L’aiuto al suicidio “a una svolta”, fra le condizioni poste dalla Corte costituzionale e i tempi di reazione del legislatore?
Le questioni relative all’aiuto al suicidio, a fronte del deposito delle motivazioni della sentenza n. 242 del 2019 a meno di due mesi dall’udienza pubblica del 24 settembre 2019 (per prime osservazioni critiche alla decisione si veda innanzitutto A. Ruggeri, “Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito”, in www.giustiziainsieme.it, 27 novembre 2019), consentono non solo di ragionare sul merito e sull’impatto della sostanziale conferma della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui punisce, a determinate condizioni, l’aiuto al suicidio, ma anche di svolgere più ampie considerazioni che attengono al rapporto fra Corte costituzionale e legislatore, considerando l’indubbio arricchimento dello strumentario decisorio attraverso il ricorso all’innovativa tecnica adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018 (sulle cui caratteristiche si rinvia a M. D’Amico, “Il ‘Caso Cappato’ e le logiche del processo costituzionale”, in www.forumcostituzionale.it, 24 giugno 2019, e N. Fiano, “L’ordinanza n. 207/2018 e la prassi temporalmente manipolativa del Bundesverfassungsgericht”, in Notizie di Politeia, 2019, XXXV, 150 ss.).
Rispetto al primo profilo (sul merito e sull’impatto della decisione) occorre chiedersi, in particolare, se la Corte abbia inteso con la sentenza n. 242 riconoscere un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio.
Dal secondo punto di vista (quello relativo al rapporto fra Corte costituzionale e reazione del legislatore) è necessario verificare – tenendo conto della ben nota inerzia del Parlamento a seguito dell’ordinanza n. 207 – se la sentenza n. 242 non possa considerarsi davvero l’“ultima tappa” del percorso relativo a queste questioni o se si possa invece ritenere la stessa in ogni caso “autoapplicativa”, pur in attesa di un (comunque forse) auspicabile intervento del legislatore.
- Benché si inseriscano all’interno del più ampio tema del cd. fine vita e dunque dei principi sottesi al consenso informato e alla possibilità di rifiutare anche i trattamenti di nutrizione e idratazione artificiali, oltre alla pianificazione condivisa delle cure (materia ormai regolata dalla legge n. 219 del 2017, che ha recepito direttamente non solo i principi costituzionali e l’interpretazione che di essi ha dato la Corte costituzionale, ma anche le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comune e di legittimità nei noti casi Welby ed Englaro), le questioni poste alla Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio hanno posto (e ancora pongono, come si vedrà oltre, in ragione del continuo riferimento al legislatore) ben differenti profili problematici, che attengono, in particolare, al contributo dei terzi nell’attuazione della volontà del paziente.
Entro questa specifica perimetrazione delle questioni relative all’aiuto al suicidio si colloca la decisione della Corte costituzionale, che non sembra affatto riconoscere alcun “diritto al suicidio assistito”, che si tradurrebbe in una vera e propria pretesa del singolo a ottenere dal servizio sanitario nazionale le prestazioni necessarie. Al contrario, essa individua le quattro (imprescindibili) condizioni in cui deve trovarsi il soggetto che intenda suicidarsi (ma che non possa evidentemente farlo da solo) che rendono non punibile la condotta dei terzi.
Proprio rispetto a queste quattro specifiche condizioni individuate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 occorre soffermarsi per verificare se questa decisione possa, in definitiva, ritenersi autoapplicativa oppure se necessiti, per la sua concreta attuazione, dell’intervento del legislatore (peraltro già chiaramente sollecitato, senza effetto, con la precedente ordinanza n. 207).
Come è noto, la Corte conferma la non punibilità del soggetto che agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi del soggetto che deve essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli (istituto ben diverso e più ampio rispetto alla capacità di intendere e di volere), che deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e che sia affetto da una patologia irreversibile (quindi non necessariamente terminale), fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili.
La mancata individuazione del diritto al suicidio assistito, quindi, sembra chiaramente emergere già considerando queste quattro condizioni, che se fossero state declinate dalla Corte in tal senso – e non invece in quello relativo alla (sola) area di non punibilità del terzo – avrebbero determinato profili di ulteriore discriminazione sia nei confronti di chi versi nella medesima situazione senza però poter autonomamente attivare il meccanismo che determina il suicidio (necessitando, in questo caso, di un ben diverso apporto materiale da parte dei terzi: omicidio del consenziente); sia nei confronti di chi versi nella medesima situazione senza però essere tenuto in vita da alcun macchinario; sia, ancora, nei confronti di chi versi nella medesima situazione caratterizzata però non da patologia irreversibile, ma (solo) terminale.
Un simile riconoscimento, peraltro, avrebbe introdotto notevoli problematiche per le stesse strutture ospedaliere, chiamate evidentemente a pianificare la propria organizzazione interna al fine di garantire i trattamenti sanitari richiesti.
Al contrario, la Corte – e questo aspetto è stato sottolineato fin dal comunicato stampa del 25 settembre 2019 – non riconoscendo un diritto all’aiuto al suicidio “si limita” a richiedere che le strutture pubbliche accertino le condizioni in cui versa il paziente e verifichino le modalità di esecuzione del proposito suicidario.
Il mancato riconoscimento di un vero e proprio diritto al suicidio, da ultimo, sembra ulteriormente confermato anche dal passaggio della motivazione che la Corte riserva all’obiezione di coscienza del medico.
La Corte, infatti, in modo particolarmente significativo non ignora affatto questa tematica, ma la declina coerentemente con il presupposto che fonda la sua stessa decisione (ossia, appunto, il mancato riconoscimento di un diritto al suicidio assistito). Proprio perché “la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati”, non si pone alcun profilo problematico circa l’assenza nell’ordinamento di una specifica disposizione che riconosca il diritto di sollevare obiezione di coscienza: e infatti, secondo la Corte, dalla sentenza n. 242 non discende “alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”, restando al più affidato “alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato” (sui nodi problematici sottesi invece al – quantomeno espresso – mancato riconoscimento del diritto di obiezione di coscienza nella materia delle disposizioni anticipate di trattamento, sia consentito il rinvio a B. Liberali, “Prime osservazioni sulla legge sul consenso informato e sulle DAT: quali rischi derivanti dalla concreta prassi applicativa?”, in Rivista di Diritti comparati, 2017, III, 267 ss.).
Il ruolo delle strutture ospedaliere, peraltro, si coglie sempre in questa specifica direzione anche laddove la Corte, opportunamente, valorizza oltre che le procedure previste dalla già richiamata legge n. 219 del 2017, anche quelle di cui alla legge n. 38 del 2010, con specifico riferimento alla indefettibile necessità di assicurare una appropriata terapia del dolore, oltre che l’erogazione delle cure palliative. Anche in questa occasione la Corte non manca di chiarire in modo specifico i limiti del proprio sindacato, richiamando un proprio precedente particolarmente significativo, ossia la sentenza n. 236 del 2016 che era giunta a modificare la cornice edittale di una fattispecie di reato facendo rigoroso rinvio a precisi punti normativi già presenti nell’ordinamento.
- Rispetto al secondo ordine di interrogativi di più ampio respiro che riguardano il rapporto fra la Corte costituzionale e i limiti del suo sindacato da un lato e dall’altro lato la sfera di discrezionalità che deve essere assicurata al legislatore e i tempi di reazione di quest’ultimo a fronte di decisioni di monito o di additive di principio, il cd. caso Antoniani costituisce un campo di indagine di specifico interesse in ragione della indubitabile evoluzione che la Corte compie nell’arricchimento qualitativo del proprio strumentario decisorio.
Se con l’ordinanza n. 207, come è noto, la Corte pur accertando profili di incostituzionalità della norma censurata ritiene di dover rinviare la trattazione delle questioni fissando una nuova udienza pubblica per consentire nel frattempo al Parlamento di intervenire facendo in tal modo leva sui “propri poteri di gestione del processo costituzionale” (sulle problematiche sottese all’individuazione di un vero e proprio processo costituzionale si rinvia a M. D’Amico, Parti e processo nella giustizia costituzionale, Giappichelli, 1991), con la sentenza n. 242 la Corte sottolinea di dover “però ora prender[e] atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more delle nuova udienza”, né tantomeno “l’intervento del legislatore risulta imminente”.
Come si è già anticipato la Corte – che pure procede alla dichiarazione di incostituzionalità “In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento” e dopo aver disposto il rinvio della pubblica udienza (con “diversa tecnica”, che comunque risponde “alla stessa logica che ispira […] il collaudato meccanismo della ‘doppia pronuncia’”) – non manca di fare costante riferimento al ruolo che in ogni caso resta pur sempre affidato al legislatore nella scelta di una organica e compiuta disciplina della materia. Proprio questi riferimenti potrebbero indurre a ritenere che, ancora una volta, non si possa assegnare alla sentenza n. 242 il carattere di “sostanziale definitività” nella risoluzione delle questioni concrete sottese, dovendosi attendere l’imprescindibile intervento del Parlamento.
Al contrario, invece, sembrano doversi richiamare non solo gli specifici requisiti già individuati con l’ordinanza n. 207 del 2018 – rispetto alle condizioni del paziente – ma anche – e questo forse è il dato ancor più significativo in tale prospettiva – il ruolo, cui si è già fatto riferimento, demandato alle strutture ospedaliere pubbliche. A queste ultime non è affatto richiesto di organizzarsi in modo da garantire l’effettivo espletamento delle procedure necessarie per attuare l’intento suicidario del soggetto, quanto di verificarne le condizioni di salute e quelle di esecuzione delle volontà.
Viene in rilievo a tale proposito – e la Corte ne fa espresso richiamo nelle sue motivazioni – la sentenza n. 96 del 2015, che, benché resa nella ben diversa materia della fecondazione medicalmente assistita, offre un precedente specifico che consente di ritenere autoapplicativa la sentenza n. 242 certamente fino a quando, ma soprattutto se il legislatore non intenderà intervenire in modo organico recependo le indicazioni di principio ivi contenute.
In quella occasione la Corte nell’ampliare la platea di coppie destinatarie delle tecniche assistite ricomprendendo anche quelle né sterili né infertili, ma portatrici di gravi malattie geneticamente trasmissibili pur richiedendo al legislatore la stesura di un elenco di tali malattie (pur aggiornabile periodicamente) e imponendo lo svolgimento delle relative procedure in apposite strutture pubbliche ancorò la “qualità” di tali malattie a quei medesimi criteri di gravità cui già la legge n. 194 del 1978 fa riferimento – senza contenere peraltro alcun elenco di malattie – per consentire alla donna l’intervento di interruzione di gravidanza oltre il terzo mese di gestazione (art. 6, lett. b).
In attesa di un (davvero auspicabile?) intervento del legislatore nella materia del cd. suicidio assistito sarà la concreta prassi applicativa a dare prova degli effetti dispiegati dalla sentenza n. 242 (già anticipata dall’ordinanza n. 207) sia con riguardo ai profili di autonomia e responsabilità dei medici che, in accordo con lo stato di evoluzione della scienza e della tecnica, sono chiamati ad applicare i protocolli medici più adatti per ogni caso concreto (come per esempio, sentenze nn. 282 del 2002, 338 del 2003 e 151 del 2009), sia con riferimento ai procedimenti penali pendenti o che si avvieranno in futuro, alla luce del perdurante rilievo penale di alcune delle condotte previste dall’art. 580 c.p. Anche rispetto ai compiti demandati ai giudici comuni, peraltro, la Corte ha mostrato di essere consapevole dei risvolti “concreti” e immediati della propria pronuncia, offrendo specifiche indicazioni circa la modalità di valutazione delle condotte, con ciò ancora una volta modulando gli effetti della propria decisione.