Il diritto alla dignità nel “fine vita”: la storica e recentissima pronuncia del BVerfG in tema di suicidio assistito

1.Il 26 febbraio 2020 il Bundesverfassungsgericht ha adottato una pronuncia contraddistinta da tratti rivoluzionari (dieci mesi sono stati necessari per redigerla e votarla all’unanimità), foriera di rilevanti conseguenze sul piano dei diritti, e, soprattutto, sul piano del diritto al pieno, libero e autonomo sviluppo della propria personalità nella scelta di porre un termine alla propria vita, indipendentemente dall’esistenza di una malattia incurabile (più nello specifico, si veda il Rn. 210): il divieto di agevolazione commerciale del suicidio, previsto all’art. 217 del codice penale tedesco (StGB), rubricato divieto di servizi di suicidio assistito – promozione commerciale del suicidio, viola l’articolo 2, comma 1 (“Ognuno ha diritto al libero sviluppo della propria personalità, in quanto non violi i diritti degli altri e non trasgredisca l’ordinamento costituzionale o la legge morale”), in combinato disposto con l’articolo 1, comma 1 (“La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”) della Legge Fondamentale.
La disciplina impugnata è stata censurata nell’ambito di sei ricorsi individuali.
Hanno fatto ricorso associazioni che offrono servizi per coloro i quali vogliano essere assistiti nel percorso verso la morte, aventi sede in Germania e in Svizzera, lamentando la lesione dei loro diritti fondamentali ai sensi dell’art. 12, comma 1, art. 9, comma 1 e art. 2 comma 1 della Legge Fondamentale. Hanno inoltre utilizzato lo strumento della Verfassungsbeschwerde persone gravemente malate bisognose di simili associazioni per portare a termine la propria volontà, invocanti la lesione del diritto al libero sviluppo della propria personalità nella scelta di porre fine alla propria vita e, infine, medici e avvocati impegnati nella pratica dell’assistenza al suicidio, i quali lamentavano la lesione della libertà di coscienza e della libertà professionale.

2.Dopo avere dichiarato inammissibili due ricorsi, dovuti in un caso alla morte del ricorrente e dall’altro alla mancanza di legittimazione dell’associazione (dal momento che aveva sede in Svizzera), il BVerfG dichiara ammissibili e fondate le rimanenti Verfassungsbeschwerde.
Quanto alla norma impugnata, ai sensi dell’art. 217 StGB (1) Chiunque, con l’intenzione di favorire l’altrui suicidio, offre, procura o trasmette l’opportunità in forma commerciale, anche in forma di intermediazione, è punito con pena detentiva fino a tre anni o con pena pecuniaria. (2) In qualità di compartecipe è esente da pena chi agisca in modo non commerciale e sia o parente della persona favorita di cui al comma 1, oppure legata ad essa da stretti rapporti”.
Tale disposizione è stata introdotta di recente a seguito dell’approvazione della legge sulla punibilità dell’agevolazione commerciale del suicidio (Gesetz zur Strafbarkeit der geschäftsmäßigen Förderungen der Selbsttötung), entrata in vigore il 10 dicembre 2015: fino a quel momento, il suicidio assistito non era stato disciplinato dal codice penale (cfr. la ricostruzione di M.T. Rörig).
L’agevolazione del suicidio non veniva punita nel caso in cui il suicida si fosse procurato autonomamente la morte con l’aiuto di una persona che non avesse agito per finalità di natura commerciale. In questo senso, è del tutto evidente che l’intento originario del legislatore tedesco era stato quello di non criminalizzare in toto l’aiuto al suicidio; d’altra parte, una simile scelta di politica criminale avrebbe avuto, anche e soprattutto in punto di consenso, poche “chances” di realizzazione.
Quanto al requisito relativo al carattere commerciale (M.T. Olakcioglu, in Strafgesetzbuch Kommentar, a cura di B. von Heintschel-Heinegg, 2018, pp. 1762-1764) dell’assistenza al suicidio, espressamente vietato dall’articolo 217 del StGB, occorre considerare che esso va inteso “come l’intenzione di esercitare ripetutamente e continuativamente la condotta prevista dalla fattispecie, e quindi fare della ripetizione di simili attività l’oggetto della propria occupazione. Non è tuttavia richiesta l’intenzione di ottenere un guadagno dall’attività esercitata […]” (così M.T. Rörig).
Interessante notare, peraltro, che il requisito in questione presentava un nodo critico con riferimento al rispetto del principio di legalità, considerata la situazione particolarmente incerta della categoria dei medici: non era infatti del tutto chiaro il campo di applicazione dell’art. 217 StGB, (Lewinski ZRP 2015, 26), atteso che l’aiuto al suicidio veniva ritenuto eccezionalmente legittimo nel caso in cui fosse stato proprio un medico – in casi specifici – a rappresentare il soggetto agente (R. Rissing-van Saan, a cura di H.W. Laufhütte, R. Rissing-van Saan, K. Tiedemann) Leipziger Kommentar Strafgesetzbuch, 2018, 270; cfr. anche https://www.bundestag.de/dokumente/textarchiv/2015/kw45_de_sterbebegleitung-392450).
In definitiva, quanto alla ratio originaria della norma in questione, sembra non di poco momento osservare che essa era volta ad impedire una “normalizzazione della forma organizzata di suicidio assistito” (Gaede JuS 2016, 385), nonché la diffusione di una cultura “suicidaria” (così il citato lavoro di M.T. Olakcioglu a p.1753), agevolata dallo sfruttamento delle richieste di aiuto al suicidio poste in essere – a scopo di lucro e in forma organizzata – da privati (F. Lazzeri, La Corte costituzionale tedesca dichiara illegittimo il divieto penale di aiuto al suicidio prestato in forma “commerciale”, in www.sistemapenale.it, 2020); sul punto si veda anche BVerfG kippt Verbot der geschäftsmäßigen Sterbehilfe, in www.rsw.beck.de, 2020).
Il modo in cui affrontiamo la morte riflette il nostro atteggiamento verso la vita. In questo caso la legge non può rimanere in silenzio”: così si è espresso il Presidente del Tribunale costituzionale federale tedesco nel corso della nota udienza pubblica (durata due giorni) tenutasi nell’aprile del 2019, nel corso della quale sono intervenuti non solo malati terminali, ma anche psicologi e medici – e ciò è di rilievo alla luce del rapporto che dovrebbe interessare le decisioni costituzionali e la relativa influenza esercitata dalla scienza (cfr. M. D’Amico, spec. a p. 301) – impegnati nelle cure palliative preoccupati di risultare punibili ai sensi del reato di cui all’art. 217 StGB (rubricato divieto di servizi di suicidio assistito – promozione commerciale del suicidio).
Come facilmente intuibile, a fronte dell’adozione della pronuncia in commento, la discussione sul “fine vita” conoscerà in Germania una nuova stagione, diversa e ulteriore rispetto a quella che si era già affermata in seguito all’adozione della legge sulle disposizioni di trattamento (la c.d. Patientenverfügungsgesetz, BGBl I 2286) e alla decisione del Bundesgerichtshof sull’interruzione dei trattamenti sanitari (BGHSt 55 191) del 24 giugno 2010.
In realtà, già in seguito all’introduzione nel codice penale dell’oramai incostituzionale art. 217 StGB si erano diffuse non irrilevanti preoccupazioni rispetto alla tutela costituzionale del diritto all’autodeterminazione (cfr. i lavori già citati di R. Rissing-van Saan e di M.T. Olakcioglu); una conferma in tal senso ha avuto luogo nel 2017 con la decisione del Bundesverwaltungsgericht con cui è stata affermata l’impossibilità, in alcuni casi, di negare il suicidio a pazienti gravemente malati.
Ancora, l’ordinamento tedesco conoscerà, grazie alla pronuncia in questione, un nuovo approdo rispetto alla valorizzazione della dignità umana nel momento corrispondente alla scelta della fine della vita.
La depenalizzazione dell’aiuto o assistenza al suicidio per motivi di natura commerciale sembra fondarsi sulla piena valorizzazione della dignità dell’uomo svolta dal BVerfG: l’autonomo e libero sviluppo dell’identità personale non può che conoscere un’ampia (e alta) forma di realizzazione nella scelta del momento finale della propria vita; la dignità umana si esprime quindi anche nella scelta di porre fine alla vita stessa, e ciò nonostante con tale scelta si ponga di fatto fine alla “premessa della propria autodeterminazione”, in tal modo “eliminando la soggettività” individuale (Rn. 211).
Evidenza a tal proposito il BVerfG che l’autonoma tutela dell’identità personale implica l’impossibilità di tracciare ex ante uno stile di vita che possa considerarsi conforme alla – intima – concezione della soggettività di ciascuno (Rn. 209); e proprio alla luce di tale soggettività il BVerfG riempie di contenuto il diritto ad una morte autodeterminata, non limitandolo a situazioni legate a gravi o incurabili malattie, ma legandolo a qualsiasi fase dell’esistenza umana.
Una simile “apertura” viene immediatamente giustificata alla luce del principio di libertà, il quale, ove necessario, non può non includere anche la libertà di cercare aiuto presso terzi nella realizzazione del (“personalissimo” e intimo) proposito suicidario (Rn. 331).
La criminalizzazione di tale aiuto (nella sua forma “commerciale”) implica necessariamente la compressione di diritti costituzionalmente garantiti in capo a chi voglia porre fine alla propria esistenza; pertanto, nonostante l’art. 217 StGB sanzioni solamente gli agenti, tuttavia tale disposizione viola il principio libero sviluppo della personalità del c.d. Sterbewilliger (colui il quale desidera morire): tale principio non è disponibile a meno che, eccezionalmente, risulti necessario un intervento statale limitativo della libertà di autodeterminazione al fine – solo ed esclusivamente – di tutelare i singoli (Rn. 210 e ss).
In seguito, il BVerfG si sofferma sull’opportunità che il legislatore, al netto della “liberalizzazione” del suicidio assistito, adotti una politica preventiva per il tramite dell’identificazione di misure volte all’espansione delle cure palliative (Rn. 276), peraltro non obbligatorie (Rn. 299).
Ancora, il Tribunale costituzionale afferma che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo deve essere utilizzata come strumento per un’interpretazione capace di determinare il contenuto e la portata dei diritti fondamentali (cfr. BVerfGE 111, 307 <317 s.>; 149, 293 <328 n. marg. 86>), conformemente a quanto dichiarato in occasione della decisione 2 BvR 1481/10 del 14 ottobre del 2014, ove è stato dichiarato che la CEDU e la giurisprudenza della Corte EDU “servono, sul piano del diritto costituzionale, come sussidii interpretativi (Auslegungshilfen) per la determinazione del contenuto e della portata dei diritti fondamentali” (Rn. 30), e ciò alla luce della Völkerrechtsfreundlichkeit (Rn. 36) che contraddistingue la Legge Federale tedesca. Vengono richiamate nella decisione di febbraio le sentenze Pretty v. The United Kingdom, Haas v. Switzerland e Koch v. Deutschland: interessante notare che il primo caso viene richiamato dal BVerfG al fine di dimostrare come l’esigenza di proteggere terzi debba necessariamente essere bilanciata con l’autodeterminazione dell’individuo (Rn. 305).
Una volta affermata l’impossibilità di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente conforme, il BVerfG dichiara la nullità dell’articolo 217 del StGB (Rn. 337), senza mancare di rivolgersi al legislatore (Rn. 338), il quale viene sollecitato ad adottare una disciplina volta a regolamentare la pratica del suicidio assistito, nonostante non possa esservi, in generale, una pretesa all’assistenza nel proposito suicidario di terzi.
Per quanto riguarda più nello specifico il rapporto con il legislatore, non si può non fare riferimento alle Schutzpflichten (obblighi di protezione) individuate dal BVerfG.
Da un lato, lo Stato ha l’obbligo di garantire l’esercizio della libertà di autodeterminazione: si tratta, più propriamente, di un dovere di tutela dell’autonomia dell’individuo nella decisione di porre fine alla propria vita, fondato sugli artt. 1, comma 1, alinea 2 in combinato disposto con l’art. 2, comma 2, alinea 1 della Legge Fondamentale (Rn. 232-233).
Dall’altro lato, però, il legislatore è tenuto a evitare che gli individui siano influenzati da fattori extra-individuali e quindi sociali nella loro scelta di porre termine all’esistenza, dovendo orientare il proprio operato ad una valutazione che sia coerente con le informazioni e con le conoscenze scientifiche a disposizione (Rn. 238), consapevole del fatto che non vi sono dati empirici in grado di mostrare che la maggiore efficacia di protezione della vita dei singoli sia realizzata per il tramite di misure alternative alla sanzione penale.
Eppure, i limiti alla libertà individuale nel campo del “fine vita” devono essere rimossi in quanto il divieto di assistenza in forma commerciale al suicidio e le sue ricadute sull’individuo non si pongono in un rapporto ragionevole con i vantaggi derivanti in capo alla collettività (Rn. 265).
Da ultimo, con riferimento ad alcune delle Verfassungsbeschwerden un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale viene ravvisato nella violazione del “diritto fondamentale delle persone fisiche e delle organizzazioni che intendono prestare assistenza al suicidio”, ai sensi dell’art. 12 della Legge Fondamentale (“diritto a scegliere liberamente la professione”) o, in subordine, nel già citato art. 2(2) (che riconosce il “diritto al libero sviluppo della personalità”) (Rn. 306-320; cfr. inoltre il citato lavoro di F. Lazzeri).

3.Tanto chiarito, chi scrive intende porre in evidenza analogie e differenze con il “vicino” caso Cappato. Quanto alle prime, occorre rilevare, in primo luogo, che anche l’ord. n. 207 del 2018 ha aperto la strada ad una nuova sfumatura della categoria della dignità umana, al contrario di quanto sancito dalla sent. n. 242 del 2019, ove, pur confermandosi nella struttura coerente con lo “spirito” dell’ordinanza che la precede, “scompare il riferimento alla dignità del malato” (cfr. ancora M. D’Amico a p. 292) poiché “Una tutela della vita che si ponga in contraddizione con l’autonomia contraddice l’immagine di una società in cui la dignità degli individui è posta al centro della scala valoriale” (Rn. 277); non solo, come affermato in dottrina, non si può escludere che la pronuncia in commento arricchirà l’orizzonte valutativo del Giudice costituzionale italiano “in occasione di futuri giudizi incidentali – date le varie questioni ancora aperte in tema di fine vita all’indomani della sent. 242/2019” (così F. Lazzeri).
Parallelamente, se il diritto – incondizionato – all’autodeterminazione costituisce il perno intorno al quale ruota la sentenza del BVerfG, nel caso della sent. n. 242 del 2019 lo spazio concreto lasciato all’autodeterminazione del malato deve fare i conti con i limiti imposti dal Giudice delle leggi (cfr. M. D’Amico, pp. 297-300).
In secondo luogo, sussiste la possibilità di richiamare l’iter argomentativo della Corte costituzionale, secondo la quale, al considerato in diritto al p.to 6 della sent. n 242 del 2019 “[…] Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”; interessante notare che il BVerfG, nonostante abbia affermato la sussistenza di un diritto al suicidio, al quale si ricollega il dovere da parte dello Stato di rimuovere gli ostacoli alla libera estrinsecazione dell’identità personale di ciascuno, afferma, in chiusura, l’inesistenza di una pretesa all’assistenza al suicidio assistito (Rn. 342).
In terzo luogo, quanto alla promozione delle cure palliative in chiave preventiva, manifesta è l’analogia con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019, in occasione della quale viene affermato, al considerato in diritto al p.to 5, che “l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita”.
Quanto alle differenze, invece, con riferimento alla sentenza Pretty v. The United Kingdom, richiamata, come sopra accennato, dal BVerfG, si deve ricordare che la stessa era servita alla Corte costituzionale per dimostrare il contrario, cioè il compito dello Stato di salvaguardare la protezione degli individui (cfr. considerato in diritto al p.to 7 dell’ord. n. 207 del 2018).
Inoltre, nel caso di specie il BVerfG ha ritenuto di intervenire direttamente sulla norma censurata dichiarandola nulla e specificando espressamente l’assenza dei presupposti necessari quanto all’adozione di una Unvereinbarkeitserklärung (Rn. 337), nonostante la pronuncia in questione possa certamente divenire foriera di gravide conseguenze sul piano del “diritto” a morire.

4.Quanto appena scritto è tanto vero che il BVerfG indirizza al legislatore alcune rilevanti “linee guida” che quest’ultimo potrà poi scegliere autonomamente in base alla propria sfera discrezionale.
Ebbene, la preferenza per la declaratoria della nullità dell’art. 217 StGB rispetto all’adozione dei una semplice sentenza di incompatibilità sembrerebbe fondarsi sulla gravità della violazione dei diritti fondamentali perpetrata dalla disposizione in commento, la quale esige un’eliminazione, per così dire, immediata della norma incostituzionale.
Tanto premesso, il BVerfG sottolinea la possibilità per il legislatore di regolamentare l’assistenza al suicidio – e quindi di predisporre meccanismi volti ad evitare la diffusione di una concezione per cui il suicidio potrebbe rappresentare uno strumento “normale” per porre fine alla propria vita (cfr.il già citato BVerfG kippt Verbot der geschäftsmäßigen Sterbehilfe; cfr. anche Rn. 340) – attraverso la predisposizione di garanzie procedurali, di obblighi di informazione, di autorizzazioni amministrative e accertamenti relativamente alla volontà effettiva, del divieto di forme pericolose di assistenza al suicidio, della potenziale rimodulazione della normativa in materia di sostanze stupefacenti e, in definitiva, per il tramite dell’elaborazione di un concetto di “salvaguardia di natura procedurale”, solamente però, nel perimetro tracciato dal “super” diritto all’autodeterminazione.