazione sta proprio nelle ricadute sull’azione civile che, ove esercitata all’interno del processo penale, “è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura” di quest’ultimo (Corte cost. n. 176 del 2019).
Superati i tecnicismi utili a ribadire l’impossibilità di assimilare il segmento del processo precedente all’esercizio dell’azione penale e il segmento successivo, sede tipica della costituzione di parte civile, onde rafforzare la ragionevolezza della diversificata tutela conseguente alla violazione della ragionevole durata per offeso e accusato, la Consulta- però- ha dovuto prender atto dell’ultima decisione della Corte europea dei diritti umani  nel caso “Petrella c. Italia” (Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella c Italia).
Seguendo la scia segnata dalla sentenza pronunciata nel caso “Arnoldi c. Italia”, con la sua ultima decisione la Corte di Strasburgo ha inteso aggiungere un tassello ulteriore agli assetti convenzionali di tutela della vittima avendo riguardo, nello specifico, non solo all’assenza di differenze sostanziali tra offeso e parte civile ai fini dell’operatività dell’art. 6 CEDU e del diritto alla durata ragionevole ma, altresì, alle aspettative di giustizia per la vittima che abbia optato per l’azione civile in sede penale.
Nella decisione “Petrella c. Italia”, la Corte di Strasburgo ha infatti vagliato la possibile lesione dell’art. 13 CEDU a causa dell’assenza di un rimedio effettivo nell’ordinamento interno, volto a contestare la durata irragionevole del procedimento, avendo il ricorrente criticato il rimedio rappresentato dalla legge Pinto, inadeguato poiché applicabile alla vittima solo nell’ipotesi di costituzione di parte civile. Sul punto i Giudici europei hanno dichiarato all’unanimità la violazione del parametro convenzionale in discorso, fugando ogni dubbio nell’accertamento della mancanza nell’ordinamento italiano di un rimedio effettivo finalizzato a porre in capo alla vittima uno strumento per lamentare l’irragionevole durata del procedimento penale.
Alla base del vaglio sulla violazione del right to court della vittima la Corte di Strasburgo ha posto la seguente premessa: se l’ordinamento permette all’interessato di tutelare il suo diritto in una sede giudiziaria, devono essere assicurate tutte le garanzie di cui all’art. 6 CEDU; e questo anche nell’ipotesi in cui egli avrebbe comunque la facoltà di agire avvalendosi di un’altra strada consentita dal sistema, con un ribaltamento- quindi- di quella prospettiva promossa dalla Consulta nella sentenza n. 249 del 2020.
Si tratta di aspetto che, per un attimo, ha fatto vacillare le convinzioni della Corte costituzionale, che non ha potuto che prender atto delle obiettive inerzie dell’autorità giudiziaria, le quali, perpetrandosi senza reali giustificazioni, portano alla chiusura del procedimento per decorso del tempo di prescrizione già nella fase investigativa. Le considerazioni di Strasburgo, come ha ben rilevato la Corte, «evidenziano la reale esistenza nell’ordinamento italiano di un problema effettivo – connesso, ma non coincidente, con quello oggetto dell’odierna questione – concernente il riconoscimento di un diritto della persona offesa (della “vittima del reato”, secondo la terminologia europea di recente adottata anche dal nostro legislatore) a un sollecito svolgimento delle indagini preliminari in vista di una altrettanto sollecita decisione sulla pretesa di risarcimento del danno da reato».
Ma la titubanza è stata solo apparente.
La presa d’atto dei malfunzionamenti sistemici, infatti, non ha indotto il Giudice delle leggi a individuare una soluzione nella declaratoria di illegittimità della norma che disciplina la decorrenza del computo del termine di ragionevole durata.
A prevalere, nell’ottica della Corte, è stata ancora la logica del sistema e la legalità in senso stretto che, in quanto tale, non può comportare una correzione dell’articolo censurato tale da rimettere al giudice dell’equa riparazione, alla luce delle circostanze del caso concreto, la determinazione della congruità del termine di durata in ragione delle modalità di esercizio di alcuno dei diritti e delle facoltà riconosciuti dall’ordinamento interno alla persona offesa, ove l’esercizio di tali diritti e facoltà miri, nella specie, a far valere un diritto di carattere civile e preannunci l’intenzione di costituirsi parte civile nel giudizio penale.
Il pregiudizio derivante, ex post, dalla scelta per una delle due possibilità offerte all’offeso dall’ordinamento per far valere il suo «diritto di carattere civile», sebbene metta a nudo i difetti del sistema, lesivi delle prerogative sia delle vittime che degli imputati, non è di per sé imputabile all’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui tale norma determina la durata considerata ragionevole del processo penale per la parte civile.  Da tale congegno, infatti, esulano i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti.
L’accrescersi costante del ruolo della vittima non può cancellare la prevalenza delle esigenze tipiche in seno al rito penale, che non assurge a luogo di “vendetta privata”, né a sede di ristoro puramente economico del danno derivante dall’illecito. Le soluzioni, probabilmente, sono da individuare altrove e ne ha contezza la Corte costituzionale, che sembra riporre un ragionevole affidamento nelle prospettive di giustizia riparativa contemplate nella Delega per la riforma del sistema penale (L. 27 settembre 2021, n. 134). In effetti non può nascondersi che, se messi concretamente in atto, i meccanismi di restorative justice avranno la potenzialità di ribaltare l’odierna prospettiva: e cioè favorire quell’incontro per la riparazione tra offeso e offensore in modo da evitare, poi, l’accesso al giudice anche per lamentare l’irragionevole durata del procedimento, con guadagni significativi per l’efficienza e la tutela dei diritti individuali.