La prima vittoria giudiziaria italiana dei riders: tra «le vette alpine» del diritto costituzionale e una lotta per lo status tra subordinazione e autonomia
La recente sentenza n. 26/2019 della Corte di Appello di Torino (sezione lavoro), di cui da pochissimi giorni sono state pubblicate le motivazioni, rappresenta la prima grande vittoria nel contesto italiano dei riders nei confronti di questo nuovo mondo della gig economy. Rievocando la storia del Mugnaio di Potsdam, forse un po’ troppo abusata dai giuristi a dir il vero, si potrebbe dire che – anche in questo spazio di mondo dominato ormai dal paradigma dell’uberizzazione del lavoro (A. Perulli, Lavoro e tecnica ai tempi di Uber, in RGL n.2/2017) – esiste un giudice a Berlino.
I giudici di appello hanno, infatti, in riforma dalla decisione di primo grado, riconosciuto ai riders torinesi di Foodora l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 2 del d.lgs. 81/2015 (inserito nel filone definito Jobs Act), qualificando la prestazione come un «rapporto di collaborazione» esclusivamente personale, continuativo e organizzato dal committente «anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro», e le conseguenti protezioni della disciplina del lavoro subordinato.
Si può parlare, a questo proposito, di un riconoscimento di status dei riders che entrano così – seppur da una porta secondaria – nell’alveo delle tutele del diritto del lavoro, da sempre al contrario costruite attorno alla gelosa antropologia giuridica del lavoratore subordinato. Un passaggio dunque che si potrebbe definire epocale in opposizione alla sentenza di primo grado del Tribunale di Torino (Trib. Torino sez. lav. n.778, 7 maggio 2018) che aveva escluso l’elemento dell’etero-organizzazione, o meglio, aveva considerato la stessa disciplina dell’art. 2 d.lgs. 81/2015, una mera norma “apparente”, con un contenuto normativo più ristretto dello stesso art. 2094 cc. Un’interpretazione questa in linea con l’altro precedente italiano del caso Glovo (Trib. Milano sez. lav. n. 1853, 10 settembre 2018) ma che aveva destato forti perplessità nella dottrina giuslavorista. Questo non per la semplice negazione della qualificazione dei riders come lavoratori subordinati (su cui il dibattito in dottrina è molto accesso ancora oggi) ma per l’interpretazione che veniva data dal giudice dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 in contrasto sia con la ratio dell’intervento normativo (da rinvenirsi secondo la Corte d’Appello di Torino nella garanzia di «una maggiore tutela alle nuove fattispecie del lavoro, che a seguito della evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando»), sia per la perentorietà di un’interpretazione che avrebbe necessitato, quantomeno, di una motivazione ben più approfondita, se non proprio la costruzione di vere e proprie pandette a sostegno. Infatti come sostenuto dai giudici in appello «ritenere che una norma di legge non abbia un contenuto precettivo (come pur affermato da autorevole dottrina, tra cui spicca la difesa dell’appellata) è una valutazione […] preclusa ad un organo giudicante, il quale è tenuto ad applicare le leggi dello Stato in vigore, anche se si tratta di una norma di non facile interpretazione stante il confine sottile tra il dettato della stessa e il disposto dell’articolo 2094 cc».
Epocale si diceva per l’appunto perché segna un precedente importante nel discorso giuridico contemporaneo attorno ai nuovi problemi qualificatori posti da questo nuovo fenomeno dell’uberizzazione del lavoro. Ma, allo stesso tempo, solo un primo atto di una pièce che durerà ancora a lungo e che inciderà significativamente nel nostro tissu costituzionale.
I piani su cui si svolge questa che potremmo chiamare lotta per lo status dei riders sono diversi infatti, o meglio si potrebbe parlare di differenti dimensioni, non chiuse sicuramente nel solo contesto nazionale e/o sul solo piano del riconoscimento giurisdizionale.
Un primo piano è sicuramente quello comparato, essendo il fenomeno dei gig workers un fenomeno globale che ha già dato diverse risposte giudiziali, sostanzialmente di segno opposto, da parte di corti di paesi sia di civil law che di common law (M. Biasi, Uno sguardo oltre confine: i “nuovi lavori” della gig economy. Potenzialità e limiti della comparazione, in LLI n.4/2018). Una pronuncia, però, che sicuramente merita di essere menzionata in questo contesto è quella del Tribunale del lavoro londinese (London Employment Tribunal 28 ottobre 2016, Aslam & Farrar V. Uber B.V., poi confermata anche in fase di appello) che ha riconosciuto agli autisti di Uber lo status di workers (una categoria che non corrisponde sicuramente alla nostra nozione continentale di subordinazione, essendo piuttosto una categoria intermedia tra employee e independent contractor) perché ha sicuramente rotto la breccia e ha posto le condizioni nel panorama europeo per un dibattito sociétal sulla qualificazione giuridica dei gig workers.
Un secondo piano da dover evidenziare riguarda, invece, fenomeni di nuove forme di sindacalismo che si sono sviluppare in questo nuovo contesto nostrano della gig economy a tutela delle condizioni contrattuali di lavoro dei riders. Esempi come Riders Union Bologna, Delivrance Project Torino o Delivrance Milano rappresentano, infatti, forme di nuovo associazionismo sindacale, definito in dottrina «sindacalismo sociale metropolitano» (F. Martelloni, Individuale e collettivo: quando i diritti dei lavoratori corrono su due ruote, in LLI, n.1/2018) – con un rapporto ancora tutto da definire con gli antichi sindacati confederali – che hanno già ottenuto un’importante risposta nel panorama municipale italiano: la firma della Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano. Una Carta, firmata dai sindacati confederali, da due associazioni datoriali del settore ma soprattutto da un ente pubblico come il Comune di Bologna, che in gergo tecnico è definita «accordo territoriale trilaterale a livello municipale», che si caratterizza per l’obiettivo di fissare standard minimi di tutela di questi lavoratori, a prescindere dalla qualificazione giuridica del loro rapporto, e per l’aspirazione forse un po’ naive (ma chissà?) a fungere da modello-guida per futuri interventi legislativi nazionali o europei, visto l’alto valore simbolico del richiamo al filone delle dichiarazioni dei diritti. Anche questa è sicuramente un’altra dimensione di questa lotta per lo status che non passa per le aule dei tribunali ma attraverso l’esercizio di nuove forme di autonomia collettiva, ovvero di diritti collettivi costituzionalmente garantiti (tra cui il diritto di sciopero risulta un’arma non spuntata ancora del tutto).
Un terzo piano da segnalare riguarda i rapporti tra il governo nazionale, le associazioni sindacali dei riders e le associazioni datoriali. Anche qui si dimostra l’impatto che questo nuovo modello della gig economy e questa nuova lotta per lo status hanno assunto in Italia e non solo, accreditandosi come questione sul tavolo del governo che necessita di interventi prioritari. Un percorso ancora in itinere – su cui si farà esercizio di epochè – che è passato da un’iniziale fase in cui sembrava volersi inserire ex auctoritate la riconduzione dei riders al tipo del lavoro subordinato nel Decreto Dignità (ed un successivo e inaspettato passo indietro del governo) fino ad arrivare ad una proposta di “accordo collettivo”, proposta dal ministro Di Maio alle parti e ancora in discussione, per i “rapporti di lavoro non subordinato” che contiene il riconoscimento solo di alcuni diritti ai riders (paga minima oraria, divieto di pagamento a cottimo, massimo di consegne, etc.) ma non la subordinazione, punto centrale delle rivendicazioni degli stessi.
Questa pronuncia, come si è provato ad evidenziare dunque, non è una semplice monade prodotta dal discorso giuridico ma si inserisce all’interno di un più complesso mosaico giuridico-politico – nazionale e internazionale, giudiziale e collettivo – di lotta per lo status dei gig workers che ha assunto sempre più una connotazione multidimensionale. Varie questioni, dunque, orbitano attorno a questa decisione e si è provato, in questa sede, quantomeno a “configurarle”, seppur non in maniera approfondita. Ma una considerazione, in particolare, si può tirare in chiusura e che è di centrale importanza, sia per il diritto del lavoro sia per il diritto costituzionale: il continuo stress test che il nuovo modello produttivo-economico – che qui identifichiamo sbrigativamente come gig economy – esercita sui confini tra lavoro autonomo e lavoro subordinato; ma più in generale, citando D’Antona, sul lavoro sans phrase.
Non che il diritto del lavoro non fosse già da tempo costretto ad un suo ripensamento, alla ricerca di un nuovo paradigma in seguito all’avvento di fenomeni come il post-fordismo e la globalizzazione, che avevano e hanno comportato una destrutturazione della vecchia costruzione dell’homme de travail – prima costruito a immagine e somiglianza dell’uomo della fabbrica – come più volte Romagnoli ci ha ricordato. Forse la gig economy si inserisce nel filone post-fordista, o forse è semplicemente un ulteriore salto qualitativo, questo ai nostri fini non è importante; ma un dato è certo: quelle categorie di subordinazione e autonomia pensate nel ‘900 sono, ora, arrivate ad un punto di rottura.
Questo nuovo stadio del capitalismo cognitivo (gig economy, crowdworking, Industria 4.0, etc.) ora più che mai, ha creato uno scarto sempre più forte tra sé e il diritto (positivo) del lavoro, che si è sempre posto la prospettiva di realizzare – secondo il proprio sistema di razionalità giuridica – due differenti finalità, tra loro concatenate: una garanzia al lavoro in quanto tale, che non è una merce ed è totalmente altro dalla merce, e la conseguente tutela di chi nel contratto di lavoro è il contraente debole (lavoratore).
E qui evidentemente non può che entrare in scena il diritto costituzionale, nel cui alveo trovano fondamento – nelle sue «vette alpine», sempre per citare Romagnoli – scolpite in alcuni articoli della Costituzione del ’48, tutte le garanzie del lavoro, sia intese in senso individuale sia collettivo ma anche perché la nuova conformazione che il lavoro prenderà non potrà che interessare l’ordinamento costituzionale tutto; e dunque la riflessione dei costituzionalisti.
Un ordinamento costituzionale, quello italiano, inteso come un ordine giuridico datosi da una determinata comunità politica e che pone al centro del suo progetto costituzionale la dimensione del lavoro, visto come veicolo di emancipazione della persona, e che da questo nuovo stadio di sviluppo del capitalismo si trova ad essere radicalmente trasformato e ad essere altro rispetto a quello che era. E si potrebbe ripartire, forse, da una rilettura degli artt. 4 e 35 per dare una “nuova” protezione costituzionale a questi “nuovi” lavori. Cambiando il lavoro insomma, cambia l’antropologia del soggetto a cui la Costituzione si rivolge, dunque. C’è bisogno quindi, ora più che mai, di un nuovo diritto costituzionale del lavoro.
Nasce un “tertium genus” tra subordinazione ed autonomia?? Una sentenza che apre nuovi scenari per il lavoro del futuro sempre più svincolato, prevedibilmente, da tali antiche definizioni