“The People v. Roe”: negli Stati Uniti l’ondata antiabortista non si arresta e punta dritta verso Washington D.C.
In principio fu la promessa elettorale di Donald Trump: ben prima di varcare la soglia del n. 1600 di Pennsylvania Avenue e ignaro del fatto che, durante il proprio mandato, avrebbe avuto l’opportunità di nominare ben due giudici della Corte Suprema, l’attuale Presidente degli Stati Uniti mieteva consensi (e alimentava il dissenso) nell’elettorato assicurando il proprio impegno per smantellare definitivamente Roe v. Wade (410 U.S. 113 [1973]), la storica e controversa pronuncia della Corte Suprema che dal 1973 sancisce il diritto di tutte le donne americane ad interrompere una gravidanza, rinvenendone il fondamento costituzionale nel XIV Emendamento e nel complesso right to privacy che da esso discende e che tanta parte ha avuto nell’evoluzione dell’interpretazione costituzionale statunitense per quanto riguarda i diritti individuali afferenti alla sfera delle relazioni familiari, affettive ed intime.
In realtà, Roe è stata da sempre una sentenza difficile da metabolizzare per una parte non irrilevante dell’opinione pubblica americana e a dimostrarlo basterebbe considerare quanto il tema sia stato dibattuto in sede di confirmation hearings ogniqualvolta, dal 1973 in poi, si è profilata la sostituzione di uno dei nove Justice di Washington D.C.. La stessa Supreme Court è stata più volte costretta a tornare sull’argomento, in primis nel 1992 con la sentenza Casey (505 U.S. 833 [1992]), rivedendo in maniera parzialmente restrittiva l’approccio adottato in Roe; tale decisione accordava ampia tutela alla libertà di scelta della gestante fino al momento della c.d. viability, a partire dal quale il feto può vivere autonomamente al di fuori dell’utero materno, vale a dire, in sostanza, nell’ultimo trimestre di gestazione. A partire dal 1992, invece, la Corte ha configurato il c.d. undue burden scrutiny, approccio che, fatto salvo il nucleo fondamentale della pronuncia Roe, consente però agli Stati di adottare misure di maggior tutela della unborn life, volte a scoraggiare il ricorso alla procedura abortiva, ritenute quindi legittime fintanto che non integrino appunto un undue burden, un aggravio eccessivo e illegittimo suscettibile di impedire di fatto alla donna l’esercizio del proprio diritto.
Forse anche a causa di questo atteggiamento della Corte Suprema, il movimento antiabortista americano non ha mai veramente deposto le armi, sperando evidentemente di arrivare, se non ad un esplicito, totale overruling, quanto meno ad un sostanziale svuotamento di significato della sentenza Roe. In tempi meno recenti, le iniziative in questa direzione sono state piuttosto nel senso di occupare gli spazi di manovra e gli spiragli lasciati aperti dalla sentenza Casey, sfruttando, cioè, la leva delle misure preliminari per l’accesso all’interruzione di gravidanza, le cui maglie quanto più si stringono tanto più ostacolano le donne nella realizzazione della propria scelta e scoraggiano, imponendo oneri finanziari particolarmente gravosi, le stesse strutture sanitarie che operano in questo delicato settore; peraltro, solo pochi anni fa, con la pronuncia Whole Woman’s Health v. Hellerstedt (579 U.S. _ [2016]), la Corte di Washington ha cassato una normativa texana che andava esattamente in questa direzione, ribadendo che uno Stato non può arrivare, mediante surrettizi aggravi procedurali, al punto di negare di fatto il diritto ad interrompere una gravidanza.
Tuttavia, soprattutto tra la fine del 2018 e questi primi mesi del 2019, i tentativi di demolire il diritto costituzionale all’aborto si sono fatti più frequenti e più incisivi, specie se si guarda alle modalità dei provvedimenti adottati che, rispetto al passato, perseguono meno i loro scopi per il tramite indiretto degli ostacoli procedurali all’interruzione di gravidanza e sempre più spesso, invece, aggrediscono direttamente il diritto in questione, destituendolo di fondamento costituzionale a livello statale o, al contrario, elevando espressamente la “vita prenatale” a tale rango di protezione, come è avvenuto, ad esempio, in Alabama (per una ricostruzione dettagliata delle tappe precedenti di questa vicenda, si vedano L. Pelucchini, https://www.diritticomparati.it/whole-womans-health-v-hellerstedt-la-corte-suprema-statunitense-torna-sul-diritto-allaborto/; L. Pelucchini https://www.diritticomparati.it/rights-fell-alabama-il-diritto-allaborto-negli-stati-uniti-seguito-degli-emendamenti-costituzionali-alabama-e-west-virginia/; L. Pelucchini https://www.diritticomparati.it/se-roe-cade-nello-stato-del-pellicano-il-futuro-incerto-del-diritto-allaborto-negli-stati-uniti/).
Complice anche il fatto che la maggioranza degli Stati americani è attualmente governata da esponenti del partito repubblicano, gli ultimi mesi hanno visto un’escalation vertiginosa della legislazione antiabortista; proprio l’Alabama si è resa protagonista delle cronache degli ultimi giorni, quando la governatrice repubblicana Kay Ivey ha sottoscritto la normativa più severa tra quelle attualmente in vigore o recentemente varate nei singoli Stati. La legge in questione sancisce a tutti gli effetti la responsabilità penale del medico che procuri un aborto (definito un vero e proprio felony, un crimine grave) in qualunque caso, contemplando la sola eccezione, peraltro normativamente molto circoscritta, di un serio rischio per la salute fisica della gestante; e se nei confronti del medico si prescrive, evidentemente in funzione deterrente, l’irrogazione di condanne a pene detentive estremamente afflittive in termini di durata, la posizione della donna, pur tenuta indenne dalla responsabilità sia civile che penale, non appare maggiormente protetta, ove si consideri che la legge non le lascia libertà di scelta alcuna neppure nel caso in cui la gravidanza sia il frutto di uno stupro o di incesto.
Ad ogni modo, la legge dell’Alabama rappresenta al momento un’eccezione nel panorama statunitense; in effetti, il nuovo fronte della legislazione pro-life è attualmente rappresentato dai c.d. heart-beat bills, che non erano ignoti agli americani prima d’ora, ma che, soprattutto nelle ultime settimane, stanno decisamente proliferando, propagandosi a macchia d’olio da uno Stato all’altro. Sebbene formulate in termini diversi da quelli dell’abortion ban dell’Alabama, si tratta di leggi comunque fortemente erosive del diritto all’aborto, dato che rendono illegittimo ricorrervi a partire dal momento in cui può essere percepito il battito cardiaco del feto, rilevabile, dagli attuali strumenti diagnostici, all’incirca a partire dalla sesta settimana di gestazione; ed è appunto questo il limite di tempo oltre il quale l’aborto viene considerato illegittimo e quindi, sempre e solo per quanto riguarda il personale medico, punito anche severamente (in un solo caso, quello del Missouri, il limite massimo è fissato, senza però andare troppo lontano, all’ottava settimana di gestazione). Nonostante la lettera della legge sembri in apparenza meno restrittiva rispetto all’Alabama Human Life Protection Act, lo scopo perseguito e l’effetto che ne deriverebbe sono sostanzialmente analoghi, dato che la previsione di un margine di tempo così fortemente limitato per interrompere una gravidanza finirebbe, in molti casi, per precludere totalmente l’accesso alla procedura abortiva. Solo in alcune normative, poi, come ad esempio nella legge della Georgia, è prevista un’eccezione in caso di gravidanza derivata da stupro o incesto, subordinandone però l’operatività al fatto che la donna abbia presentato, relativamente a tali reati, una regolare denuncia; anche questa si configura quindi come un’eccezione che tutela la libertà di scelta della madre, oltre il limite delle sei settimane, solo parzialmente e relativamente, dato che le vittime di violenza sessuale, specie in ambito familiare, sono spesso restie a denunciare gli abusi subiti e chi ne è responsabile.
Georgia, Ohio, Mississippi e Missouri sono gli Stati che proprio ultimamente hanno varato il proprio heart-beat bill, ma, a ben vedere, il panorama degli Stati americani è più complesso e variegato e leggi simili venivano elaborate in diversi Stati già qualche anno fa, sebbene attualmente si trovino in stadi diversi del procedimento legislativo o siano già passate al vaglio delle Corti: per fare solo qualche esempio, in Arkansas, l’HB bill, superato dalle Camere il veto del Governatore, è stato poi reso inoperante da un giudice federale, così com’è avvenuto in Kentucky e nel North Dakota; nel West Virginia, in Texas, Tennessee, Maryland, Minnesota e Florida, si tratta, per il momento, solo di una proposta di legge; nel South Carolina, il disegno di legge è già stato approvato da una delle due Camere, mentre in Louisiana si attende ormai solo che il Governatore apponga la propria firma al provvedimento.
Al di là del fatto che il periodo di vacatio previsto per queste recenti leggi in materia di aborto è piuttosto lungo – si tratta, nella maggior parte dei casi, di leggi destinate ad entrare pienamente in vigore non prima del prossimo autunno – è bene sottolineare, a questo punto, che, sia nel caso della legge dell’Alabama, sia nel caso delle normative heart-beat, si tratta, sempre e comunque, di c.d. trigger-laws, di leggi, cioè, che intanto potranno dispiegare i loro effetti, in quanto vengano rimossi a livello federale e costituzionale, dalla stessa Corte Suprema, i limiti che gli Stati attualmente incontrano nel disciplinare (o meglio, nel circoscrivere) il diritto di aborto, nel perimetro tracciato in primo luogo dalla sentenza Roe, ma anche da quelle che l’hanno seguita, rendendo magari più labili i confini di quel perimetro, ma mai abiurando totalmente il contenuto essenziale di quella decisione.
Parimenti devono essere considerati trigger-laws i divieti di aborto preesistenti a Roe che, come spesso accade negli ordinamenti di common law, ancora giacciono silenti e inoperanti, e tuttavia mai formalmente abrogati, nel panorama legislativo degli Stati americani.
Lo scopo di quest’ultima levata di scudi contro l’aborto diventa, quindi, chiaro ed evidente, a maggior ragione se si tiene conto delle modifiche da ultimo apportate da Trump alla composizione della Corte di Washington: riportare la questione, una volta per tutte, dinanzi alla Corte Suprema Federale, forzandole la mano, dato che, in questi ultimi anni, avvalendosi dei benefici del certiorari, i nove giudici, in materia di aborto, sovente hanno scelto di astenersi del tutto dall’esaminare il caso, evitando prese di posizione troppo nette nell’una o nell’altra direzione.
Il futuro operato della Corte non appare però così facilmente prevedibile, se si tiene conto dei costi, non materiali, bensì in termini di valori costituzionali in gioco, che la restituzione dell’aborto alla potestà legislativa dei singoli Stati potrebbe comportare.
Innanzitutto, un punto di frizione non di poco conto si profilerebbe per quanto riguarda le disparità profonde che potrebbero determinarsi tra uno Stato e l’altro, dato che non si tratterebbe di ammettere semplicemente una diversa declinazione del diritto – che, peraltro, come si è visto, per certi aspetti, è comunque consentita – , bensì di accettare la possibilità che alcuni Stati lo neghino del tutto alla propria popolazione femminile; leggi così marcatamente diverse finirebbero, inevitabilmente, per penalizzare soprattutto le donne che versano in condizioni di indigenza, ridando, magari in un domani più lontano, linfa alle pratiche abortive illegali che faticosamente, a partire dagli anni ’70, si è cercato di estirpare.
Inoltre, sia la legge dell’Alabama, sia le altre, come abbiamo detto, apparentemente meno severe, stridono fortemente sia con la protezione accordata alla libertà personale anche solo in senso meramente fisico, sia con un profilo di tutela della salute della madre, dietro la quale, a differenza di quanto avvenuto in passato, le recenti normative difficilmente potrebbero trincerarsi, dal momento che, anche in caso di stupro o incesto, la salute psicologica della madre viene considerata automaticamente soccombente rispetto alla protezione dell’integrità fisica del nascituro, in assenza di qualsiasi operazione di bilanciamento che consenta di contemperare e comporre al meglio i delicatissimi interessi in gioco.