Se il decreto vien di sabato… Prime riflessioni sul recesso della Turchia dalla Convenzione di Istanbul
1.Confermando un trend avviatosi con la controversa nomina di Melih Bulu a rettore dell’Università Boğaziçi, l’istituzione di due nuove facoltà nella medesima e la nomina di Irfan Fidan alla Corte costituzionale, la Gazzetta Ufficiale di sabato 20 marzo 2021 ha visto la pubblicazione di un nuovo e controverso decreto presidenziale. Il decreto presidenziale n. 3781 ha infatti dichiarato il recesso della Turchia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul.
La vicenda si inserisce in un lungo dibattito circa il contenuto della Convenzione che ha interessato la politica turca sin dalla ratifica della stessa e che si è esacerbato nell’estate del 2020. Il 2 giugno, infatti, il portavoce dell’AKP Numan Kurtulmus ha dichiarato in una intervista che la Convenzione ha introdotto nell’ordinamento turco concetti contrari alla concezione tradizionale di famiglia esistente nel paese con particolare riferimento al riconoscimento dei diritti della comunità LGBTQIA+ e degli orientamenti sessuali non binari.
Nonostante tali elementi non si rinvengano esplicitamente nel dettato della Convenzione, che si limita ad impegnare gli Stati nella protezione e promozione dell’uguaglianza di genere nonché nella punizione delle violenze di genere e delle violenze domestiche, questa dichiarazione ha dato l’avvio a profonde riflessioni nella società turca, fornendo l’occasione di nuove polarizzazioni. Da un lato, i settori più conservatori della società hanno colto l’occasione per ribadire la necessità del recesso, probabilmente vincolando a quest’ultimo anche il futuro sostegno elettorale all’AKP; dall’altro, le donne, a prescindere dalla propria appartenenza politica, hanno immediatamente evidenziato che un qualunque atto di recesso sarebbe stato fatto oggetto di ricorso presso la Corte costituzionale. Rileva, in tal senso, anche il sostegno dell’associazione KADEM, co-fondata dalla figlia del Presidente (Sumeyye Erdoğan Bayraktar), che ha più volte sottolineato come la Convenzione di Istanbul rappresenti uno strumento imprescindibile per assicurare la tutela contro le violenze di genere in un paese dove, solo dall’inizio del 2021, si sono svolti 71 femminicidi. Più in generale, non può tacersi la profonda divisione del mondo politico sull’argomento – un sondaggio METROPOL ha rivelato una trasversale opposizione ad un recesso della Convenzione – che, in un primo momento, era sembrata far propendere per un impegno ai sensi dell’art. 72 della Convenzione affinché il testo della stessa fosse emendato ed ha quindi reso ancor più sconcertante l’improvvisa pubblicazione del decreto presidenziale di recesso.
2.Dal punto di vista del diritto internazionale, si ricorda che la Convenzione prevede ex art. 80 la possibilità di denuncia mediante notifica al Segretario Generale del Consiglio d’Europa con effetto a partire dal primo giorno del mese successivo alla scadenza di tre mesi dalla ricevuta notifica. Tuttavia, un così importante allontanamento dall’acquis del Consiglio potrebbe comportare rilevanti conseguenze da parte del Comitato dei Ministri e della PACE, come si evince dal Comunicato congiunto emesso già il 21 marzo dal Presidente del Comitato dei Ministri, Heiko Maas, e dal Presidente della PACE, Rik Daems. Allineandosi alle posizioni già espresse dalla Segretaria Generale del Consiglio, Marija Pejčinović Burić, questi ultimi hanno infatti ricordato sia il ruolo fondamentale avuto proprio dalla Turchia per la realizzazione e l’entrata in vigore della Convenzione, sia l’importante vulnus alla tutela dei diritti delle donne e alle procedure costituzionali che il recesso comporta.
Probabilmente, questa reazione concorre a spiegare anche perché nel primo comunicato emesso dalla Direzione per le Comunicazioni della Presidenza della Repubblica all’indomani del decreto si sia cercato di collocare la scelta turca per il recesso nel quadro del più ampio dibattito europeo circa i contenuti della Convenzione di Istanbul. Questo documento conferma, infatti, l’impegno della Turchia nella protezione delle donne contro la violenza di genere al momento della ratifica della Convenzione e ribadisce che le ragioni del recesso risiedono nell’utilizzo strumentale che della stessa stanno facendo alcuni gruppi affinché venga utilizzata per ‘normalizzare l’omosessualità, che è incompatibile con i valori tradizionali e della famiglia della Turchia’ (trad. mia). Il comunicato ricorda inoltre come le stesse motivazioni siano state addotte per avviare le procedure di recesso in Polonia nonché per giustificare la mancata ratifica in Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Lettonia, Lituania e Slovacchia. Si cerca dunque di evitare che la Turchia appaia come un paese isolato – nonostante sia l’unica, sin ora, ad aver concretamente dato avvio alle procedure di recesso – anche sottolineando che, a prescindere dalla Convenzione, i diritti delle donne e il contrasto alle violenze domestiche sono parte del Piano d’Azione sui Diritti Umani presentato il 2 marzo 2021, in linea con le esistenti norme costituzionali, con la legge n. 6284 sulla protezione della famiglia e la prevenzione delle violenze contro le donne, nonché con gli impegni assunti ai sensi della CEDAW.
3.A prescindere da quale sia il livello di impegno che la Turchia saprà assicurare al contrasto alle violenze contro le donne, dal punto di vista del diritto costituzionale non mancano riflessioni che denunciano il carattere controverso della scelta presidenziale. In primo luogo, si pone una questione relativa alla costituzionalità della fonte, che non sembra essere sanata dal riferimento, nel decreto di recesso, all’art. 3 decreto presidenziale n. 9 del 15 luglio 2018. Quest’ultimo stabilisce al primo comma che la sospensione o il recesso dai trattati internazionali debba essere realizzato con decreto presidenziale, in evidente contrasto con l’art. 90 della Costituzione in cui si stabilisce che la ratifica dei trattati internazionali debba avvenire solo mediante legge della Grande Assemblea Nazionale, a seguito della quale un atto formale di ratifica è richiesto al Presidente. A ciò si aggiunga che l’art. 90 come emendato nel 2004 stabilisce che i trattati internazionali in materia di diritti umani correttamente ratificati acquisiscono un rango superiore alla legge ordinaria. È pertanto opportuno avanzare dubbi circa la possibilità che il recesso possa essere realizzato con un decreto presidenziale che, dal punto di vista procedurale, non prevede alcun tipo di coinvolgimento del Parlamento né nella fase di approvazione né successivamente. Questa fonte è stata infatti introdotta con la riforma costituzionale del 2017 e non necessita di conversione, ma si configura come una fonte autonoma disciplinata dall’art. 104, c. 17, della Costituzione. Tuttavia, rispetto alla sua relazione con la legge ordinaria e con le disposizioni in materia di diritti umani, il menzionato comma sembra essere chiaro. Esso dispone, infatti, che il Presidente della Repubblica può emettere decreti presidenziali su questioni relative al potere esecutivo e che i diritti fondamentali, i diritti individuali e i diritti politici non possono essere oggetto di tali decreti, né essi possono regolare materie su cui esiste una riserva di legge. In caso di contrasto tra un decreto ed una legge, la legge prevale e i decreti presidenziali decadono qualora la Grande Assemblea legiferi posteriormente su una materia già disciplinata con decreto.
Nonostante tali limiti, questa competenza del Presidente ha originato un ampio dibattito dottrinale circa il rispetto del principio di separazione dei poteri, in assenza di una pronuncia della Corte costituzionale che chiarisca lo status dei decreti presidenziali nella gerarchia delle fonti e la sua relazione con la legge ordinaria. Qualora le associazioni e i movimenti delle donne, che al momento sembrano avere anche il sostegno del principale partito di opposizione (CHP) dovessero concretizzare gli annunciati ricorsi presso il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale, il decreto di recesso dalla Convenzione di Istanbul rappresenterebbe dunque la prima reale occasione per le Corti del paese per pronunciarsi su un tema così rilevante.
4.Prima facie, alcune riflessioni conclusive possono essere proposte. In primo luogo, si può sottolineare la peculiarità della scelta ‘stilistica’ di inserire la decisione sulla Convenzione di Istanbul nel novero di altre 32 decisioni presidenziali emesse nello stesso giorno, su temi quali la ridefinizione delle quote di importazione di zucchero e di alcune tariffe commerciali. Una scelta che sembra sottolineare quanta rilevanza la Convenzione abbia per l’Esecutivo turco in carica.
Più nel merito della questione, invece, si evidenzia che già perché il recesso da un trattato internazionale non riguarda questioni relative al potere esecutivo, la scelta del decreto presidenziale sembra contrastare con il dettato costituzionale e rendere pertanto nulla la stessa dichiarazione di recesso. La Convenzione di Istanbul è stata infatti ratificata con la legge n. 6251 del 24 novembre 2011, nel rispetto del menzionato art. 90 Cost., e per un recesso occorrerebbe quindi una nuova legge della Grande Assemblea. Anche qualora si volesse porre l’accento sul requisito dell’atto formale di ratifica presidenziale previsto ex art. 90, peraltro, bisognerebbe tenere presente che quest’ultimo consente al Presidente di posticipare indefinitamente l’entrata in vigore di un accordo internazionale nell’ordinamento interno evitando di perfezionarne la ratifica, ma – nell’opinione di chi scrive –non oblitera in alcun modo la necessità di un intervento parlamentare in caso di recesso.
Se adite, la scelta che le Corti effettueranno a questo riguardo, infine, assume un carattere estremamente rilevante circa il più ampio discorso sulla tenuta della democrazia turca, rappresentando un ulteriore test per i margini di indipendenza delle stesse dal potere esecutivo. Un test a cui non dovrebbe sottrarsi anche la Grande Assemblea, che potrebbe trovare spazi per reagire a questa ‘invasione’ dei propri ambiti.