Ancora sul trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione. Il caso Sallusti al vaglio della Corte Edu
Con la pronuncia della Corte di Strasburgo (Corte EDU, Sallusti c. Italia, sentenza 7 marzo 2019) si è concluso l’affaire Sallusti, riproponendo il problema della compatibilità con la Cedu del trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione.
Ed invero la Corte EDU ha condannato l’Italia in considerazione della violazione dell’art. 10 CEDU, a seguito della vicenda giudiziaria gravante sul direttore del quotidiano “Il giornale” Alessandro Sallusti per il reato di diffamazione aggravata, conclusosi con la condanna alla pena di 14 mesi di reclusione congiunta ad euro 5.000 di multa, ai sensi degli artt. 595 c.p. e 13 l. 47/1948 (per un’attenta ricostruzione del caso S. Turchetti, Diffamazione, pena detentiva, caso Sallusti: ancora una condanna all’Italia da parte della Corte Edu, in http://www.penalecontemporaneo.it/, 18 marzo 2019).
Si trattava, a dire il vero, di un decorso del tutto prevedibile dal momento che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo era già intervenuta a pochissima distanza di tempo a condannare l’Italia con riferimento alla violazione dell’art. 10 CEDU per l’inflizione di una condanna ad una pena detentiva nei confronti di giornalisti (Corte EDU, Ricci c. Italia, sent. 8 ottobre 2013; Corte EDU, Belpietro c. Italia, sent. 24 sett. 2013).
Nonostante la giurisprudenza della Corte Edu in tal senso sia granitica, la questione interna non è stata superata con il caso Sallusti.
La stessa Corte è ben consapevole di come il suo intervento non sia volto a porre in dubbio la fondatezza della condanna del Sallusti, quanto piuttosto a verificare la tenuta dell’ingerenza dello stato – che si ritiene legittima – con riferimento alla proporzionalità della pena in relazione al fine perseguito.
Affinché l’intervento dello Stato non risulti in contrasto con i parametri di cui all’art. 10, paragrafo 2 della Convenzione non solo occorre che questo sia prescritto dalla legge; rileva altresì la legittimità dello scopo (protezione di diritti fondamentali, quali la reputazione) e la necessarietà dell’ingerenza (sul punto v. Corte EDU, Chauvy e altri c. Francia, sent. 24 giugno 2004).
A tal proposito la verifica della legittimità dell’intervento dello Stato, con riferimento ai suddetti parametri, deve tener conto anche della natura e della gravità delle pene inflitte, all’interno di un vaglio di proporzionalità.
Nel caso in esame, come nei precedenti citati, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto sproporzionata la pena in concreto irrogata, dal momento che si ritiene legittima la condanna ad una pena detentiva solo ove ci si trovi in presenza di circostanze eccezionali, che, secondo la Corte di Strasburgo, si verificano solo laddove il messaggio trasmesso abbia un contenuto che inciti all’odio o alla violenza (Corte EDU, Cumpănă e Mazăre c/Romania, sent. 17 dicembre 2004).
Può ritenersi, quindi, che ad essere oggetto di censura è, in senso ampio, la species della pena che l’ordinamento italiano prevede per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, cioè la pena della detenzione cumulativamente alla pena pecuniaria (non alternativa).
I principi espressi dalla Corte EDU in tema di libertà di espressione senza dubbio non rappresentano un novum della sua giurisprudenza, tantomeno contro l’Italia.
Sebbene abbia parlato di libertà di espressione quale “condizione basilare per il progresso sociale e lo sviluppo umano” (Corte EDU, Handyside c. regno Unito, sent. 7 dicembre 1976), la Corte è ben consapevole che il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero possa ledere altri diritti, altrettanto meritevoli di protezione, quali la riservatezza e la reputazione.
Proprio in tale ultima pronuncia citata i giudici di Strasburgo con riferimento all’art. 10 CEDU colgono l’occasione per porre in rilievo il giudizio comparativo quale tecnica da essa utilizzata quale fondamento delle sue pronunce. In tal senso, si ritiene che nonostante la valutazione sulla necessità di un intervento dello stato – volto alla limitazione di un diritto in favore di un fine perseguito – sia oggetto di discrezionalità dello stesso, questo giudizio rappresenti solo una prima fase. Invero segue una fase che ha ad oggetto un controllo sulla fondatezza e sulla necessità in concreto della misura restrittiva.
Per quel che concerne il fine perseguito, il margine di discrezionalità interna varia a seconda del c.d. consenso europeo: maggiore è la diversificazione delle posizioni intraprese dagli stati, più ampio sarà il margine d’apprezzamento per il singolo stato. (Per un approfondimento sul tema si veda G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondametali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Jovene, 2011, pp. 123 ss.).
A tal proposito, uno sguardo d’insieme rileva come la diffamazione, a mezzo stampa ovvero semplice, costituisca un reato nella maggior parte dei Paesi del Consiglio d’Europa. Tuttavia, uno sguardo più attento mostra come nella maggior parte dei casi non si ricorre alla repressione mediante la pena detentiva, nonostante sia talvolta prevista. La linea di tendenza che sembra intraprendersi ad oggi è quella della depenalizzazione del reato di diffamazione, ferma restando la possibilità che il giornalista sia chiamato a rispondere civilmente (E. Selvaggi, Nota a Corte europea diritti dell’uomo, 28 giugno 2012, n. 15054, sez. V, in Cass. pen., 1/ 2013, p. 342).
Ciò in conseguenza della considerazione per cui nella sfera giornalistica se è vero che la tutela della libertà di espressione debba intendersi rafforzata, è altresì vero che i diritti alla riservatezza e alla reputazione sono maggiormente esposti, visto il potenziale di diffusione, la struttura e lo scopo ontologico di pubblicazione che investe la stampa.
In tal senso, in ottemperanza all’art. 8 CEDU, ciascuno Stato membro ha l’obbligo di prevedere un esercizio della libertà di espressione che possa essere idoneo al raggiungimento del duplice obiettivo perseguito: da un lato un’adeguata tutela della reputazione dei soggetti da parte della legge; dall’altro scongiurare il rischio che le misure adottate – specie in ambito penale – siano tali da determinare una minaccia che pesi sulla libertà di espressione, dalla quale derivi la dissuasione, anche solo parziale, dei mass media alla diffusione di notizie, a sfondo giudiziario o meno.
Di conseguenza la ponderazione tra i diritti in gioco dovrà essere effettuata con maggiore cautela, in primo luogo in astratto dal legislatore, quindi in concreto dal giudice.
Dunque, il problema riscontrato dalla Corte EDU non consiste nelle valutazioni relative al bilanciamento a favore dei diritti alla riservatezza e alla reputazione (con conseguente condanna del giornalista), quanto piuttosto verte sulla proporzionalità della pena.
Difatti, il giudice si vede le mani legate dalla previsione di una pena detentiva non alternativa, ma cumulata alla pena pecuniaria di cui all’art. 13 l. 47/48. Tanto è vero che nel giudizio interno la questione sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione non era – e non poteva essere – riferita alla liceità della species della pena, quanto piuttosto sulla possibilità di sospendere la pena o di prevedere una differente graduazione della stessa (F. Viganò, Sulle motivazioni della Cassazione nel caso Sallusti, in http://www.penalecontemporaneo.it/ 24 ottobre 2012).
Dal punto di vista della giurisprudenza sovranazionale, tuttavia, l’eventuale sospensione della pena detentiva non risolverebbe il limite della mancanza di una effettiva graduazione della pena. Infatti la sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 163 c.p., così come la grazia che Sallusti ha ricevuto dal Presidente della Repubblica – che ha commutato la pena detentiva in pena pecuniaria – appaiono piuttosto mezzi per aggirare il problema, senza risolverlo.
Tanto è vero che i giudici di Strasburgo hanno già avuto modo di specificare come la sospensione condizionale della pena non avrebbe spostato la questione, in considerazione della ritenuta violazione dell’art. 10 CEDU, che si ritiene esclusa solo in casi eccezionali (Corte EDU, Katrami c. Grecia, sent.16 aprile 2009, caso in cui la Corte ha ritenuto la violazione dell’art. 10 CEDU nonostante la concessione della sospensione condizionale della pena).
L’incongruenza, in tal senso, appare essere nella circostanza che al giudice interno sia precluso un giudizio di opportunità circa l’eccezionalità del caso tale da richiedere l’applicazione di una pena detentiva. Ciò dal momento che nel caso di una violazione dell’art. 13 della l. 47/1948, il giudice si trova dinanzi alle sole possibilità di assolvere dal delitto di diffamazione a mezzo stampa, ovvero condannare alla pena detentiva e pecuniaria.
In conclusione, sembra essere sempre più dubbia la legittimità costituzionale dell’art. 13 l.n. 47/1948, in considerazione del parametro interposto di cui all’art. 117 comma 1 Cost. con riferimento all’art. 10 CEDU così come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Sebbene la questione sia oggetto di diversi disegni di legge (DDL n. 812 Caliendo; DDL n. 416 Verrini) che prevedono l’abolizione della pena detentiva per la diffamazione, anche nelle ipotesi più gravi (come l’attribuzione di un fatto determinato che si conosce essere falso), con il caso Sallusti si è persa un’occasione per rimettere la questione alla Corte Costituzionale.