Il dark side of the moon della direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale
1.La recente approvazione della direttiva copyright ha rinnovato il dibattito – ma forse più propriamente dovrebbe parlarsi di cliché – tra apocalittici e integrati della Rete: uno scontro tra opposte visioni tra coloro che intravedono il tramonto dei servizi di internet, così come siamo abituati a conoscerli e a utilizzarli, e gli altri che confidano nel nuovo testo legislativo come il rimedio agli squilibri che sarebbero ingenerati dall’utilizzo non remunerato di contenuti tutelati dal diritto d’autore.
Raramente, nel recente passato, si era assistito a una simile polarizzazione delle posizioni coinvolte, che hanno assunto toni aprioristicamente antitetici, rinunciando a qualsiasi forma di dialogo e preferendo rifugiarsi in una lotta a colpi di pressioni lobbystiche.
Non può non colpire, ad esempio, che molte testate giornalistiche abbiano denunciato il mercato di consulenti e studiosi, che sarebbero stati ingaggiati da Google e Co. per evidenziare le lacune della direttiva, ma che, al contempo, le medesime testate – con un singolare univocità prospettica – abbiano salutato con toni entusiastici il testo approvato, decantandone la perfezione di obiettivi e formulazioni.
In realtà, la direttiva presenta numerose zone grigie che, seppur nello spazio limitato del presente intervento, si proverà a portare alla luce.
2.Preliminarmente, però, appare opportuno soffermarsi brevemente sull’approccio che, generalmente, ha guidato l’operato del legislatore comunitario. Le radici storiche del diritto d’autore sono disomogenee e, spesso, i testi licenziati sono più la risposta a interessi economici dominanti o a situazioni emergenziali, che scelte fondate sulla necessità di creare un sistema organico di regole.
È risaputo che, a livello europeo, i due modelli dominanti poggiano il primo sull’utilitarismo – caratteristica degli ordinamenti di common law – che muove dall’utilità sociale delle opere e sugli investimenti per la loro realizzazione più che sul ruolo dell’autore, e l’altro sulle teorie lockiane – su cui sono modellati i sistemi giuridici continentali – che pongono al centro il lavoro creativo, da cui discenderebbe il diritto degli autori.
Si tratta di una bipartizione convenzionale, con valenza prettamente storica e con declinazioni spesso differenti all’interno delle medesime aree. Tuttavia, sebbene apparentemente si registri una preferenza per il primo modello, risulta evidente che, a livello europeo, manca una visione unitaria e sistematica: ne è la riprova la formulazione – sintetica, ai limiti del parossismo – del par. 2 dell’art. 17 della Carta Nizza, che si limita ad affermare che “La proprietà intellettuale è protetta”.
La nuova direttiva non fa eccezione a questo percorso disomogeneo, fin dalla scelta delle materie da regolamentare: si spazia, così, dal data mining alla tutela del patrimonio culturale; dall’utilizzo delle opere fuori commercio agli obblighi di trasparenza nella gestione e nella negoziazione dei diritti.
I punti di scontro del testo approvato, che hanno monopolizzato l’attenzione degli interpreti – laddove uno sforzo differente avrebbe consentito di migliorare anche le altre disposizioni, alcune delle quali trattano materie cruciali per il mercato interno e per le politiche economiche dell’Unione – sono essenzialmente due: da un lato, l’art. 15, relativo al compenso dovuto agli editori in caso di utilizzo di snippets, brevi estratti di articoli giornalistici, e, dall’altro, l’art. 17, che introduce limitazioni alle esenzioni di responsabilità, rispetto al regime previsto dalla direttiva sul commercio elettronico del 2000, per i gestori delle piattaforme.
3.Da tempo, si è fatto ricorso al diritto d’autore non per ottenere un reale ritorno economico, quanto per contrastare modelli di business emergenti. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle controversie giudiziarie che hanno coinvolto RTI e YouTube: il casus belli era l’utilizzazione non autorizzata di spezzoni video di proprietà della società attrice; l’obiettivo finale, tuttavia, era quello di osteggiare un soggetto verso cui si indirizzavano il pubblico, soprattutto quello più giovane, e – quale logica conseguenza – gli investimenti pubblicitari.
Del resto, sarebbe miope non notare l’approccio che l’industria culturale e editoriale hanno avuto al fenomeno internet: pochi investimenti in innovazione, risibili se paragonati a quelli per il contrasto della pirateria. La partita, però, si è giocata sul primo piano: i giornali, fino a pochi anni fa, proponevano i medesimi contenuti della versione cartacea, interagendo poco con le altre fonti di informazione esterne; l’industria creativa ha continuato a ricorrere a modelli produttivi oramai obsoleti. Le nuove generazioni scoprivano le playlist, si abbeveravano alla musica con i suggerimenti di YouTube; l’industria tradizionale continuava a licenziare album di artisti emergenti a costi altissimi, con tredici o quattordici canzoni, dove solo una aveva accesso al mercato radiofonico e, quindi, interessava realmente il pubblico. Analogo discorso potrebbe essere fatto per l’audiovisivo: prima di Netflix e Amazon Prime, quante case di produzione avevano seriamente investito nella diffusione dei propri prodotti via internet? Eppure il cinema, soprattutto nelle aree depresse e nelle province, è un bene prezioso: perché non creare una piattaforma, sulla quale distribuire i film in uscita nelle sale, per tutto il pubblico – numerosissimo e curiosissimo, come spesso è il pubblico nelle periferie dell’impero – che ha difficoltà a raggiungere i cinema? In realtà, una piattaforma esiste, creata dall’Anica: alzi la mano, però, chi ne ha mai sentito parlare e l’ha utilizzata.
Discorso antitetico potrebbe essere fatto per i gestori delle piattaforme. L’ultimo decennio di internet è stato caratterizzato da due fenomeni: il muoversi da uno spazio aperto a servizi proprietari, governati da regole, spesso arbitrarie, dei loro gestori (YouTube, Facebook, Instagram, ecc.); l’influenza sui comportamenti degli utenti, che, illusi dall’idea di essere fornitori di contenuti, passano il tempo a condividere ogni aspetto della propria vita, regalando le proprie abitudini di consumo, i propri gusti e, in generale, la propria esistenza ai proprietari di questi servizi. La conseguenza è stata la creazione di posizioni monopolistiche in capo a questi soggetti, che hanno accumulato ricchezze inimmaginabili (basta osservare la classifica annuale dei most valuable brands) e continuato a travestirsi da paladini della libertà.
Parafrasando Tacito, hanno fatto il deserto e lo chiamano pace.
4. Tornando al dibattito sulla direttiva, la domanda da porsi, a parere di chi scrive, non avrebbe dovuto essere, come posta da taluni, se sia giusto o sbagliato che i terzi, che utilizzino contenuti protetti dal diritto d’autore, versino un corrispettivo. È una domanda retorica, non una riflessione giuridica.
Gli artt. 15 e 17 rischiano di essere, rispettivamente, inutili e dannosi.
La prima disposizione ha due antecedenti legislativi, nelle esperienze spagnola e tedesca, che non possono sfuggire all’analisi comparatistica. La normativa spagnola è paradigmatica: la legge imponeva agli aggregatori di contenuti editoriali di versare agli editori una fee; Google News ha interrotto la fornitura dei propri servizi; la legge è rimasta lettera morta e gli editori non hanno guadagnato nulla. Successivamente, poi, qualcuno si è reso conto che la norma poteva essere aggirata aggregando notizie fornite da soggetti stabiliti fuori dall’Unione europea (nel caso spagnolo, siti sudamericani) e, quindi, non si ricorre più alle testate note, ma a siti misconosciuti terzi.
Nell’epoca della post-informazione, difficile aspettarsi che il pubblico abbia la capacità critica di stimare l’attendibilità delle fonti, con buona pace di coloro che sostengono che la direttiva migliorerebbe la qualità dell’informazione (evidentemente dimenticando che i diritti di cui all’art. 15 sono riconosciuti agli editori a prescindere dai contenuti e finanche per le fake news).
Cosa accadrà se, a seguito del recepimento, Google deciderà di chiudere il proprio servizio di news? La situazione – sia fatta passare la banalità – ricorda quella del bambino col pallone, che decide di tornare a casa, lasciando i propri compagni senza la possibilità di continuare la partita.
Eppure una strada diversa era percorribile: perché non imporre ai gestori delle piattaforme e agli aggregatori di condividere, in forma anonimizzata, i dati sulle utilizzazioni? Siamo sicuri, in assenza di studi empirici sul punto, che i diritti riconosciuti dalla direttiva valgano economicamente più della conoscenza del pubblico di riferimento (per meglio chiarirci: le informazioni su chi condivide gli articoli sui social network; quali articoli sono maggiormente condivisi; età, sesso, posizione sociale, luogo di residenza e così via degli utenti)?
Perché non pensare alle opportunità dei big data e continuare a rimestare nello stagno povero del diritto d’autore?
5.Riflessioni analoghe valgono per l’art. 17, che impone ai prestatori di servizi di condivisione di contenuti online di stipulare accordi di licenza con i titolari dei diritti e di rimuovere i contenuti protetti una volta ricevuta una segnalazione. La norma non trova applicazione ai soggetti che abbiano un fatturato inferiore ai dieci milioni di euro, che siano attivi da meno di tre anni e che abbiano un numero medio di visitatori unici inferiori a cinque milioni.
Il principale destinatario di questa novità legislativa è chiaramente YouTube. Tuttavia, l’art. 17, sebbene elevi gli standard di diligenza del gestore della piattaforma, rischia di tradursi in un vantaggio per il colosso di Mountain View: quale società, di fronte al rischio di vedersi applicati obblighi con un impatto economico estremamente oneroso, deciderà di scalare il mercato in questione? In estrema sintesi, la direttiva sembra porre le condizioni per rinforzare il (quasi) monopolio di YouTube e per limitare fortemente l’ingresso nel mercato di nuovi operatori.
Il secondo macro-effetto è rappresentato dal fatto che la norma sancisce il ruolo di editore di YouTube che, nel prossimo futuro, potrebbe limitare fortemente la pubblicazione di video innovativi – si pensi ai mash-up – che si muovono nell’affollata zona d’ombra dove convivono utilizzazioni legittime e violazioni del diritto d’autore.
Se, poi, si volesse scendere nel tecnicismo giuridico, sarebbero molte altre le riflessioni da portare all’attenzione dei lettori, tra cui la scarsa precisione lessicale, cui spesso ricorre la direttiva, e da cui potrebbero discendere forti dubbi applicativi. Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla definizione di prestatore di servizi di condivisione di contenuti online, qualificato come il soggetto “il cui scopo principale o uno dei principali scopi è quello di memorizzare e dare accesso al pubblico a grandi quantità di opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti”. Come individuare univocamente il discrimen tra chi diffonde “grandi quantità” di opere e chi, invece, non raggiunge tale quantità, prerequisito necessario per l’applicazione della norma?
Cosa dire, poi, dell’art. 15, che prevede che i diritti non siano dovuti agli editori in caso di utilizzo “di estratti molto brevi di pubblicazioni di carattere giornalistico”? Esiste un’unità di misura per calcolare questa brevità?
Probabilmente, anziché ingaggiare, da entrambe le fazioni, una lotta fondata su tesi inconciliabili, sarebbe stato più produttivo, nell’interesse di tutti, provare a ragionare sui lati oscuri della luna e migliorare la formulazione normativa, per evitare di ingenerare situazioni che, a una prima lettura, appaiono potenzialmente inutili per una parte e pericolose per l’altra.