Un passo avanti e uno indietro: la Consulta sull’ergastolo ostativo opta per il rinvio con monito
Sulla questione dell’ergastolo ostativo la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 97 del 2021, torna ad utilizzare, per la terza volta, la tecnica decisoria di recente conio del rinvio «ad incostituzionalità differita» (prendendo a prestito l’espressione di M. Bignami; i primi due casi, com’è ampiamente noto, sono l’ord. n. 207 del 2018, sul suicidio assistito, e la n. 132 del 2020, sulle pene detentive per diffamazione nei confronti dei giornalisti), con una scelta che era stata anticipata dal comunicato stampa pubblicato al termine di una Camera di Consiglio probabilmente piuttosto sofferta (visto che è proseguita a distanza di alcuni giorni).
Come è accaduto già in occasione dei previ impieghi di detta formula, si tratta di un’ordinanza di rinvio che non si limita a contenuti di tipo processuale, ma che motiva ampiamente sulla questione, con argomentazioni diffuse che sarebbero tipiche, piuttosto, di una sentenza di merito e che anticipano una valutazione di incompatibilità della disciplina sub judice rispetto alle norme costituzionali.
Del resto, i vicini precedenti sul tema del regime di cui all’art. 4-bis ord. pen. costituiti dalla decisione della medesima Corte Costituzionale in materia di permessi premio (sent. n. 253 del 2019) e dalla sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Edu nel caso Viola per violazione dell’art. 3 Cedu non potevano non avere un peso. Così, l’ordinanza n. 97 del 2021 compie in effetti quel passo in avanti che ci si attendeva (cfr., ad esempio, gli esiti del seminario preventivo ferrarese), estendendo anche rispetto all’accesso alla liberazione condizionale le considerazioni critiche contenute in entrambi gli arresti circa il carattere assoluto della presunzione di pericolosità sociale del condannato per delitti di contesto mafioso che non abbia (pur potendolo fare) utilmente collaborato con la giustizia. La posizione della Consulta è ben definita ed in linea con quella – comunque assai cauta – espressa nel proprio antecedente più diretto: non si esclude il rilievo e l’utilità della collaborazione, riconosciuti dalla legislazione premiale, ma se ne “neg[a] la compatibilità con la Costituzione se ed in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale” (punto 6 del Considerato in diritto, ultimo periodo; corsivi aggiunti). Pertanto, alcune rationes decidendi poste a fondamento della sentenza n. 253 del 2019 “valgono per le questioni all’odierno esame”, per cui il carattere assoluto della presunzione “impedisce […] alla magistratura di sorveglianza di valutare […] l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.” (punto 7 del Considerato in diritto; corsivi aggiunti). Per quanto, dunque, la Corte usi in alcuni passaggi un frasario meno limpido di quanto fatto in altre occasioni – adoperando il vocabolo “tensione” per indicare il rapporto tra la presunzione assoluta e il principio rieducativo della pena (come nota A. Morrone) o tralasciando l’interessante riferimento alla “libertà di non collaborare” contenuto nella sentenza n. 253/2019 – ciò non vale a sminuire la chiarezza e la nettezza dell’affermata incostituzionalità dell’automatismo legislativo.
Per questa via, il giudice delle leggi riannoda i fili delle due argomentazioni possibili sul tema: quella più tecnica, che fa leva sulla illegittimità delle presunzioni assolute (e riguarda tutti i tipi di condanna, comprese quelle a termine, e l’accesso a tutti i tipi di benefici), e quella, più connotata assiologicamente, legata al tema della pena perpetua e alla necessità costituzionale e convenzionale che esista un possibilità de jure e de facto di farla cessare dopo un certo numero di anni, valutato il “sicuro ravvedimento” del condannato, consentendo il suo rientro nel consesso sociale. Ed è quest’ultimo, senz’altro, il versante più drammatico, nel quale “la posta in gioco è ancora più radicale” rispetto al caso precedente relativo ai permessi premio.
Proprio queste ragioni avrebbero potuto indurre la Corte ad un atteggiamento di rigore nell’applicazione dei precetti costituzionali. Invece, il giudice costituzionale, giunto sin qui, ad un tratto, fa un passo indietro e spezza la linea di continuità rispetto alla decisione n. 253/2019, optando per il già ricordato rinvio, accompagnato dall’invito al legislatore ad intervenire.
L’uso di questa tecnica decisoria – già esposta a molti rilievi critici di carattere generale, tra i quali spicca la contraddittorietà di fondo tra l’idea che spetti solo al legislatore definire gli interventi necessari e quella che sia possibile, per il giudice delle leggi, decidere per un accoglimento laddove il termine assegnato al Parlamento scada infruttuosamente – risulta qui particolarmente stonato proprio in considerazione della incoerenza rispetto al diretto e più vicino precedente.
In quell’occasione, la Corte aveva infatti ritenuto di poter intervenire con una pronuncia manipolativa che restituisse al giudice la valutazione in concreto del singolo caso, sulla base di una serie di elementi non completamente definibili a priori, collocandosi nella scia di un nutrito e consolidato filone giurisprudenziale che declina il principio di ragionevolezza come «razionalità pratica» (M. Cartabia; moltissime le decisioni riconducibili a questo orientamento: cfr., ad esempio, già Corte Cost., sent. n. 303/1996 e, di recente, sent. n. 149/2018). E già in quella sede, aveva indicato – attraverso un’addizione introduttiva di elementi ampiamente rassicuranti rispetto agli interessi di difesa sociale, quali l’indicazione che il giudice, in vista della concessione dei permessi premio, dovesse escludere il pericolo di ripristino dei legami con l’associazione criminale di provenienza – le modalità volte a far sì che le valutazioni rispondessero a criteri di particolare rigore (secondo quanto richiesto nell’ordinanza in commento, al punto 9 del Considerato in diritto).
Non si comprendono, dunque, in questo caso, le ragioni giuridiche per le quali la Consulta abbia invece ritenuto di dover attendere un futuro intervento del legislatore, peraltro improbabile (almeno alla luce dell’esperienza dei due precedenti rinvii con monito). Tutti gli argomenti apportati appaiono, infatti, piuttosto singolari rispetto alle acquisizioni della pluriennale esperienza della giustizia costituzionale: così, il riferimento all’intervento meramente demolitorio possibile per la Consulta non sembra tenere conto dell’armamentario predisposto dalla Corte medesima nei decenni e utilizzato nel precedente sopra richiamato; e i possibili tratti di incoerenza del sistema risultante dall’accoglimento avrebbero potuto essere agevolmente superati mediante l’utilizzazione dell’istituto dell’illegittimità consequenziale, come fatto, appunto, nella sent. n. 253/19. Né convince il richiamo alla “preferenza” espressa per l’intervento per via legislativa dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Viola: dopo quasi due anni, il Parlamento è ben lontano dall’approvazione di una legislazione che rimuova la violazione convenzionale e nessuna delle iniziative citate dalla Corte è in uno stadio che faccia anche solo ipotizzare una possibile sollecita conclusione.
Più in generale, il rinvio sembra contraddire proprio l’opzione di fondo di restituire al giudice lo spazio valutativo del caso concreto, chiamando in qualche modo il legislatore a porre ulteriori vincoli rispetto all’accertamento del “sicuro ravvedimento”, un requisito che già implica un grado di predizione assai intenso e che viene in effetti riscontrato, nella prassi giudiziaria, con molta parsimonia, se si considerano i numeri davvero ridotti delle liberazioni condizionali concesse agli ergastolani non ostativi.
Del resto, i suggerimenti che la Corte dà al Parlamento non paiono del tutto a fuoco, poiché fanno riferimento a possibilità già in essere e che sarebbe assai problematico irrigidire. L’emersione degli specifici motivi della mancata collaborazione può senz’altro essere un elemento da considerare per il giudice, ma anche ad essa non si può assegnare un valore decisivo, se si considera che, al riguardo, la Corte stessa pone il problema del diritto al silenzio rispetto a possibili autoincriminazioni per fatti non giudicati. Quanto alla eventualità di peculiari prescrizioni che regolino il periodo di libertà vigilata, essa già esiste e la relativa scelta è inevitabilmente rimessa al giudice in correlazione con la specifica situazione del singolo condannato.
Semplicemente, si trattava (e forse, tra un anno, si tratterà) di restituire la discrezionalità della valutazione alla magistratura di sorveglianza.
La pressione in senso contrario esercitata sulla Corte da una certa parte dell’opinione pubblica e della magistratura, soprattutto requirente, pare trasparire nella precisazione che la Consulta sente di dover fare circa la non concedibilità della liberazione condizionale ai condannati in costanza di assoggettamento al regime ex art. 41-bis ord. pen. La considerazione è ineccepibile, dal momento che le gravi deroghe che tale sistema comporta rispetto al comune trattamento penitenziario sono fondate proprio sulla ritenuta attuale sussistenza di contatti con l’organizzazione criminale di provenienza; ma è, appunto, talmente ovvia da risultare superflua e da poter essere spiegata solo in chiave “comunicativa”.
Proprio tale preoccupazione mediatica della Corte (su cui, recentemente, in una prospettiva più ampia v. S. Pajno) non può non destare qualche perplessità di carattere più generale rispetto alla capacità della stessa di esercitare una funzione contro-maggioritaria, connaturata al suo stesso ruolo di garanzia costituzionale. E non si può non constatare come il meccanismo del rinvio con monito si inserisca a pieno titolo tra quelli che, in definitiva, consentono la perdurante applicazione di discipline la cui incostituzionalità è esplicitamente riconosciuta dalla Consulta stessa. Si tratta di un problema non nuovo, del quale, anche recentemente, si sono avute altre espressioni ancora più eclatanti (si pensi alla sentenza n. 41/2021 sui giudici di pace). Ma tale constatazione non può certo rassicurare, tanto più che, in questo caso, vengono in gioco, per chi continua a subire gli effetti di una normativa incostituzionale, la privazione della libertà personale e la violazione dell’art. 3 Cedu, norma convenzionale che non prevede la possibilità di eccezioni o deroghe.