La cedevolezza degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento in una pronuncia “caleidoscopica” della Corte costituzionale
1.La sentenza n. 41 del 2021 della Corte costituzionale pare segnare un ulteriore passo verso la costruzione di un diritto processuale costituzionale di matrice prevalentemente giurisprudenziale.
Il giudice delle leggi si è pronunciato sulla questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di Cassazione della disciplina della figura dei giudici ausiliari di appello, istituiti allo scopo di fronteggiare l’arretrato delle corti d’appello in materia civile e inseriti stabilmente nei collegi delle sezioni delle corti d’appello in qualità di magistrati onorari (artt. da 62 a 72 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98).
Nel dirimere la questione, la Corte, dopo aver ripercorso approfonditamente le riforme che hanno interessato la magistratura onoraria nel sistema processuale italiano, a partire dall’Unità d’Italia e fino alle più recenti iniziative volte alla sua riforma organica (legge 28 aprile 2016, n. 57 e d. lgs. 13 luglio 2017, n. 116), ha esaminato la conformità della normativa impugnata all’art. 106, primo e secondo comma, Cost., ricostruendo il significato del parametro costituzionale alla luce sia dei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, sia degli orientamenti della stessa giurisprudenza costituzionale.
La Corte ha concluso per la fondatezza della questione, ritenendo che l’istituzione di una tipologia di magistrato onorario assegnatario di funzioni attribuite a giudici tipicamente collegiali e di secondo grado, quali le corti d’appello, e incardinato in misura stabile e permanente all’interno di tali collegi, violi il «perimetro invalicabile» delineato per la magistratura onoraria dalla Costituzione. L’art. 106, infatti, nell’abilitare la legge sull’ordinamento giudiziario alla nomina di magistrati onorari «per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli», ha tracciato un profilo funzionale della magistratura onoraria circoscritto, di fatto, alle funzioni del giudice monocratico di primo grado. Lo svolgimento di funzioni collegiali da parte di magistrati onorari può ritenersi conforme al parametro costituzionale, ad avviso della Corte, solo per incarichi di supplenza, attribuiti in situazioni eccezionali e per periodi di tempo limitati, laddove il loro inserimento strutturale presso organi giudiziari che svolgono funzioni esclusivamente collegiali si pone, invece, in «radicale contrasto» con l’art. 106 Cost., introducendo nell’organizzazione della giustizia una figura del tutto «fuori sistema» e non riconducibile alle figure di «giudici singoli».
2.Alla luce dell’articolato apparato argomentativo dispiegato dalla Corte a sostegno della tesi della fondatezza delle questioni sollevate, ne sarebbe dovuta discendere, coerentemente, una dichiarazione di illegittimità costituzionale tout court della disciplina dei giudici ausiliari d’appello.
La Corte, tuttavia, dopo aver accertato l’illegittimità costituzionale delle norme censurate all’esito del controllo di conformità ai parametri costituzionali invocati, opera – sulla scia di un’impostazione inaugurata con la nota sentenza n. 10 del 2015 – un bilanciamento tra l’interesse costituzionalmente rilevante alla piena applicazione della regola della retroattività degli effetti dell’accoglimento della questione, funzionale alla più ampia rimozione degli effetti giuridici prodotti nell’ordinamento giuridico dalla normativa incostituzionale, e l’interesse alla funzionalità del sistema dell’amministrazione della giustizia, parimenti dotato di rilievo costituzionale, suscettibile di essere pregiudicato dagli effetti retroattivi dell’incostituzionalità.
Attraverso tale bilanciamento, la Corte enuclea una valutazione sull’«impatto complessivo» che la decisione di illegittimità costituzionale è destinata a produrre nell’ordinamento. La tendenza ad effettuare siffatta valutazione si rivela tanto più frequente e consistente quanto più complesse vanno configurandosi le domande di giustizia costituzionale indirizzate alla Corte. Alla complessità della trama di interessi costituzionalmente rilevanti che entrano in gioco nei giudizi costituzionali, si affianca, tuttavia, un’evoluzione del modo in cui la Corte tende a concepire se stessa e il proprio ruolo nel sistema costituzionale, dalla quale discende, sul piano empirico, l’evoluzione dei poteri di governo e di disposizione delle regole dei giudizi costituzionali.
Se, infatti, la richiamata operazione di bilanciamento interno si inscrive pienamente nel perimetro del giudizio sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge – custodito nell’art. 134, primo alinea, Cost. – le considerazioni sviluppate nei punti dal 21 al 23 del Considerato in diritto evidenziano, invece, la crescente preminenza acquisita, attraverso la via giurisprudenziale, da una più ampia e generale funzione di custode della legalità costituzionale dell’ordinamento giuridico. Una funzione che, oltrepassando i confini del petitum del giudizio di costituzionalità, scorge il suo fondamento teorico nel ruolo di «custode della Costituzione nella sua integralità» di cui la Corte è titolare (sent. n. 10 del 2015). Tale ruolo si traduce, in concreto, nell’obbligo, per il giudice costituzionale, di evitare che la declaratoria di incostituzionalità determini «effetti ancor più incompatibili con la Costituzione» (sent. n. 13 del 2004) di quelli prodotti dalla disposizione censurata, o la lesione di «altri valori costituzionali di pari – e finanche superiore – livello» (sent. n. 41 del 2021).
3.Su questo presupposto, la sentenza chiama in causa, nella sua ultima parte, due profili centrali del “governo” dei giudizi costituzionali, sui quali si sono registrate, non a caso, le più significative innovazioni creative e “fughe in avanti” del giudice delle leggi: da un lato, la modulazione degli effetti temporali delle pronunce di accoglimento e, dall’altro, l’elaborazione in via pretoria di inedite tecniche e tipologie decisorie. La Corte, evidenziando il rischio di un «grave pregiudizio all’amministrazione della giustizia», quale conseguenza del mero accoglimento della questione, opta, attraverso la «sperimentata tecnica della pronuncia additiva», per una soluzione che accordi «al legislatore un sufficiente lasso di tempo» per assicurare «la necessaria gradualità nella completa attuazione della normativa costituzionale». La Corte quindi inserisce, nella normativa censurata, «un termine finale entro (e non oltre) il quale il legislatore è chiamato a intervenire», il 31 ottobre 2025, data già prevista dal legislatore per la completa entrata in vigore della riforma della magistratura onoraria.
Pur configurandosi pertanto, sul piano formale, come sentenza additiva di accoglimento della questione, la sentenza presenta tuttavia caratteri “caleidoscopici”, che ne mettono in risalto forme e connotati diversi a seconda del punto di osservazione prescelto. Ciò, se da un lato costituisce un indubbio stimolo per la “fantasia tassonomica” dello studioso, dall’altro lato può rappresentare il sintomo di alcune criticità sistematiche.
In prima battuta, guardando al dispositivo, la Corte sembra elaborare una inedita tipologia di sentenza additiva, nella quale la novità attiene al quid dell’addizione, vale a dire, l’inserimento di un termine finale di efficacia della normativa impugnata. Attraverso tale operazione la Corte conferisce alla norma censurata il carattere di provvisorietà, prevenendo in tal modo gli effetti pregiudizievoli che dalla piena retroattività dell’incostituzionalità sarebbero derivati sul funzionamento del sistema delle corti di appello.
Per altro verso, guardando al contenuto e agli effetti sostanziali del ragionamento enucleato dalla Corte, si ravvisa una nuova fattispecie di scissione tra accertamento dell’incompatibilità della normativa impugnata con la Costituzione e caducazione della norma stessa. Essa assume i contorni di una pronuncia di mera incompatibilità, con differimento nel tempo del momento di produzione degli effetti dell’incostituzionalità, che, oltre a riecheggiare, per certi aspetti, strumenti elaborati nella giurisprudenza del BVG tedesco (in particolare, quello della Unvereinbarerklärung), presenta analogie con altre tipologie decisorie, già elaborate dalla Corte, caratterizzate dalla modulazione degli effetti temporali.
La pronuncia, infatti, condivide con queste ultime la richiamata esigenza di impedire situazioni di incostituzionalità di maggiore o uguale gravità di quella rimossa. La sentenza n. 41, tuttavia, non si limita a sacrificare gli effetti retroattivi dell’incostituzionalità, ma pospone il termine finale di vigenza della normativa impugnata a un dies futuro stabilito dalla stessa Corte in via del tutto discrezionale – seppure con un collegamento all’entrata in vigore della riforma della magistratura onoraria. Ciò dischiude la porta alla “temporanea persistenza” di una normativa di rango primario non conforme a Costituzione e, tuttavia, pienamente applicabile e produttiva di effetti giuridici per ulteriori quattro anni.
La sentenza presenta, inoltre, affinità con quelle nelle quali, in vario modo, l’accertamento dell’incostituzionalità si accompagna al rigetto della questione sollevata, in ragione della natura provvisoria della norma censurata, che ne giustifica una temporanea tollerabilità nell’ordinamento, o in funzione di monito al legislatore affinché intervenga sulla materia. Tuttavia, a differenza di queste tipologie di pronunce, nella sentenza n. 41 è la Corte stessa a conferire alla norma impugnata, attraverso il proprio intervento manipolativo-additivo, il carattere di provvisorietà. Quella che, a una mera lettura del dispositivo, si presenterebbe come una sentenza di accoglimento additiva, può essere letta, in ottica rovesciata, come sentenza di rigetto, nella quale è l’intervento manipolativo compiuto dalla Corte a consentire la temporanea salvezza della norma censurata.
Qualche più sfumata analogia pare ravvisabile, infine, con la tecnica decisoria caratterizzata da una prima ordinanza di sospensione del giudizio di costituzionalità, che accerta il vizio della norma impugnata ma non la dichiara incostituzionale, assegnando al legislatore un termine entro il quale provvedere alla sua modifica, cui segue una sentenza che, in caso di perdurante inerzia, dichiara la norma incostituzionale (ord. n. 207 del 2018; ord. n. 132 del 2020). Questa tecnica decisoria, pur discostandosi da quella in esame, produce il medesimo effetto sostanziale della permanenza nell’ordinamento, per un periodo di tempo limitato e nella prospettiva di una sua futura sostituzione o modifica, di una normativa viziata da incostituzionalità.
4.La pronuncia conferma la tendenza della Corte alla sperimentazione e creazione di tecniche decisionali sempre più distanti non solo dall’alternativa secca accoglimento/rigetto, ma anche dalle plurime tipologie di pronunce interpretative enucleate nell’esperienza storica della giustizia costituzionale. Ciò solleva diversi profili di criticità tanto sul piano della legittimazione del giudice costituzionale e dell’evoluzione della sua posizione nella dinamica della forma di governo, quanto sul piano del progressivo mutamento della funzione e dei connotati del processo costituzionale.
Quanto al primo profilo, la proliferazione di tipologie decisorie che derogano alla “grande regola” della retroattività, custodita dall’art. 136 Cost. e dall’art. 30 della legge n. 87 del 1953, solleva problematiche di ordine tanto teorico quanto pratico circa il rapporto tra la giustizia costituzionale e la gestione del fattore tempo nelle decisioni della Corte. Se da un lato l’argomento teorico-sistematico che fonderebbe il potere della Corte di disporre degli effetti temporali delle sue decisioni e delle regole procedurali che è chiamata ad applicare – vale a dire il riconoscimento del ruolo di custode della Costituzione nella sua integralità – appare certamente dotato di fondamento, dall’altro lato l’uso di un’elevata discrezionalità, tanto nella selezione delle tecniche decisorie da adoperare quanto nella modulazione degli effetti delle pronunce, sembra suscettibile di innescare un indebolimento della certezza e prevedibilità del diritto della giustizia costituzionale e delle stesse decisioni della Corte.
Quanto al secondo profilo, la pronuncia conferma una tendenza all’ampliamento, attraverso la fonte giurisprudenziale, degli strumenti di gestione del processo costituzionale, delle tecniche decisorie, degli effetti spaziali e temporali delle pronunce. Tale tendenza alimenta interrogativi sulla direzione evolutiva della funzione e dei caratteri strutturali del processo costituzionale, in particolare alla luce del legame a doppio filo che intercorre, come da tempo rilevato da autorevole dottrina, tra il grado di discrezionalità adoperato dalla Corte nel governo dei propri giudizi e il carattere più o meno giurisdizionale del processo costituzionale; carattere, quest’ultimo, che, come sottolineava alcuni anni or sono Alessandro Pizzorusso, costituisce il miglior presidio dell’indipendenza e della funzionalità della Corte.
Il sacrificio delle posizioni soggettive coinvolte nel giudizio a quo che consegue al differimento del pieno dispiegamento degli effetti dell’incostituzionalità si traduce, inoltre, nella messa in discussione del senso stesso del giudizio in via incidentale, il quale, perdendo del tutto la sua “anima concreta” connessa alla dimensione della tutela dei diritti, si trasfigura in un giudizio del tutto astratto e oggettivo, nel quale anche il controllo sulla rilevanza della questione sollevata smarrisce, a posteriori, parte della sua ragion d’essere, racchiusa proprio nel rapporto di pregiudizialità tra giudizio a quo e giudizio costituzionale.
Dinanzi a queste linee di tendenza, si stagliano, sullo sfondo, le molteplici questioni inerenti all’esigenza di un intervento sulla normativa positiva sulla giustizia costituzionale, non solo sul fronte delle fonti autonome della Corte, ma anche, probabilmente, su quello delle fonti eteronome. Una tale opera di aggiornamento normativo potrebbe perseguire non soltanto il fine di chiarire, specificare e limitare (nel senso più virtuoso del termine) i poteri di gestione, da parte della Corte, degli effetti temporali delle sue pronunce e delle tecniche e tipologie decisorie adoperate, ma anche, su un piano più generale, quello di rafforzare il grado di certezza e prevedibilità del diritto della giustizia costituzionale, con indubbi riflessi sulla legittimazione della Corte e dei suoi poteri nell’ordinamento costituzionale.
Letta alla luce dell’articolato contesto che si è tentato di tratteggiare, la sentenza n. 41 del 2021 rappresenta, dunque, solamente l’ultimo avvenimento, in ordine di tempo, di un “romanzo costituzionale” in fieri, destinato quasi certamente ad alimentarsi di ulteriori futuri capitoli.