La difficile formazione della Commissione von der Leyen fra Stati membri e Parlamento europeo: un futuro ancora più ostico?
Il 27 Novembre il Parlamento europeo ha approvato la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen con 461 voti a favore (157 contrari e 89 astenuti quasi tutti del gruppo Verdi/ALE); il giorno successivo si è espresso su una risoluzione che dichiara l’emergenza climatica – atto fortemente simbolico voluto dalla neo Presidente per marcare l’inizio del suo mandato – con una maggioranza di 429 voti.
Le due cifre possono essere lette come epifenomeni degli elementi di forza e di debolezza della nuova Commissione. Allo stesso modo, l’elevato numero di Parlamentari europei che l’ha approvata (38 in più della Commissione Juncker) va analizzato assieme al margine di soli 9 voti con i quali nel luglio di quest’anno la von der Leyen è stata eletta Presidente della Commissione europea.
Per comprendere il perché di variazioni così rilevanti nel consenso suscitato dalla nuova occupante di palazzo Berlaymont è necessario tornare alle elezioni del maggio 2019 dove il PPE e i S&D hanno ottenuto 336 seggi (alle elezioni del 2014 erano 401) ed al contempo, le forze cosiddette euroscettiche, sono risultate essere il primo partito sia in Italia che in Francia che nel Regno Unito.
Il Parlamento europeo conseguentemente formatosi ha, dunque, espresso una maggioranza di natura differente rispetto a quella precedente: da un lato deve affidarsi al sostegno di Renew Europe – il cui “azionista” principale è il partito fondato da Emmanuel Macron duramente attaccato dagli altri gruppi della maggioranza che gli imputano la riduzione del consenso da loro raccolto – dall’altro sconta una diminuzione della coesione interna.
Infatti, i risultati ottenuti dai partiti euroscettici – pur non rivelatisi determinanti per la formazione della nuova Commissione – generano un’attrazione non indifferente nei confronti di alcuni componenti dello stesso PPE che in diversi Paesi europei governano o hanno governato congiuntamente ai primi (sembra andare in tale direzione l’iniziale volontà della leader cristianodemocratica di nominare il portafoglio per la promozione dello stile di vita europeo per la “protezione” dello stile di vita europeo).
Risulta difficile, pertanto, ricondurre le difficoltà affrontate dalla von der Leyen, nella formazione della sua squadra, al mero irrigidimento della procedura di pre-scrutinio da parte della Commissione Giuridica del Parlamento europeo che ha bloccato due candidati per profili di conflitti di interesse.
In particolare Rovana Plumb, indicata dal governo socialista della Romania, è stata bocciata poiché la sua dichiarazione di interessi finanziari – ogni Commissario in pectore è tenuto a sottoporla alla Commissione Giuridica – rilevava alcune discrepanze con quanto dichiarato in Romania, tra le quali spiccavano fondi utilizzati per sostenere la sua campagna elettorale.
Sempre la Commissione giuridica ha fermato László Trócsányi, indicato dal governo ungherese come possibile Commissario alle politiche di vicinato ed allargamento, che dunque non ha potuto procedere alle audizioni di conferma nelle Commissioni competenti per il suo portafoglio. La Commissione ha addotto motivazioni relative al conflitto di interessi determinatosi quando Trócsányi era Ministro della giustizia ungherese ed allo stesso tempo titolare di uno studio legale. Tuttavia il fatto che le leggi approvate dal Parlamento ungherese quando Trócsányi era Ministro siano al centro della procedura attivata nei confronti dell’Ungheria di cui all’art. 7 del TUE, ha certamene influito sulla valutazione dei membri del Parlamento europeo che compongono la Commissione Giuridica. Lo stesso Trócsányi ha lamentato la politicizzazione della valutazione, teoricamente tecnica, svolta da quest’ultima.
Se i due candidati fermati dalla Commissione Giuridica riflettono le tensioni tra la maggioranza attuale ed il gruppo di Visegrad (si ricorda che il Partito socialista democratico romeno nonostante la sua adesione al gruppo S&D al Parlamento europeo si è da sempre più o meno allineato alle posizioni dei V4), di natura differente risulta la bocciatura del Commissario indicato dal Presidente francese.
La candidatura di Sylvie Goulard, attualmente vicegovernatrice della Banca di Francia, è stata rigettata da una larghissima maggioranza della Commissione per il Mercato interno che rientrava nell’ambito dell’ampio portafoglio assegnato alla Goulard. Le motivazioni di tale rifiuto citano l’improprio utilizzo di alcuni fondi quando quest’ultima era parlamentare europea e le sue dimissioni da Ministro della difesa del governo francese. Ma l’ampio numero di parlamentari che hanno votato contro la sua nomina (82 contro 29) sembra indicare che la Goulard si sia trovata al centro dello scontro tra il Parlamento europeo ed il Consiglio europeo sulla scelta del Presidente della Commissione – il Parlamento europeo aveva richiesto che perlomeno il designato si fosse candidato alle ultime elezioni europee – nel quale l’inquilino dell’Eliseo sembra aver avuto un ruolo decisivo. La scelta del Consiglio europeo ha ignorato la posizione del Parlamento abbandonando peraltro il sistema degli Spitzenkandidaten. Allo stesso tempo PPE e S&D, come si è già detto, imputano sempre a Macron il forte calo di consensi che li ha colpiti alle scorse elezioni.
Le tensioni sopra elencate sono state evidenziate dalla dichiarazione di voto pronunciate lo scorso 27 ottobre al Parlamento europeo. Tutti i capigruppo, anche e soprattutto della maggioranza, si sono rivolti alla Commissione sottolineando che il loro voto, anche se favorevole, non significava in alcun modo un “assegno in bianco” alla von der Leyen, ed anzi, hanno rimarcato che il suo operato sarà sottoposto a stretta sorveglianza.
La Brexit, dunque, pur essendo un fenomeno giuridico-politico senza precedenti a livello europeo, risulta in buona compagnia nella lista delle sfide della nuova Presidente. Di nuovo, per poterne comprendere la complessità, serve tornare alle elezioni del Maggio 2019 (in questo caso il 23) svoltesi nel Regno Unito mentre al contempo si dibatteva di come suddividere tra gli Stati membri i seggi eventualmente lasciati vuoti dai parlamentari britannici. Queste ultime hanno visto il Brexit Party, che propugna un’uscita “no deal” dall’Ue, raggiungere il 33% dei consensi. Al voto di maggio ha fatto seguito una convulsa fase di contrattazione con l’Ue e di dibattito all’interno dello stesso Regno Unito (trattato ampiamente dalla presente rivista) il cui ultimo atto – assolutamente non conclusivo – si è determinato nella mancata indicazione da parte del premier Boris Johnson di un candidato Commissario. Il governo britannico aveva a più riprese ufficialmente rassicurato le istituzioni europee sul fatto che avrebbe adempiuto a tale obbligo salvo poi essere smentito dal Premier conservatore che in altrettante occasioni ha asserito che non sarebbe stata necessaria alcuna nomina poiché la Brexit sarebbe avvenuta entro il 31 ottobre 2019 (strategia denominata “do or die”). A tale inadempimento ha fatto seguito l’attivazione della procedura di infrazione nei confronti del Regno Unito che da parte sua non ha neppure risposto entro il 22 novembre inviando le osservazioni previste dall’art. 258 del TFUE.
Se la procedura di infrazione è da ascrivere ai particolari di minor importanza all’interno dell’ordalia denominata Brexit è pero un particolare che si inserisce nel quadro di una Commissione insediatasi con un mese di ritardo, che ha dichiarato di voler attuare un programma di ampio respiro e di grande impegno (dal Green new deal al Just transition fund) con una maggioranza altamente variabile – come mostra il voto sull’emergenza climatica, disertato da diversi parlamentari del PPE perché troppo estremo e non appoggiato dai Verdi perché ritenuto assolutamente insufficiente – e con armi economico-finanziarie spuntate.
Infatti, è necessario ricordare che da alcuni mesi sono in corso le contrattazioni relative alla formazione del Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027. Al momento, tuttavia, sembra rimanere stabile l’ammontare destinato annualmente al bilancio europeo, ovvero le modifiche al sistema di risorse proprie finora presentate saranno direzionate alla copertura delle risorse sottratte dall’uscita del Regno Unito, calcolate intorno ai circa 9 miliardi di euro annui (al netto di quanto reinvestito nello stesso Stato membro). Nei prossimi 7 anni dunque, salvo particolari sorprese, l’attuale sistema di finanziamento del bilancio europeo verrà sostanzialmente confermato e non serve ricordare che ammonta, al momento, a circa l’1% del PIL dell’Ue.
La maggioranza che ha sostenuto la neo Presidente è una delle più ampie raccolte da coloro che hanno ricoperto tale carica e sono molteplici i richiami a non limitarsi alla gestione dell’acquis. Il mantenimento dell’unità di quest’ultima sembra, tuttavia, essere esso stesso una sfida per la von der Leyen se si pensa che i Commissari infine indicati da Romania, Ungheria e Francia – Adina-Ioana Vălean, Olivér Várhelyi e Thierry Breton – sono stati bersaglio di molteplici critiche concentratesi sugli stessi punti dei loro predecessori. Von der Leyen che dovrà essere in grado di compiere scelte decisive su argomenti rivelatisi divisivi come ambiente, immigrazione e solidarietà finanziaria – si veda il portato di quest’ultima in relazione al dibattito sul MES – rilanciando allo stesso tempo la crescita dell’Eurozona a fronte del rallentamento della locomotiva tedesca.