Fulton v. Philadelphia: la Corte Suprema USA scrive una nuova pagina di giurisprudenza sul conflitto tra libertà religiosa e diritti delle persone LGBT; o forse no?
Il 17 giugno 2021, la Corte Suprema statunitense ha deciso il caso Fulton v. City of Philadelphia [593 U.S. _2021]; la controversia aveva ad oggetto l’attività di collocamento dei minori presso famiglie affidatarie e la relativa funzione di selezione e di certificazione di idoneità delle famiglie che aspirino, appunto, ad accogliere un minore. Tale attività, nella municipalità di Philadelphia, come in altre città americane, si avvale dell’opera di numerose agenzie private, che interagiscono con gli organi pubblici e costituiscono il cardine principale su cui ruota il foster-care service nella sua interezza; tra queste, la Catholic Social Services (CSS), ente direttamente dipendente dalla diocesi di Philadelphia, impegnata da moltissimi anni nello svolgimento del servizio in questione.
Le ragioni dell’attrito tra la CSS e le istituzioni cittadine risiedono nel rifiuto da parte dell’organizzazione cattolica di certificare, come possibili famiglie affidatarie, quelle composte da persone sposate dello stesso sesso nonché – è bene evidenziarlo – quelle formate da coppie, anche eterosessuali, non sposate; la città della Pennsylvania aveva quindi tentato di forzare la mano della CSS, prima imponendo tra le clausole contrattuali un divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale e poi, a fronte dell’inottemperanza dell’ente, sospendendo qualsiasi rapporto di collaborazione con la CSS, inibendole quindi lo svolgimento di ogni attività nell’ambito dei servizi di affidamento dei minorenni.
La pronuncia dei giudici di Washington D.C., adottata all’unanimità, ribalta le sentenze delle due Corti federali di grado inferiore, che avevano entrambe deciso il caso in senso favorevole alle ragioni della municipalità di Philadelphia.
Contrariamente a quanto forse si potrebbe pensare, per le particolari vicende da cui è scaturita la controversia, la decisione è totalmente imperniata sulla Free Exercise Clause di cui al I Emendamento, e quindi sulla libertà religiosa; il divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale, che tradizionalmente passa attraverso le maglie del XIV Emendamento alla Costituzione americana, non ha avuto accesso, neppure marginalmente, alle prospettazioni delle parti né, tanto meno, al reasoning della Corte. La consonanza dei nove giudici intorno alle rivendicazioni della CSS si è, in realtà, sfrangiata in quattro diverse opinion, quella della Corte, a firma del Chief Justice Roberts, e tre concurring, sottoscritti, rispettivamente, dalla giudice Barrett e dai Justice Alito e Gorsuch, questi ultimi in aperto contrasto con l’opinione principale sotto il profilo dell’iter argomentativo.
La sentenza si inscrive, appunto, nel solco della copiosa e frastagliata giurisprudenza della Corte americana sul I Emendamento e, proprio per questo, necessita di essere contestualizzata, almeno sommariamente, alla luce dei suoi precedenti, la cui analisi e ricostruzione ha trovato peraltro ampio spazio nella corposa opinione concorrente firmata dal giudice Alito. Nella materia in questione, il punto di partenza è rappresentato dal caso Sherbert v. Verner [374 U.S. 398 1963], in cui la Corte Warren aveva elaborato il c.d. Sherbert test, stabilendo che le leggi suscettibili di incidere la libertà religiosa dovessero superare uno strict scrutiny, soddisfacendo essenzialmente due condizioni: la sussistenza di un compelling interest statale alla cui tutela la legge doveva essere finalizzata e l’assenza di strumenti alternativi ugualmente capaci di proteggere il suddetto interesse, ma meno restrittivi nei confronti della libertà religiosa.
L’operatività dello Sherbert test era stata poi fortemente ridimensionata dalla successiva sentenza della Corte Suprema Employment Division, Department of Human Resources of Oregon v. Smith [494 U.S. 872 1990]; in questo caso, la maggioranza dei giudici, con una opinion a firma del Justice Scalia, aveva escluso l’applicabilità del test Sherbert a fronte di una normativa neutrale e generalmente applicabile – nel caso di specie, si trattava di una norma penale incriminatrice – che non avesse come oggetto immediato e diretto la pratica religiosa, ma si limitasse a colpire la libertà sancita dalla Free Exercise Clause solo in maniera incidentale e, potremmo dire, di riflesso; al singolo risultava quindi preclusa la possibilità di invocare un’eccezione alla legislazione generale nei propri confronti in ragione della propria fede.
Peraltro, come ci ricorda il giudice Alito nel suo concurring, il nuovo standard di scrutinio, elaborato nella sentenza Smith, si era rivelato di difficile applicazione e foriero di non poche contraddizioni sul piano pratico, tanto è vero che il Congresso aveva tentato di ripristinare lo Sherbert test per via legislativa, una prima volta nel 1993 con il Religious Freedom Restoration Act (RFRA), ritenuto, però, dalla Corte di Washington non applicabile alla legislazione dei singoli Stati (City of Boerne v. Flores), e una seconda volta nel 2000 con il Religious Land Use and Institutionalized Persons Act (RLUIPA), riferito esclusivamente alla legislazione federale.
In effetti, si può dire che il caso Fulton ruoti sostanzialmente intorno al possibile overruling di Smith, evocato dai ricorrenti, caldeggiato dai giudici Alito, Gorsuch e Thomas, ma arginato dal Chief Justice e dai giudici che hanno aderito all’opinione principale.
La motivazione della Corte, alquanto stringata se si considera la rilevanza degli interessi in gioco, si basa su un’operazione ermeneutica, di ortopedia interpretativa potremmo dire, estremamente sofisticata e quasi funambolica: lungi dallo smentire definitivamente Smith, la Corte si focalizza e fa leva su un segmento specifico del suo reasoning, ove si afferma che qualora la legislazione incidente sulla libertà religiosa prospetti un meccanismo per garantire individualized exceptions, tale legislazione non potrà essere considerata, per sua stessa natura, suscettibile di general applicability. In sostanza, se è la normativa stessa a prevedere che i singoli possano essere esentati dall’obbligo di conformarvisi, questa non potrà definirsi come normativa a carattere generale e non potrà pertanto beneficiare del tipo di scrutinio, più facilmente superabile, prospettato da Smith.
È esattamente questo il percorso argomentativo imboccato dall’opinione della Corte: forzando le maglie della normativa statale vigente in materia e delle clausole contrattuali che regolavano i rapporti tra la municipalità di Philadelphia e la CSS, Roberts ha evidenziato come la possibilità di un’esenzione dal divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale fosse, in realtà, astrattamente prevista, escludendo quindi la natura generally applicable delle norme in questione e sancendo l’illegittimità della condotta adottata dagli organi di Philadelphia e, in particolare, del loro rifiuto di stipulare nuovi contratti con la CSS in relazione ai servizi di affidamento, qualora l’ente cattolico non avesse acconsentito a certificare come famiglie affidatarie anche quelle same-sex.
È questo un aspetto di indubbia criticità della decisione della Corte, che i giudici Alito e Gorsuch non hanno mancato di sottolineare nelle rispettive opinion; in effetti, nell’elaborazione del Chief Justice, la questione non viene risolta, bensì aggirata, lasciando al soggetto pubblico la possibilità di evitare future censure di costituzionalità riformulando la normativa e il regolamento contrattuale in senso coerente al dettato della sentenza Smith, con il rischio che la controversia tra le parti si riapra su nuove basi, protraendosi sine die.
Lo stesso giudice Alito ha poi evidenziato come Smith si puntellasse a sua volta sul precedente Minersville School District v. Gobitis [310 U.S. 586 1940], decisione tra le più impopolari assunte a Washington D.C. e destinata ad essere soppiantata, in tema di libertà religiosa, soltanto tre anni più tardi, da West Virginia Board of Education v. Barnette [319 U.S. 624 1943], forse la più celebre e citata pronuncia della Corte Suprema dopo Marbury v. Madison.
Come già accennato, la concurring opinion di Alito contiene un’accurata ricostruzione della libertà religiosa nel contesto costituzionale statunitense e ciò non soltanto con riferimento alla giurisprudenza della Supreme Court, ma anche con particolare attenzione al modo in cui tale diritto è stato elaborato in chiave storica e diacronica, partendo dalle Carte coloniali per arrivare alle Costituzioni degli Stati odierni. Certo, l’indagine del Justice Alito è indubbiamente guidata da un intento di matrice testualista e originalista, finalizzata al recupero dell’original public meaning del I Emendamento e, più precisamente, della Free Exercise Clause, snaturato dalla sentenza Smith e da una parte della giurisprudenza ad essa successiva.
In primo luogo, il Justice correttamente evidenzia come la libertà religiosa negli Stati Uniti non si limiti, storicamente, a parlare il linguaggio della non discriminazione, vale a dire che tale diritto, nel contesto americano, non implica meramente un divieto di discriminazione, una sorta di aspirazione alla parità di trattamento della condotta dettata dalla fede religiosa rispetto alla condotta che potremmo definire laica o secolare; una costruzione di tale diritto in questi termini comporterebbe che qualsiasi legge che non mirasse a colpire direttamente la pratica religiosa o la libertà di culto dovrebbe essere considerata, almeno in linea di massima, costituzionalmente legittima; è questo, appunto, lo standard sostanzialmente delineato dalla sentenza Smith.
Inoltre, Alito rileva come la storia dell’applicazione del I Emendamento sia, anche e soprattutto, la storia della giurisprudenza sulle esenzioni da determinati obblighi di legge che i singoli possono invocare a tutela della propria libertà religiosa; così è avvenuto, ad esempio, per quanto riguarda l’obbligo di prestare giuramento così come per l’obbligo di prestare il servizio militare e in numerose altre fattispecie, puntualmente individuate dal Justice; i casi in cui invece un’esenzione da un obbligo di legge veniva negata sono, pressoché esclusivamente, quelli in cui la condotta del singolo avrebbe rappresentato una minaccia per la pace o la sicurezza pubblica o l’ordine pubblico.
Se una parziale incoerenza rispetto all’impianto testualista può ravvisarsi nelle parole di Alito, essa risiede proprio nel fatto che il giudice rivendica alle Corti il ruolo di custodi della religious liberty, mentre Smith aveva sostanzialmente radicato o quanto meno tentato di radicare questa funzione nel processo politico e nelle mani del legislatore; come sappiamo, invece, i sostenitori dell’original meaning sono, tradizionalmente, fautori del judicial restraint e del primato della volontà del legislatore o del Costituente sull’interpretazione giudiziaria.
È inevitabile, poi, che, tanto nell’opinione di Alito quanto in quella di Gorsuch, faccia la sua comparsa il fantasma, neppure troppo evanescente, di Masterpiece Cakeshop, il caso del pasticciere obiettore nei confronti del matrimonio same-sex (sul quale si veda C. De Santis, https://www.diritticomparati.it/la-mia-religione-non-lo-permette-la-corte-suprema-usa-fonda-il diritto-allobiezione-di-coscienza-nei-confronti-del-matrimonio-sex/) che la Corte ha scelto di decidere alla luce della Free Exercise Clause, aprendo forse più questioni e problemi di quanti sia riuscita a risolverne.
Peraltro, a parere di chi scrive, i due casi non sono sovrapponibili, in primo luogo perché diversissima è, nelle due fattispecie, la cornice normativa. In secondo luogo, è ben diverso obbligare un privato, fornitore di beni o servizi, a non discriminare tra i propri clienti in base all’orientamento sessuale, ove la sua prestazione non implica alcuna adesione alle scelte di vita o ai valori morali del committente che il fornitore non condivida; altro è pretendere che un ente che rappresenta a tutti gli effetti una costola della Chiesa cattolica certifichi l’idoneità di famiglie affidatarie composte da persone dello stesso sesso, atto che certamente implicherebbe, quanto meno, il riconoscimento di quelle unioni in aperto contrasto con i principi della dottrina cattolica. Non si dimentichi che la CSS di Philadelphia non certificava neppure l’idoneità di coppie eterosessuali non sposate, mentre nella valutazione dell’affidamento a persone singole prescindeva da qualsiasi indagine in merito all’orientamento sessuale.
Peraltro, non si può non concordare con i giudici Alito e Gorsuch quando evidenziano come la pandemia da Covid-19, con tutte le limitazioni e le restrizioni che ha comportato in tutti gli ambiti della vita sociale, ivi comprese la partecipazione alle funzioni religiose e l’espressione del culto, abbia imposto un ripensamento della libertà religiosa e della giurisprudenza della Corte Suprema in materia; pronunce come Roman Catholic Diocese of Brooklyn v. Cuomo [592 U.S. _ 2020] (su cui si veda Michele M. Porcelluzzi, https://www.diritticomparati.it/senza-celebrazioni-non-si-puo-vivere-la-liberta-religiosa-in-tempo di-covid-19-e-la-corte-suprema-americana/) hanno dimostrato non solo quanto sia difficile individuare il giusto termine di comparazione, in ambito secolare, per capire se si sia verificata o meno una limitazione illegittima della religious liberty, sia, soprattutto, quanto sia scivoloso e accidentato il terreno sul quale, in base alla sentenza Smith, si dovrebbe stabilire se una legge miri direttamente o meno ad incidere la libertà religiosa.