Ne bis in idem europeo e illeciti da “stadio”
Con la sentenza Velkov c. Bulgaria (Corte EDU, Sezione Quarta, 21 luglio 2020, Ric. n. 34503/10), la Corte EDU è tornata ad occuparsi delle implicazioni e dell’estensione del principio del ne bis in idem europeo [N. Madia, Ne bis in idem europeo e giustizia penale. Analisi sui riflessi sostanziali in materia di convergenze normative e cumuli punitivi nel contesto di uno sguardo d’insieme, Milano-Padova, 2020].
Come è noto, il principio del ne bis in idem risulta “codificato”, da un lato, nell’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984, dall’altro, nell’art. 50 CDFUE.
Questo principio, peraltro, era già riconosciuto dall’art. 14 § 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché dalle varie Convenzioni del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea, oltre che dall’art. 20 dello Statuto della Corte penale internazionale.
Il principio adempie ad un doppio ruolo di garanzia, assicurando la certezza del diritto, mediante l’attribuzione alle decisioni penali definitive dell’auctoritas della res iudicata, e tutelando l’individuo dal rischio di nuove persecuzioni penali per lo stesso fatto. D’altronde, il principio del ne bis in idem, nella sistematica sovranazionale, è stato elevato al rango di diritto fondamentale e la sua particolare forza è attestata dalla generale inammissibilità – al di là delle eccezionali ipotesi in cui è ammesso il bilanciamento con altri interessi di rango ancora più elevato – di deroghe, neppure in caso di urgenza ai sensi dell’art. 15 CEDU.
Insomma, l’aver collocato il ne bis in idem a fianco del diritto alla vita, al divieto di tortura, al divieto di schiavitù e al principio di non retroattività della legge penale, tra i diritti inderogabili anche in caso di guerra o di altro pericolo che minacci la vita della nazione, è una scelta che ne suggella l’efficacia incondizionata ed il valore assoluto.
Nei paesi membri dell’UE, perlomeno nelle materie di competenza comunitaria, tale direttiva, attesa la “integrazione” tra ordinamento comune e ordinamenti statali, ha immediati riflessi precettivi, senza la preventiva esigenza, a cui è invece subordinata l’applicabilità della disciplina convenzionale in insanabile contrasto con quella interna, di alcun incidente di costituzionalità.
Il diritto al ne bis in idem – così come declinato a livello comunitario e convenzionale – preclude, in teoria, l’apertura a carico del medesimo soggetto, per lo stesso fatto, di un procedimento penale e di altro “formalmente” amministrativo (o, perché no, in base al medesimo iter logico e argomentativo, anche civile, contabile, disciplinare et similia) da cui derivino, tuttavia, conseguenze equiparabili, sul piano afflittivo e teleologico (secondo le indicazioni emergenti nell’attività pretoria delle due Alte Corti internazionali) ad autentiche sanzioni penali.
In sostanza, è fatto divieto, in una visuale processualistica, di moltiplicare i procedimenti relativi a violazioni di matrice analoga, in nome dell’idea per cui “il processo è già una pena” ed è ingiusto e iniquo incrementarne irragionevolmente il numero.
Con la sentenza A. e B. c. Norvegia del 2016, i giudici di Strasburgo hanno articolato proposizioni implicanti, per un verso, l’attenuarsi delle ripercussione processuali del fenomeno, per l’altro, l’accrescersi delle sue ricadute sostanziali in materia di cumuli punitivi e proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.
La svolta impressa da A. e B. c. Norvegia ha determinato il passaggio dal divieto di attivare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati ad un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata.
In definitiva, la “storia” di questa prerogativa sovranazionale conosce “un prima e un dopo”, nel senso che è stata attraversata da un “evento traumatico” – la sentenza A. e B. c. Norvegia –che ha segnato uno spartiacque tra quello che era il suo significato originario e il ruolo che sarà destinato ad esercitare in futuro.
Con la sentenza in commento i giudici di Strasburgo si sono nuovamente confrontati con il tema, nel contesto della violenza a cose e persone in occasione di manifestazioni sportive. Un terreno di coltura ideale dove disquisire della problematica, poiché qui i comportamenti illeciti tendono a riverberare, un po’ ovunque nella “grande Europa”, sia sul terreno “formalmente” amministrativo, ma sostanzialmente penale, sia sul terreno propriamente penalistico, innescando possibili interferenze col principio del ne bis in idem europeo.
Il ricorrente era un tifoso della squadra della Lokomotiv Plovdiv, un club di calcio che milita nel massimo campionato bulgaro.
Il 17 maggio 2008, in occasione di un match contro del CSKA Sofia, i sostenitori della Lokomotiv, compreso il ricorrente, raggiunto lo stadio, avevano lanciato vari oggetti verso la tribuna avversaria e gli agenti di polizia addetti alla sicurezza. La partita era stata interrotta.
Il ricorrente era stato accusato, in particolare, di aver usato oggetti illegali durante gli scontri, di aver infranto i finestrini di diverse auto, di aver rifiutato di obbedire agli ordini dell’Autorità, di aver provocato e partecipato a scontri.
Con decisione definitiva del 29 maggio 2008, il Tribunale aveva definito il procedimento relativo alle contestazioni amministrative elevate a carico del ricorrente, disponendo la sua detenzione per 15 giorni e vietandogli di partecipare ad eventi sportivi per due anni.
Parallelamente, era stato avviato un procedimento penale contro il ricorrente per disturbo della quiete e dell’ordine pubblici ai sensi dell’art. 325 del Codice penale bulgaro.
Il processo davanti al Tribunale distrettuale di Sandanski si era celebrato tra l’11 settembre 2008 e il 20 gennaio 2009.
Con sentenza del 20 gennaio 2009, il ricorrente era stato condannato alla pena di due anni di reclusione, con sentenza divenuta definitiva il 5 ottobre 2010, a seguito del rigetto del ricorso contro la pronuncia di conferma di appello da parte della Corte suprema.
In primo luogo, la Corte EDU si è soffermata sulla natura della procedura formalmente amministrativa in cui era stato coinvolto il ricorrente, ribadendo che normative che consentono di adottare provvedimenti privativi della libertà personale, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte EDU, assumono, indiscutibilmente, una natura “penale”. Di talché, secondo i giudicanti, il primo procedimento a carico del ricorrente, al di là delle sue vestigia formali, doveva considerarsi sostanzialmente di carattere punitivo, in ossequio ai noti Engel criteria, elaborati sin dal 1976 dalla Corte EDU, onde individuare la reale natura “punitiva” di apparati sanzionatori formalmente diversi dallo ius criminale, così da estendere ad essi il coacervo di garanzie afferenti il diritto penale propriamente inteso.
Dopo questa premessa, i Giudici si sono interrogati circa la violazione dell’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, in base ai criteri dettati in A. e B. c. Norvegia.
In questa prospettiva, al fine di accertare la ricorrenza dei presupposti per affermare la compatibilità convenzionale di un “doppio binario” sanzionatorio, i giudici nazionali devono verificare: i) se gli scopi perseguiti dai procedimenti avviati a seguito dell’illecito siano analoghi o differiscano tra loro, considerando, in particolare, se le procedure sanzionatorie si appuntino su “profili diversi della medesima condotta antisociale”; ii) se sia una prevedibile conseguenza della condotta illecita la pluralità dei procedimenti; iii) se i diversi procedimenti siano gestiti al fine di “evitare per quanto possibile ogni duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova”, mediante una“adeguata interazione tra le varie autorità competenti in modo da far sì che l’accertamento dei fatti in un procedimento sia utilizzato altresì nell’altro procedimento”; iv) se la sanzione collegata al procedimento definito per primo sia computata, in ossequio alla ratio istitutiva di un sistema unitario e integrato, nell’altra serie procedimentale, di talché la complessiva reazione punitiva risulti proporzionata; v) se, infine, i procedimenti siano connessi sul piano temporale, essendo evidente che, nonostante gli stessi non debbano necessariamente scorrere in chiave strettamente simultanea, l’infrazione ai dettami convenzionali sarà tanto più probabile quanto maggiore sarà il pericolo che il soggetto si trovi in una situazione di perdurante incertezza circa il rischio di venire sottoposto ad un secondo iter sanzionatorio.
Applicando questi parametri al caso di specie, i Giudici di Strasburgo hanno rilevato la violazione del principio del ne bis in idem convenzionale.
La Corte ha in primo luogo disconosciuto l’insussistenza di un legame temporale tra le due procedure.
Si è notato che le stesse sono iniziate contemporaneamente e che si sono articolate in parallelo fino al 29 maggio 2008, data in cui il procedimento amministrativo si è concluso con sentenza definitiva. Ebbene, ancorché il procedimento penale fosse proseguito dopo tale data e si fosse concluso più di due anni e quattro mesi dopo, nell’ottobre 2010, la Corte ha ritenuto di ravvisare un legame temporale sufficientemente stretto tra le due serie procedimentali.
Se è vero che a tale esito si è giunti rammentando che legame temporale non significa simultaneità delle procedure dall’inizio alla fine, è altrettanto vero che tale risposta ha confermato il tasso di genericità e vaghezza col quale viene gestito simile criterio valutativo, suscettibile di provocare – come in questo caso – risposte apodittiche circa la ricorrenza o meno di questo tipo di collegamento tra iter punitivi diversi nelle singole vicende concrete.
La Corte non ha tuttavia ravvisato l’altro presupposto legittimante il doppio binario punitivo, ovvero un sufficiente legame materiale tra procedimenti.
Da questo punto di vista, il Collegio ha innanzitutto sottolineato come entrambe le procedure convergessero verso uno scopo comune, ossia quello di proteggere l’ordine pubblico, senza, dunque, perseguire due obiettivi di tutela diversi e complementari, idonei a giustificare la loro autonoma esistenza. D’altronde, le dichiarazioni degli stessi testimoni diretti dei fatti erano state assunte e analizzate separatamente nei due procedimenti, con evidente duplicazione nella raccolta e valutazione delle risultanze accusatorie.
Infine, la misura della pena limitativa della libertà personale comminata in sede amministrativa non era stata detratta dalla quantità di pena inflitta sul versante penale, generando una risposta sanzionatorio nel complesso eccessiva e sproporzionata.
La pronuncia in commento conferma la tendenza in voga presso la Corte EDU ad un’interpretazione rigorosa del requisito della close connection, perlomeno nei suoi risvolti materiali (per quanto riguarda quelli temporali ci si è ancora abbandonati all’incertezza), elaborato in A. e B. c. Norvegia al fine di saggiare la legittimità di apparati sanzionatori multilivello.
Pur collocandosi nel nuovo solco tracciato a Strasburgo, secondo il quale il doppio binario punitivo non è necessariamente contrario all’art. 4 Prot. 7 CEDU, la sentenza si è guadagnata il merito di fornire una lettura compiuta dei criteri escogitati in A. e B. c. Norvegia, potenzialmente idonea, se adeguatamente affinata, ad attenuare i riverberi di un orientamento incline, se non a prendere congedo, perlomeno a circoscrivere vistosamente il raggio d’azione del ne bis in idem.