Una Costituzione nata dal totalitarismo?
Le adesioni e i silenzi con i quali buona parte della classe politica e dell’opinione pubblica italiana ha accolto la risoluzione, approvata dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019, sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa mostrano come un’interessata confusione tra storia, narrazione a uso politico e invenzione di una memoria comune abbia ormai inquinato la sfera pubblica.
Che alcuni Stati un tempo satelliti dell’Urss abbiano un proprio specifico interesse a fondare una ‘memoria comune europea’ sull’equiparazione tra il nazismo e un non meglio definito ‘comunismo’, a usare in modo disinvolto e sbrigativo la categoria ‘totalitarismo’ e a far ricadere sulla stessa Urss (per aver siglato con la Germania nazista il patto di non aggressione del 23 agosto 1939) la responsabilità del secondo conflitto mondiale è comprensibile dal punto di vista delle attuali classi dirigenti di quegli Stati, impegnate a riscrivere la storia, anche con apposite leggi, per fare dell’orgoglio nazionale il collante tra se stesse e i rispettivi elettorati.
Non si comprende invece perché mai l’Italia dovrebbe assecondare questa operazione, tanto più che essa da un lato rappresenta un vero e proprio tradimento dell’identità e del patrimonio storico dell’Europa e, dall’altro, rischia di delegittimare la Costituzione del ‘47 e di sfaldare quel che resta dell’identità collettiva repubblicana.
Troppo spesso, presi dalla passione e dall’ubriacatura per qualche salvifica e miracolosa riforma costituzionale del momento, dimentichiamo che la Costituzione repubblicana, prima di essere un complesso di disposizioni e di procedure per l’assunzione delle pubbliche decisioni, è l’insieme dei princìpi e dei valori fondamentali del nostro essere in comune. Riconoscendosi in quei princìpi e in quei valori la moltitudine delle persone che vivono in Italia si fa cittadinanza. Perché la Costituzione del ‘47 è – basta leggere i suoi primi articoli – un progetto di emancipazione degli uomini e delle donne fondato sui princìpi della libertà, della solidarietà, dell’eguale dignità, del lavoro, dell’autonomia come responsabilità per il bene comune.
Prima di essere scritto nella Costituzione, questo progetto di emancipazione e di liberazione nella libertà è stato realizzato dalla Resistenza nei venti mesi della guerra civile. Sono le repubbliche e le zone libere, e in generale tutti gli ordini giuridici creati dalle bande partigiane, a caratterizzarsi come strumenti di quel progetto e a chiamare la popolazione a parteciparvi attivamente, a concorrere a costruire nel presente un futuro di libertà, di giustizia, di eguale dignità.
Tra gli uomini e le donne che combattevano e morivano per creare quegli ordinamenti giuridici vi erano molti militanti del partito comunista italiano e vi erano tantissimi uomini e donne che, senza appartenere a quel partito, si sentivano comunisti perché vedevano nel comunismo, oltre che il vincitore dei nazisti a Stalingrado, una grande speranza di libertà, di dignità, di umanità e di giustizia. Perché il loro comunismo era un sentimento che veniva da lontano – da più lontano del pur entusiasmante mito sovietico – e che veniva raccontato, da quasi un secolo, ogni giorno nei campi e nelle fabbriche e ogni sera davanti al fuoco della cucina. Era il sentimento dei loro padri e dei loro nonni, di Amilcare Cipriani, di Andrea Costa, di Camillo Prampolini, dei moti contro la tassa sul macinato, dello sciopero del 1900 e di quello del 1904, delle agitazioni dei braccianti del 1904-1913, degli scioperi di Piombino e Portoferraio del 1911, della Settimana rossa. Il comunismo per quegli uomini e per quelle donne era il sentimento di abitare in libertà e da eguali un mondo comune più giusto e più umano e l’Urss appariva il paese nel quale quel sentimento si era fatto storia: per quel sentimento combattevano, per quel sentimento morivano.
Come si possa mai accostare al nazismo questa speranza di libertà, di dignità, di umanità e di giustizia è davvero difficile da immaginare, mentre è facile capire che gettando ogni erba comunista nel fascio del totalitarismo si fa passare il messaggio che durante la guerra civile italiana non tutto il bene stava da una parte e non tutto il male stava dall’altra, che totalitarismo era ugualmente presente da una parte e dall’altra. Si delegittima così, nel profondo del suo fondamento, quel progetto di emancipazione dell’uomo e della donna che la Resistenza è stata e che la Costituzione repubblicana ha fatto proprio.
Se ogni comunismo è totalitarismo (al pari del nazismo), se ogni comunista è un totalitarista (al pari del nazista), quale legittimazione democratica e quale capacità di integrazione valoriale e simbolica potrà mai avere, specie agli occhi dei giovani di oggi e di domani, una Costituzione nata da una Resistenza che fu anche comunista e alla cui stesura i comunisti diedero un contributo decisivo?
I politici italiani che si accodano a coloro che in Europa vogliono usare le leggi o le risoluzioni per riscrivere la storia e per affibbiare a piacere l’etichetta di totalitario dovrebbero ricordare che, all’inizio del dibattito in Assemblea costituente sui contenuti e sul carattere da dare alla nuova Costituzione, l’ex ministro della Real Casa Falcone Lucifero intervenne per affermare la necessità di scrivere una Costituzione ‘afascista’, non ideologica. Aldo Moro, nella seduta del 13 marzo 1947, gli rispose così: «Non possiamo […] fare una Costituzione afascista […] perché questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della Resistenza e della guerra rivoluzionaria».
Moro pesava bene le parole prima di usarle e la sua espressione «guerra rivoluzionaria» ci spinge a domandarci quale sia la negazione del fascismo che aveva reso «rivoluzionaria» la Resistenza. La risposta ce la dà sempre Moro, nella stessa seduta della Costituente, quando afferma che la nuova Costituzione deve sancire l’«appartenenza della sovranità […] a tutti i cittadini». Aver messo sottosopra la sovranità, aver fatto degli italiani non dei sudditi che applaudono sotto un balcone, ma dei cittadini che decidono il proprio futuro partecipando attivamente alla vita democratica del paese: questa è la rivoluzione della Resistenza, questa è la rivoluzione da cui nasce la Costituzione repubblicana.
Sempre Moro, in quella stessa seduta, rivolgendosi ai costituenti comunisti, dichiarava: «Divisi – come siamo – da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia […] restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo». L’idea dell’uomo che unisce democristiani e comunisti è la ‘persona’ come soggetto relazionale e sociale contrapposto all’individuo atomistico e solitario liberale. Ed è sull’affermazione del principio personalista all’articolo 2 della Costituzione che si realizza il fondamentale convergere di Dc e Pci perché il principio personalista porta con sé la strumentalità dello Stato al pieno sviluppo della personalità umana, l’anteriorità dei diritti dei singoli e delle formazioni sociali rispetto allo Stato, la pari dignità sociale e l’eguaglianza di tutti gli uomini e di tutte le donne.
Troppo spesso si parla della Costituzione repubblicana come del risultato di un compromesso minimo, quasi di provvisoria coesistenza, tra i partiti antifascisti, e in particolare tra Pci e Dc, e ci si sofferma sulle intese in tema di parlamentarismo, di bicameralismo, di poteri del Governo. Queste intese, per quanto importanti, sono del tutto accessorie rispetto all’accordo massimo e fondamentale che i partiti antifascisti realizzano sulla configurazione della Costituzione repubblicana come programma di liberazione della persona umana e dello Stato repubblicano come strumento al servizio di quel programma.
E le intese sulla forma di governo, su cui oggi tanto si insiste per far credere che la Costituzione sia stata un compromesso minimo e tattico, sono davvero secondarie rispetto a una novità epocale che deriva direttamente dal porsi della Costituzione come programma di liberazione nella libertà: la vita economica non è considerata (come nello Statuto) un dato oggettivo, e non è neppure collegata (come nel fascismo) alla potenza dello Stato, essa è invece campo di azione della Repubblica e terreno sul quale questa interviene per realizzare i diritti della persona e i valori di libertà, dignità ed eguaglianza della Costituzione.
Il connubio costituzionale tra diritti della persona, lavoro, effettiva partecipazione di tutti alla vita economica, sociale e politica definisce il rapporto tra politica ed economia e fa di quest’ultima la materia che la politica deve plasmare in nome del lavoro e della sua potenza solidaristica, umanistica, comunitaria e liberatrice. E questo plasmare può realizzare davvero la pari dignità di ognuno se la politica è compito dei cittadini, se la politica è esercizio della cittadinanza repubblicana, se la sovranità coincide con la cittadinanza. Cittadinanza che, stando alla Costituzione, non è appartenenza identitaria a un suolo, a una lingua, a un sangue e che è l’opposto del recinto degli italiani di pura razza ariana teorizzato dal fascismo. La cittadinanza repubblicana è solidale condivisione e attuazione del progetto costituzionale di liberazione nella libertà da parte di una moltitudine che è plurale perché fatta di persone eguali tra loro, ma uniche, differenti, unite dall’appartenenza a quel progetto e immuni dall’ostilità verso l’altro da sé, perché i cittadini repubblicani sono tutti diversi tra loro, è la Repubblica come progetto di liberazione a unirli.
Il progetto repubblicano di eguale dignità e libertà delle persone, elaborato con il concorso decisivo dei comunisti italiani, è esattamente l’opposto del totalitarismo, e questo non andrebbe mai dimenticato, tanto meno oggi che si cerca di fare della paura e dell’egoismo solitario dei cittadini la sola ragion d’essere e di agire della Repubblica.