L’immunità giurisdizionale delle organizzazioni internazionali alla luce della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso “Jam et al. v. International Finance Corporation”
Il 27 febbraio di quest’anno la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha emanato un’importante sentenza in merito all’immunità giurisdizionale delle organizzazioni internazionali, ponendo forse la parola fine ad un’annosa questione per la giurisprudenza statunitense.
Il quesito rimesso alla Corte riguardava l’interpretazione dell’International Organizations Immunities Act (IOIA) del 1945 e, in particolare, se l’immunità giurisdizionale conferita alle organizzazioni internazionali fosse da intendersi assoluta oppure ristretta, come quella prevista per gli Stati stranieri dal Foreign Sovereign Immunities Act (FSIA) del 1976.
I ricorrenti erano un gruppo di pescatori e contadini indiani, i quali avevano citato in giudizio presso la Corte Distrettuale di Washington l’International Finance Corporation (IFC), un’agenzia finanziaria internazionale, con sede proprio a Washington, avente lo scopo di promuovere la crescita dell’industria privata nei paesi in via di sviluppo attraverso l’erogazione di prestiti.
Nel 2008 l’IFC aveva concesso alla Coastal Gujarat Power Limited (CGPL) un prestito di 450 milioni di dollari per la realizzazione della centrale a carbone Tata Mundra nello stato del Gujarat, in India.
È opportuno evidenziare che lo statuto dell’IFC subordina la concessione di prestiti al rispetto di determinati standard ambientali e sociali e assegna all’organizzazione l’autorità di supervisionare l’ottemperanza a tali standard da parte dei clienti.
Alla luce di ciò, anche nel caso in questione i termini dell’accordo prevedevano che la CGPL rispettasse un piano di azione ambientale e sociale tale da evitare danni alle aree circostanti l’impianto e che l’IFC potesse revocare il prestito in caso di inadempimento.
Tuttavia, la CGPL non ha rispettato i criteri previsti, causando gravi danni all’ecosistema e alla popolazione locale, mentre, dal canto suo, l’IFC non ha eseguito un’adeguata attività di controllo e supervisione, come rinvenuto dallo stesso Compliance Advisor Ombudsman, l’organismo di ricorso interno dell’agenzia.
Per questo motivo, una rappresentanza di pescatori e contadini della zona, assistiti dalla ONG EarthRights, ha deciso di ricorrere al Tribunale di Washington, dove ha sede l’IFC, chiedendo un risarcimento per i danni causati dalla condotta negligente e dalle violazioni contrattuali da parte dell’organizzazione.
Il ricorso, però, è stato respinto sia dalla Corte Distrettuale che dalla Corte di Appello del District of Columbia perché è stata riconosciuta all’IFC l’immunità giurisdizionale assoluta, in quanto organizzazione internazionale, sulla base dell’IOIA.
In realtà il testo dell’IOIA (U.S. Code, Title 22, § 228a) non indica espressamente un’immunità assoluta ma si limita ad affermare che le organizzazioni internazionali “shall enjoy the same immunity from suit and every form of judicial process as is enjoyed by foreign governments”, cioè godono della stessa immunità di cui godono gli Stati stranieri secondo la legge statunitense.
È qui che è intervenuta la Corte Suprema, innovando rispetto al passato e interpretando il regime delle immunità in senso dinamico piuttosto che in quello statico.
Nell’ottica della Corte, infatti, la norma collega direttamente l’immunità delle organizzazioni internazionali a quella concessa agli Stati stranieri cosicché, al mutare della seconda, muta inevitabilmente anche la prima.
Effettivamente, all’epoca in cui fu emanato l’IOIA vigeva ancora la teoria dell’immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile, secondo il principio del “par in parem non habet iudicium”.
Soltanto a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, infatti, iniziò ad a diffondersi universalmente la teoria della cosiddetta immunità ristretta o relativa, sviluppatasi sulla spinta della giurisprudenza italiana e di quella belga.
Secondo tale teoria, oggi corrispondente al diritto internazionale consuetudinario, gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile solo per quanto riguarda gli atti iure imperii, ossia gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni pubbliche dello Stato, e non per quanto concerne invece gli atti iure gestionis o iure privatorum, cioè gli atti compiuti in regime di diritto privato (come appunto l’emissione di prestiti obbligazionari).
Nel 1952 il Dipartimento di Stato americano cominciò ad aderire alla teoria dell’immunità ristretta ed essa fu ufficialmente codificata nel 1976 tramite l’emanazione del FSIA.
Tale atto prevede determinate eccezioni in cui gli Stati stranieri possono essere soggetti alla giurisdizione delle Corti americane; tra queste vi è senz’altro la circostanza che la causa riguardi un’attività commerciale che abbia una stretta connessione con gli Stati Uniti, o perché ivi realizzata o perché ivi ne produca effetti [U.S. Code, Title 28, § 1605(a)(2)].
La Corte Suprema statunitense, nella sentenza in commento, ha affermato che l’immunità ristretta sia applicabile anche alle organizzazioni internazionali, ribaltando le decisioni della Corte Distrettuale e della Corte di Appello di Washington, che avevano invece proclamato l’immunità assoluta delle organizzazioni internazionali sulla base del fatto che quella fosse la regola vigente al momento dell’emanazione dell’IOIA.
In particolare, secondo l’opinione della Corte, se l’IOIA avesse voluto attribuire alle organizzazioni internazionali un’immunità assoluta perpetua l’avrebbe espressamente indicato nel testo. Al contrario, nel concedere alle organizzazioni internazionali la stessa immunità di cui godono gli Stati stranieri, il legislatore ha stabilito che le due immunità procedano di pari passo e siano quindi continuamente equivalenti tra di loro.
Tale assunto troverebbe conferma nella lettura di altre norme statunitensi che presentano la medesima formula “same…as” e che secondo l’interpretazione consolidata stanno a indicare una parità di trattamento continua nel tempo.
Tra i vari criteri interpretativi utilizzati dal supremo organo giurisdizionale americano, infatti, vi è anche il criterio di interpretazione letterale, in base al quale, in mancanza di una espressa intenzione legislativa contraria, “the legislative purpose is espressed by the ordinary meaning of the words used” (American Tobacco Co. v. Patterson, 456 U.S. 63, 1982).
Nella sentenza in esame, la Corte ha avallato la tesi del regime dinamico delle immunità, applicando, oltre al criterio letterale, uno specifico canone di interpretazione, il cosiddetto “reference canon”, mediante il quale, quando una legge fa riferimento a una disciplina generale, essa adotta il diritto “on that subject as it exists whenever a question under the statute arises”.
A contrario, soltanto un riferimento esplicito a una specifica previsione normativa permetterebbe a una legge di rimanere cristallizzata nel diritto vigente al momento della sua emanazione, senza che eventuali emendamenti della normativa di riferimento vadano a modificarla.
Il rinvio contenuto nell’IOIA è un rinvio generale ad un principio di diritto potenzialmente in evoluzione, il principio dell’immunità degli Stati esteri, e non ad una specifica previsione normativa. Per questo motivo la Corte Suprema ha affermato che l’immunità delle organizzazioni internazionali sia da interpretare come strettamente collegata a quella degli Stati stranieri, cosicché “one develops in tandem with other”.
Pertanto, essa ha stabilito che l’IOIA concede alle organizzazioni internazionali la stessa immunità giurisdizionale prevista per gli Stati stranieri “at any given time”, in qualsiasi momento. Ne consegue, quindi, che secondo la Corte, al giorno d’oggi, nel diritto statunitense, l’immunità delle organizzazioni internazionali sia regolata dal FSIA con le medesime eccezioni previste per gli Stati esteri e che pertanto l’IFC possa essere sottoposta a giudizio.
In ogni caso, la Corte Suprema ha assicurato che tale decisione non avrà come conseguenza un ricorso smodato alla giurisdizione interna per questioni riguardanti le organizzazioni internazionali, neanche in casi in cui siano coinvolte le banche internazionali di sviluppo che, per il loro operato prevalentemente commerciale, sarebbero sicuramente le più esposte.
In primo luogo, la Corte ha affermato che i privilegi e le immunità attribuite dall’IOIA sono soltanto regole di default, il che significa che ogni organizzazione internazionale può in ogni caso stabilire un diverso regime di immunità nel proprio statuto ed essere così esente dalla giurisdizione.
In secondo luogo, non è detto che le operazioni di prestito delle banche internazionali di sviluppo corrispondano sempre ad attività di tipo commerciale secondo il FSIA. Infatti, il carattere commerciale di un’attività deve essere determinato con riferimento alla sua natura piuttosto che al suo scopo e, pertanto, una transazione (di uno Stato/organizzazione internazionale) può essere considerata di tipo commerciale soltanto nella misura in cui si tratti di attività che anche un privato avrebbe potuto porre in essere (si veda a tal proposito il precedente della sentenza Republic of Argentina v. Weltover, Inc., 504 U.S. 607 del 1992) .
Da ultimo, anche ammesso che le attività di tali enti siano da considerarsi commerciali, ciò non implica automaticamente che l’organizzazione possa essere soggetta a giudizio. Il FSIA, infatti, prevede la giurisdizione delle corti statunitensi soltanto al verificarsi di ulteriori condizioni:
1) l’attività commerciale deve avere una sufficiente connessione con gli Stati Uniti, ossia deve essere compiuta negli Stati Uniti o produrre un effetto diretto negli Stati Uniti;
2) la causa deve basarsi o sull’attività commerciale stessa o su un atto realizzato in connessione con l’attività commerciale.
Alla luce di questa accurata delimitazione, appare dubbio se la causa proposta dai ricorrenti, che trova il suo fondamento in un illecito commesso in India, possa giungere al vaglio dibattimentale della Corte d’Appello, o se piuttosto questa non provveda a rigettarla nuovamente.
Prima di concludere è opportuno soffermarsi sull’opinione dissenziente del giudice Breyer,secondo il quale, al di là delle analisi linguistiche, sarebbe più consono analizzare gli scopi sottesi all’emanazione di un atto.
In particolare, criticando la decisione adottata dalla maggioranza della Corte, Breyer ha affermato che lo scopo principale per cui era stato emanato l’IOIA consisteva nel facilitare il più possibile l’operato delle organizzazioni internazionali che erano nate negli Stati Uniti all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Pertanto, secondo Breyer le intenzioni del Congresso non sarebbero mai potute essere quelle di permettere alla norma di evolversi nel corso del tempo, quanto piuttosto che questa restasse cristallizzata al momento in cui fu emanata.
Premesso che appare ormai del tutto pacifico che le organizzazioni internazionali non godano di un’immunità assoluta in senso stretto, a meno che ciò non sia espressamente previsto, resta qualche dubbio circa l’applicabilità dell’immunità ristretta a tutte le organizzazioni internazionali e non solo alle istituzioni finanziarie internazionali (per le quali è riconosciuta spesso dai loro stessi statuti, in virtù del fatto che esse agiscono prevalentemente come operatori economici privati).
Il principio dell’immunità giurisdizionale degli Stati, nella sua attuale formulazione ristretta, è universalmente considerato come espressione del diritto internazionale consuetudinario, mentre è dibattuto se anche l’immunità delle organizzazioni internazionali lo sia, preferendo dare rilievo alla sua natura pattizia (trattati istitutivi di organizzazioni internazionali e accordi internazionali specifici).
Per le organizzazioni internazionali si preferisce parlare, piuttosto, di immunità funzionale, cioè di un’immunità che spetta all’ente in quanto necessaria per la realizzazione dei suoi scopi e delle sue funzioni (ad esempio l’articolo 105 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che “L’Organizzazione gode, nel territorio di ciascuno dei suoi Membri, dei privilegi e delle immunità necessari per il conseguimento dei suoi fini”), mentre l’immunità giurisdizionale degli Stati trova il suo fondamento nel principio di sovranità.
Pertanto, applicando quanto disposto dalla Corte Suprema e attribuendo l’immunità giurisdizionale ristretta prevista per gli Stati a tutte le organizzazioni internazionali in generale, si potrebbe correre il rischio di trattare allo stesso modo situazioni completamente diverse, essendo gli uni dotati di sovranità e le altre no (per approfondimenti cfr. https://www.ejiltalk.org/equivalence-and-translation-further-thoughts-on-io-immunities-in-jam-v-ifc/).
Fortunatamente, le delimitazioni indicate dalla Corte fanno sì che non tutte le vicende che riguardano le attività commerciali delle organizzazioni internazionali possano essere oggetto di giudizio presso le corti nazionali; perché queste possano dichiarare l’inammissibilità di un ricorso, infatti, basta che lo statuto dell’ente preveda un tipo di immunità assoluta o che le operazioni svolte non rientrino nella ristretta definizione di attività commerciale data dalla Corte.
In buona sostanza, se da una parte la sentenza Jam v. IFC ha dato una risposta definitiva a una questione molto dibattuta nelle corti statunitensi, dall’altra sarà interessante osservare come le stesse applicheranno in futuro le condizioni previste dalla Corte Suprema.