A margine di una recente sentenza della Corte di Giustizia UE (C-748/18): riflessi sinistri sulla disciplina delle intercettazioni in Italia
Deve indurre a riflettere l’ultima sentenza della Corte di Giustizie UE in materia di violazioni della privacy sebbene per esigenze di accertamento del reato e sicurezza sociale. Proprio il bisogno di combattere le diverse forme di criminalità induce spesso a pensare che tutto sia consentito alle autorità preposte alla tutela della collettività: enfatizzando la contrapposizione fra bene e male, la tendenza ad incentivare l’uso delle intercettazioni è istillata sempre più dall’idea di un’inevitabile restrizione delle libertà in favore della sicurezza, sul presupposto che il probo cittadino non avrebbe nulla a temere e, anzi, una sua eventuale resistenza sarebbe quantomeno sospetta (S. Rodotà, Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in M. Bovero (a cura di), Quale libertà. Dizionario minimo contro i falsi liberali, Roma-Bari, 2004, p. 56).
Immediatamente vincolante per i giudici estoni, la sentenza della Grande Sezione del 2 marzo 2021 (C-748/18) sulla portata dell’art. 15 par. 1 della Direttiva 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, potrebbe spiegare effetti anche sulla normativa italiana in materia di intercettazioni riformata nel 2020.
Nella sua incapacità di assicurare nel concreto quella segretezza di cui si diceva ambasciatrice, la novella – pur focalizzata sulla corretta conservazione dei dati all’interno degli uffici di procura – lascia aperta la strada a propaggini diffusive dei dati intercettati, allargandone le possibilità di un uso aliunde e a strascico a prescindere dall’autorizzazione di un giudice terzo e imparziale e pure per finalità estranee alla lotta contro reati di una consistente gravità (v. art. 270 c.p.p. e il regime circolatorio ivi disciplinato). È un fenomeno pericoloso, allarmante, immediato effetto di congegno processuale che, sulla scorta di un’originaria e legittima compressione dei diritti individuali, consente che se ne perpetrino altre, a discapito della riserva di giurisdizione, con un consistente sacrificio di quel diritto alla segretezza delle comunicazioni intimamente legato alla dignità di ogni persona. E in un contesto simile, scorrendo tra le righe della sentenza C-748/2018 del Collegio europeo, si coglie la divaricazione tra i due livelli di tutela: se a livello interno certi princìpi appaiono sbiaditi, a livello europeo riemergono nella loro cromia, con la loro portata ordinatrice della funzione normativa e dell’esperienza pratica.
È dal principio di proporzionalità che la Corte di Lussemburgo prende l’abbrivio per affermare che soltanto la lotta contro le forme gravi di criminalità e la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica sono idonee a giustificare ingerenze gravi nei diritti fondamentali sanciti dagli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: tali misure devono essere appropriate, strettamente proporzionate allo scopo perseguito, necessarie in una società democratica, soggette a idonee garanzie conformemente alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Si tratta dello stesso principio di proporzionalità che, occorre ricordalo, aveva guidato anche la Corte costituzionale per il vaglio di compatibilità delle ingerenze non previamente autorizzate con l’art. 15 Cost. (Corte cost., 24 febbraio 1994, n. 63), ora accantonato dalla riforma della disciplina italiana delle intercettazioni (L. 28 febbraio 2020, n. 7) secondo una logica liberticida senza precedenti.
Il controllo occulto sulle comunicazioni rappresenta una “rete a strascico” nella quale restano impigliate informazioni di ogni tipo. La possibilità per gli Stati membri di giustificare una limitazione ai diritti e agli obblighi previsti dalla Direttiva 2002/58 deve essere valutata misurando la gravità dell’ingerenza che una limitazione siffatta comporta e verificando che l’importanza dell’obiettivo di interesse generale perseguito mediante questa limitazione sia correlata alla gravità dell’ingerenza suddetta. Con tali affermazioni la Corte europea ribadisce la necessità a che l’intrusione nella vita privata sia circoscritta a procedure aventi per scopo non la prevenzione bensì la lotta contro quelle forme gravi di criminalità, senza che possa farsi questione su altri fattori, sui dosaggi caso per caso, basati, ad esempio, sulla durata del periodo di ingerenza nella vita privata.
Affiora ancora e con forza l’importanza del canone di proporzionalità in astratto, al quale affidarsi per calibrare la compressione dei diritti individuali secondo criteri razionali e orientati alla scala di valori ricavabile dalle normative sovralegali, senza possibilità di puntare in via sostitutiva sul vaglio di proporzionalità in concreto e su valutazioni discrezionali dell’utilizzatore dei dati emersi dai controlli occulti. Taluni costi individuali, insomma, possono infliggersi solo quando la posta in gioco lo giustifica: la componente di “necessarietà” del mezzo, a perseguire l’accertamento del reato, esige che siano chiariti con precisione i presupposti della speciale operazione investigativa e non indulge alla flessibilità di criteri come la mera utilità o l’opportunità dell’intervento autoritativo (§ 45).
Ma è anche un altro il profilo rilevante che traduce profili di incompatibilità della disciplina domestica con lo statuto dei diritti fondamentali dell’Unione. La Grande Sezione, proseguendo con la stessa forza degli impeti iniziali, si rifugia nella tipicità delle condizioni sostanziali e procedurali che disciplinano l’utilizzo dei risultati dell’ingerenza nella vita privata (§ 49) e palesa l’intransigenza sull’essenzialità del controllo preventivo del giudice, quale condizione preliminare a qualsiasi intrusione nella sfera privata dell’individuo, anche quella meno forte consistente nell’accesso ai tabulati.
I passaggi procedurali sono presto messi in luce: a seguito di una richiesta motivata da parte delle autorità interessate, è necessario l’intervento del giudice. E anche in caso di urgenza debitamente giustificata, il controllo deve intervenire entro termini brevi (§ 51). Nessun alleggerimento nelle incombenze degli inquirenti può essere tollerato, nessuna libertà nelle forme di ingerenza nei diritti individuali, che devono sempre essere assoggettate al previo avallo del giudice.
Viene toccato, così, il nodo essenziale della riserva di giurisdizione, sulla quale la Corte europea non si risparmia, descrivendone i tratti con dovizia di particolari. Quel preliminare controllo autorizzativo della intrusione nella vita privata richiede «che il giudice […] disponga di tutte le attribuzioni e presenti tutte le garanzie necessarie per garantire una conciliazione dei diversi interessi e diritti in gioco. Per quanto riguarda, più in particolare, un’indagine penale, tale controllo preventivo richiede che detto giudice sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso» (§ 52).
Le affermazioni categoriche non si arrestano e hanno un risvolto immediato nella pretesa a che «il requisito di indipendenza che l’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che avanza la richiesta, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna» (§ 54). Dal piano più generale si slitta a quello specifico del ruolo dell’inquirente, che offre alla Corte l’occasione per alcune specificazioni: «il requisito di indipendenza implica che l’autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l’azione penale. La circostanza che il pubblico ministero sia tenuto, conformemente alle norme che disciplinano le sue competenze e il suo status, a verificare gli elementi a carico e quelli a discarico, a garantire la legittimità del procedimento istruttorio e ad agire unicamente in base alla legge e al suo convincimento, non può essere sufficiente per conferirgli lo status di terzo» (§§ 54, 55, 56).
Il quadro è chiaramente tracciato.
Prescrizioni legali improntate alla proporzionalità e riserva di giurisdizione costituiscono i due poli entro i quali può muoversi e gestirsi l’ingerenza nella vita privata per la lotta contro gravi situazioni di criminalità; due poli che non ammettono equivalenti e dai cui confini nessuna legislazione nazionale può fuoriuscire onde mantenersi entro la cornice tracciata dalle fonti normative sovralegali imperniate sul concetto di dignità umana.
È persino superfluo spendere altre parole. Quelle della Corte di Giustizia, poste al confronto con il regime che consente l’uso di intercettazioni non previamente autorizzate pure in ipotesi di allarme sociale non elevato, fanno cogliere con la giusta enfasi la distanza che intercorre tra il dover essere e l’essere: il bisogno di un ripristino dei capisaldi che dovrebbero essere comuni a qualsiasi Stato di diritto si addensa a fronte della disciplina dell’uso no-limits degli esiti captati. Non è superfluo invece invocare l’intervento di un’alta Corte interna, a cui spetterà, anche in virtù degli ammonimenti del Giudice europeo, il ripristino degli assetti costituzionali e di quella proporzionalità in astratto della quale sembrano essersi perse le tracce.