Recensione a Caterina Sganga, Propertizing European Copyright. History, Challenges and Opportunities, Elgar, 2018

Quello di Caterina Sganga è un libro che dovrebbero leggere tutti i cultori del diritto d’autore, per molteplici ragioni. Innanzitutto, è un libro che può incontrare l’interesse dei più giovani e meno esperti, perché il volume offre una panoramica analitica, rigorosa e puntuale delle radici storico-filosofiche che hanno segnato l’approccio alla regolamentazione della proprietà intellettuale nelle famiglie di common law, da un lato, e di civil law, dall’altro. Non mancano, in dottrina, riflessioni sulla dicotomia in questione; tuttavia, la prospettiva offerta dall’Autrice – ma sul punto si ritornerà a breve – risulta peculiare, giacché, partendo da dati noti, evidenzia il processo di propertization del copyright europeo.
Il termine in questione, come nota correttamente l’A. – pag. 11 – può essere declinato con due differenti accezioni: da un lato, la retorica proprietaria, che è il condensato di influenze e motivazioni economiche, politiche e filosofiche; dall’altro, il processo di qualificazione tecnico-normativo, segnato dall’art. 17, par. 2 della Carta di Nizza, laddove si cristallizza il diritto d’autore nell’alveo dei regimi proprietari.
Come si accennava, il volume prende le mosse ripercorrendo le teorie normative e le radici filosofiche che sono alla base dei modelli giuridici esaminati. È risaputo che la storia del diritto d’autore è giovane: nell’antichità, ogni atto creativo era riservato alla divinità e precluso agli umani: la teologia medievale ammoniva che scientia donum Dei est, unde vendi non potest, ma, ancor prima, in tutte le principali religioni monoteistiche troviamo chiari frammenti in tal senso, con una impressionante linea unificante, che spazia dal cristianesimo al confucianesimo, dall’ebraismo ai precetti shariatici.
L’idea del riconoscimento dello sforzo creativo, da un lato, è fortemente influenzato dalle note posizioni lockiane, che vedono nel lavoro umano lo strumento per trasformare l’idea, per mezzo della estrinsecazione di un processo di elaborazione, in lavoro e, quindi, in un bene la cui proprietà è assegnata al suo ideatore. L’evoluzione dei concetti espressi da Locke nel Secondo trattato sul Governo sono impregnati, quindi, dalla centralità dell’individuo e rispecchiano una prospettiva giusnaturalistica.
Se volessimo arrestarci alla mera terminologia, non è quindi casuale che negli ordinamenti continentali si discorra di diritto d’autore, dove, appunto, la centralità è posta sulla posizione dell’autore e sui processi creativi. La remunerazione degli autori, quindi, è per il legislatore, innanzi tutto un obbligo etico: ogni individuo vanta un diritto di proprietà sui frutti del proprio lavoro e tali diritti non rappresentano una concessione da parte dello Stato. Né può dimenticarsi che, partendo da tale assunto, i modelli tedesco e francese si indirizzeranno l’uno verso una posizione monista dei diritti d’autore e l’altro, al contrario, abbraccerà una teoria pluralista, disgiungendo nettamente diritti morali e patrimoniali.
A tal riguardo, di estremo interesse risulta, all’interno del volume, l’enfatizzazione dell’influenza delle teorie utilitaristiche anche sull’ordinamento francese, sia per mezzo del formante giurisprudenziale, dove tale ascendente si nota in alcune decisione del Conseil du Roi, sia nelle posizioni dottrinali di Cochu e Linguet, che parteggeranno per la sacralità della proprietà letteraria e dei diritti degli editori. Si comprende, per questa via, che la classificazione storica e convenzionale in famiglie di common law e di civil law, nell’ambito del diritto d’autore, sia comunque caratterizzata da sfumature spesso poco indagate in dottrina.
La ripartizione convenzionale a cui si fa cenno colloca sull’opposta sponda i sistemi giuridici di common law, che sono figli dell’utilitarismo e delle teorie elaborate da Bentham e Mill. La posizione dell’autore è concettualmente subordinata, l’assegnazione di un diritto esclusivo, nel contesto anglosassone, risponde all’idea, ben sintetizzata dalla section 8 dell’art. 1 della Costituzione americana del 1787, dove si afferma che: «Il Congresso avrà il potere […] di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, assicurando per periodi limitati di tempo agli autori ed agli inventori il diritto esclusivo sui loro scritti e scoperte».
Non è casuale il riferimento all’utilità, già richiamato nello Statute of Ann del 1710: il copyright muove da una differente consapevolezza, secondo cui il riconoscimento di specifici diritti mira, innanzi tutto, a promuovere la creazione e la diffusione di conoscenza, nell’ottica del perseguimento di un’utilità sociale, prima ancora che individuale.
Si tratta, ancora una volta, di ricostruzioni forse note, benché illustrate con ottimo rigore e metodo. Tuttavia, l’ottica dell’A. non si ferma alla notazione storica e si spinge oltre le radici, evidenziando, correttamente, che troppo spesso si tenda a dimenticare l’influenza degli economisti neoclassici sul diritto comunitario, la cui produzione normativa – anche negli esempi più recenti – risulta concentrata prioritariamente sulle logiche di mercato e sull’incentivazione dell’industria creativa.
Nel secondo capitolo, che possiamo sempre ricondurre alla prima parte del volume, quella maggiormente concentrata sui fondamenti storici, si ricorda l’importanza avuta dalla stampa, che, rendendo seriale il processo di produzione delle opere, ha inciso profondamente nella nascita di un nuovo mercato commerciale. Mercato che, tuttavia, si creerà a partire dalla rivoluzione industriale, dove le modifiche sociali, urbanistiche e finanche antropologiche disegneranno l’affermarsi della borghesia, la classe sociale che concorrerà alla diffusione della cultura e delle logiche commerciali ad essa sottostanti.
Il libro entra, per dir così, nel vivo, a partire dal terzo capitolo, dove l’A., dopo aver illustrato le premesse storico-filosofiche, entra nel vivo del diritto comunitario, che sarebbe espressione di un modello autonomo, misto e orientato al mercato.
Tuttavia, sin dalle prime pagine, si avvisa il lettore che quello comunitario sarebbe un modello – sia fatta passare l’espressione – confuso, nel senso che alcune scelte normative sarebbero il frutto degli interessi del momento più che di classificazioni dogmatiche, da cui discenderebbero letture sistematiche. Del resto, se ci si sposta sul piano operazionale, l’estremo attivismo della Corte di Giustizia è spesso disarticolato, mirando più alla iper-protezione del mercato che alla costruzione di un modello delineato e indirizzato agli interessi degli autori.
Tuttavia, l’A. non si ferma ad una critica destruens del modello comunitario, ma, con un apprezzabile e proficuo sforzo ricostruttivo, esamina come il paradigma della propertarizzazione sia il frutto ultimo di tappe storiche, ripartite in tre distinte stagioni. La prima, che l’A. denomina, la fase verticale, che avrebbe segnato il periodo dal 1988 al 2001; la seconda, la fase orizzontale, dal 2001 al 2008; e la terza, la fase multilivello, che staremmo vivendo.
La fase verticale parte dalla pubblicazione del Green Paper Copyright and the Challenge of Technology, dedicato, com’è noto, alle problematiche associate all’avvento delle nuove tecnologie e focalizzata sulla promozione del mercato interno, della competitività delle industrie europee. L’approccio utilitaristico traspare, senza veli: basti ricordare – come l’A. fa osservare – che l’originalità è qualificata come “the exercise of sufficient skill and labour”, nel solco della tradizione angloamericana.
Sul piano legislativo, non possono non essere ricordate le due direttive su software e database, rispettivamente del 1991 e del 1996, pensate per tutelare gli interessi dei produttori e gli investimenti resi. L’ossequio, che appare quasi formale, ai modelli continentali lo si rinviene, allora, nella definizione di originalità, intesa quale creazione intellettuale dell’autore.
La seconda stagione, quella orizzontale, è segnata da un aumento della produzione legislativa, che si manifesta, in particolare, nelle direttive InfoSoc e IPRED. Apparentemente, si avverte un’adesione di queste normative alle posizioni utilitaristiche; in tale senso, come nota l’A., sembrerebbe deporre il Considerando 10 della direttiva InfoSoc, laddove si afferma che “Per continuare la loro attività creativa e artistica, gli autori e gli interpreti o esecutori debbono ricevere un adeguato compenso per l’utilizzo delle loro opere, come pure i produttori per poter finanziare tale creazione. L’eterogeneità delle influenze, e quindi la mancata opzione verso un modello specifico, si nota però nei Considerando 9 e 10 delle due direttive, che, pedissequamente, richiamano il concetto di alto livello di protezione.
Mentre la seconda fase ha indirizzato i propri sforzi verso un’opera di armonizzazione del diritto d’autore, la terza è caratterizzata dal ritorno ad un approccio– per utilizzare l’espressione dell’A. – patchwork, evidenziato nella riduzione della produzione legislativa e dalla diffusione di documenti preparatori e consultivi, sprovvisti di finalità sistematiche e mossi più dall’esigenza di dare risposta a problemi contingenti.
È il caso, ad esempio, della direttiva sulle opere orfane. Probabilmente, però, l’approccio “a macchia di leopardo” è evidente nella direttiva in attesa di approvazione definitiva, che abbraccia aspetti distanti e disomogenei.
Una direttiva, peraltro, schiacciata dagli interessi del mercato e dalla contrapposizione tra la tradizionale industria culturale e creativa e i nuovi operatori, nati dall’avvento di internet: non a caso, il dibattito dottrinale, trasferitosi anche sul piano mediatico, è stato catalizzato dagli artt. 11 e 13, dedicati rispettivamente all’indennizzo a favore delle imprese editoriali, in caso di utilizzo di parte degli articoli – i cc.dd. snippet –, e del regime di responsabilità delle piattaforme che, a dispetto delle affermazioni contenute nella direttiva stessa, potrebbe ribaltare il criterio di imputazione che aveva segnato le scelte adottate nella direttiva sul commercio elettronico. Poco si è scritto e si è detto, invece, di altri temi.
Il volume, a questo punto, si concentra sulla laconica formulazione del secondo paragrafo dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che si limita a sancire che “La proprietà intellettuale è protetta”. Un’affermazione apodittica o, a voler essere più severi, priva di qualsivoglia tecnicismo che possa indirizzare l’analisi degli interpreti.
Pur nella sua vaghezza, però, tale affermazione ha determinato l’affermarsi di una retorica proprietaria, causando uno sbilanciamento del tradizionale rapporto tra interessi degli autori e necessità di diffusione della conoscenza.
L’A., quindi, prova a riempire di contenuto tale affermazione, analizzando i modelli costituzionali di proprietà di alcuni ordinamenti europei – Francia, Germania e Italia – e valutando l’impatto delle distorsioni determinate da una impostazione del diritto d’autore sganciata dalla tutela di posizioni che non ricadano negli interessi di natura proprietaria.
Un ruolo centrale, nell’interpretazione proposta dall’A., riveste il concetto di utilità sociale il cui impatto – attraverso un percorso che appare molto stimolante e tutt’altro che teorico – è analizzato su alcuni pilastri della normativa del diritto d’autore, quali l’autorialità, il novero delle opere protette, i diritti di utilizzazione economica, le eccezioni al diritto d’autore.
In definitiva, non si può che concludere così come si era iniziati: il volume di Caterina Sganga merita di essere preso in considerazione, da parte di tutti gli studiosi della proprietà intellettuale. È un volume rigoroso, che, attraverso l’indagine comparatistica, si staglia in un panorama dottrinario che, nel settore del diritto d’autore, troppo spesso si rifugia in lavori compilativi, schiacciati sulle posizioni della Corte di Giustizia, utili forse per gli operatori pratici del diritto, ma che poco aggiungono alla comprensione e alla sistematizzazione del diritto d’autore europeo.