“La mia religione non me lo permette”: la Corte Suprema USA fonda il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti del matrimonio same-sex?
Lo scorso 4 giugno, nella causa Masterpiece Cakeshop, ltd. v. Colorado Civil Rights Commission [584 U.S. _ 2018], la Corte Suprema Federale degli Stati Uniti ha reso, con l’ampia maggioranza di sette giudici contro due, una pronuncia che traccia un inedito punto di intersezione tra il divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, il cui fondamento costituzionale è stato più volte ribadito dalla Corte nella sua giurisprudenza, e alcuni diritti costituzionalmente tutelati (e potenzialmente confliggenti col divieto in questione), quali la libertà religiosa (Free Exercise Clause) e la libertà di espressione (Freedom of Speech).
Le vicende concrete che hanno dato origine a questa decisione della Corte Suprema sono abbastanza articolate ed è indispensabile riassumerle brevemente. Innanzitutto, è bene ricordare che l’intera vicenda inizia nel 2012, in un momento, cioè, in cui ancora la Corte non era intervenuta sulla questione del same-sex marriage, come poi è avvenuto nel 2013 con la sentenza Windsor e soprattutto nel 2015 con la pronuncia Obergefell, che ha obbligato tutti gli Stati della Federazione non solo a riconoscere, ma anche ad istituire effettivamente questo tipo di unione; nel 2012, quindi, vi erano ancora diversi Stati che espressamente vietavano o che comunque non riconoscevano il matrimonio tra persone dello stesso sesso e, tra questi, anche il Colorado, Stato in cui si collocano i fatti relativi a questa causa.
Nel 2012, appunto, Jack Phillips, fervente cristiano, titolare del Masterpiece Cakeshop di Denver, si rifiutava di preparare una wedding cake destinata al ricevimento nuziale della coppia formata da Dave Mullins e Charlie Craig; il diniego del pasticciere era da questi motivato sulla base delle proprie profonde convinzioni religiose che ostavano alla sua “partecipazione”, seppur solo nella misura del confezionamento di una torta, a quel tipo di matrimonio, ma che peraltro non gli avrebbero impedito di fornire, anche in futuro, ai medesimi clienti prodotti dolciari diversi destinati ad altre occasioni d’uso. Craig e Mullins, ritenendosi vittime di una violazione, ad opera del pasticciere, del Colorado Anti-Discrimination Act (CADA), legge che vieta, tra l’altro, le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale nell’accesso a beni o servizi da parte dei gestori o titolari degli esercizi commerciali che li forniscono, azionavano quindi gli strumenti di tutela predisposti da tale normativa; si tratta, in effetti, di un sistema di administrative review che, pur non contornato da tutte le garanzie e le forme proprie della giurisdizionalità, assicura comunque diversi gradi di “giudizio” da parte di organi diversi. Ad ogni modo, sia la Colorado Civil Rights Commission, posta al vertice di tale sistema, sia, successivamente, la Court of Appeals del Colorado si erano pronunciate a favore dei ricorrenti, ritenendo discriminatorio il rifiuto opposto dal pasticciere Phillips ad averli come committenti; la Supreme Court del Colorado, adita dal cake designer, non aveva accettato di esaminare il caso che giungeva quindi alla Corte Suprema Federale che ha appunto ritenuto di accogliere il writ of certiorari e di decidere la controversia, la prima, nel suo genere, ad arrivare dinanzi alla massima istanza giurisdizionale degli Stati Uniti.
Diversamente da quanto avvenuto in casi analoghi a livello statale, dove le corti si sono generalmente espresse a favore delle coppie omosessuali, stigmatizzando come discriminatorio il comportamento dei fornitori “obiettori” (pasticceri, fiorai, ecc.), la Corte Suprema ha accolto e fatto proprie le ragioni del pasticciere, seppure attraverso iter argomentativi non precisamente convergenti tra i diversi giudici. La maggioranza, infatti, coagulata intorno all’opinione del giudice Kennedy (estensore di tutte le decisioni a favore dei diritti degli omosessuali, da Romer a Obergefell, passando per Lawrence e Windsor), si sfrangia poi in un articolato ventaglio di opinioni concorrenti: le prime due firmate da giudici che hanno comunque aderito alla plurality opinion (i giudici Kagan e Gorsuch, appoggiati, rispettivamente, da Breyer e Alito); la terza, a firma del Justice Thomas che non aderisce all’opinione di maggioranza e ne sottoscrive una concurring in part e concurring in the judgment, supportata dallo stesso Gorsuch. Dissentono, infine, le giudici Ginsburg e Sotomayor, che si associa al dissent elaborato dalla prima.
Come già accennato, Phillips censurava l’operato della Civil Rights Commission alla luce di due parametri costituzionali diversi, entrambi radicati nel I Emendamento: la Freedom of Speech, da un lato, e la Free Exercise Clause, relativa all’esercizio della libertà religiosa, dall’altro. Forse la maggiore peculiarità di questa sentenza risiede nel fatto che l’opinione di maggioranza del Justice Kennedy, nell’accedere alle ragioni del Masterpiece Cakeshop, rinunci ad avventurarsi sul sentiero, certamente scivoloso, della libertà di espressione e si limiti ad esaminare, neppure in maniera eccessivamente approfondita, solo il secondo profilo di censura, quindi analizzando la condotta sanzionatoria della Commissione nei confronti di Phillips solo alla luce della completa neutralità rispetto alle confessioni religiose che la Costituzione prescrive ed impone di osservare al legislatore e, più in generale, ai titolari dei poteri pubblici, al Governo federale come ai singoli Stati.
Peraltro, tanto l’opinione dissenziente del giudice Ginsburg, quanto le concurring opinion di Gorsuch e Thomas suggeriscono invece, pur con esiti diversi, una lettura della controversia maggiormente orientata in chiave di Freedom of Speech e ne approfondiscono i relativi profili.
Un posto centrale nelle argomentazioni dei giudici autori delle diverse opinion è poi occupato dall’analisi delle decisioni della Colorado Civil Rights Commission in tre diversi casi (Jack v. Gateaux, Ltd.; Jack v. Le Bakery Sensual, Inc.; Jack v. Azucar Bakery) in cui questa si era pronunciata in favore di tre pasticceri che si erano rifiutati, nei confronti del medesimo committente, di confezionare una torta apponendovi sopra immagini e messaggi (i cui dettagli sono noti e descritti nella sentenza) offensivi e denigratori nei confronti degli omosessuali e del matrimonio same-sex, in quanto considerati contrari alle proprie profonde ed intime convinzioni e palesemente discriminatori. In questi casi, specularmente, potremmo dire, alla vicenda di Phillips, emergeva, da un lato, la disponibilità dei pasticceri a fornire a quel cliente qualunque prodotto, purché privo di contenuti offensivi o discriminatori, dall’altro l’indisponibilità degli stessi a fornire quel particolare tipo di dolce a qualunque cliente, a prescindere da caratteristiche quali il suo orientamento sessuale o le sue convinzioni religiose.
È bene precisare che, tra la vicenda di Phillips e quella dei tre pasticceri incaricati invano dal medesimo cliente di confezionare una torta a tema biblico-religioso, recante contenuti offensivi per gli omosessuali, i parametri di riferimento cambiano: nel caso di Phillips, veniva in rilievo, un profilo di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale del cliente, dettata da obiezioni di carattere religioso; nel caso degli altri tre pasticceri, il cliente si riteneva oggetto di una discriminazione, basata sulla sua appartenenza ad una fede religiosa, dettata dalle convinzioni profondamente laiche (secular) dei cake designer interpellati.
È proprio sulla presunta disparità di trattamento tra questi tre casi e quello del pasticciere Phillips che si concentra l’opinione di maggioranza firmata da Kennedy; in sostanza, per la Corte, il fatto che il rifiuto dei tre pasticceri di apporre su un loro prodotto messaggi denigratori sia stato valutato dalla Commissione come scevro di intenti discriminatori, su base religiosa, nei confronti del committente, mentre l’obiezione di Phillips è stata configurata e sanzionata in quanto discriminatoria, per lo meno negli effetti se non negli intenti, in relazione all’orientamento sessuale del potenziale cliente, dimostrerebbe, da parte della Commissione stessa, un atteggiamento di prevenzione e di pregiudizio, se non proprio di disprezzo, nei confronti delle convinzioni religiose del pasticciere di Denver. Quest’ultimo aspetto risulterebbe suffragato, secondo la Corte, dai verbali di alcune riunioni della Commissione, durante le quali alcuni dei suoi componenti avevano usato, parlando di obiezioni dettate dalla religione, espressioni particolarmente veementi, al limite dell’offensivo.
Vale la pena ricordare a questo punto che, forse anche per quelle che sono le origini profonde e antiche dell’ordinamento statunitense, esso accorda alla libertà religiosa, nel senso onnicomprensivo del termine, uno status di protezione particolarmente ampio che impone di applicare alle eventuali discriminazioni su base religiosa uno strict scrutiny, quindi uno standard di giudizio particolarmente rigoroso e severo rispetto alle possibili violazioni di tale libertà ad opera del legislatore o dei pubblici poteri. Questo aspetto è stato efficacemente sottolineato dal giudice Gorsuch nel suo concurring, in cui questi ha altresì valorizzato maggiormente, rispetto all’opinione di Kennedy, il profilo della libertà di espressione; anche sotto questa angolazione, la protezione accordata dalla Costituzione federale, soprattutto nell’interpretazione che ne ha dato la Supreme Court, è la più ampia possibile: non importa quanto offensivi, scandalosi o odiosi siano i contenuti attraverso i quali tale libertà si esplica; nella stragrande maggioranza dei casi, la Freedom of Speech prevale su possibili istanze di tutela della sensibilità dell’opinione pubblica.
Non spetta al legislatore e tanto meno ai giudici, né ad un organo come la Commissione del Colorado, afferma Gorsuch, tracciare la linea di confine tra ciò che è offensivo e ciò che non lo è, tra ciò che stride con il credo religioso di un individuo e ciò che vi si può conciliare: questa valutazione, sostiene il Justice, può provenire solo dalla coscienza dell’individuo posta dinanzi alle concrete circostanze del vivere.
Il tema della Freedom of Speech diventa poi protagonista dell’opinione concorrente del giudice Thomas, che si sforza di sviscerare alcune questioni particolarmente vischiose che altrimenti avrebbero rischiato di rimanere sullo sfondo; le medesime questioni, seppure più sinteticamente trattate e ovviamente risolte in senso opposto, riaffiorano anche nel breve dissent delle giudici Ginsburg e Sotomayor. Come già accennato, al di là della condivisibilità del suo punto di approdo, l’aspetto che rende l’opinione di maggioranza di questa pronuncia alquanto claudicante e carente dal punto di vista dell’argomentazione risiede proprio nella scelta di ignorare il versante del Free Speech, che pure risulta centrale nelle difese del pasticciere. Thomas, invece, fa ruotare il proprio concurring intorno al perno della nozione di “expressive conduct”, elaborata dalla Corte in funzione, potremmo dire, estensiva della stessa Freedom of Speech; è questa nozione che consente al Justice di accedere alle tesi del Masterpiece Cakeshop e di considerare l’attività di Phillips come una vera e propria forma di espressione artistica, che pertanto non può essere fatta oggetto di limitazioni o costrizioni quanto ai messaggi da veicolare.
Nonostante la giurisprudenza della Corte Suprema in tema di “expressive conduct” mostri una casistica ampia e variegata, è opinabile, a parere di chi scrive, la tesi che una torta possa costituire una forma di esercizio della libertà di espressione e che essa possa effettivamente integrare una sorta di messaggio che, in questo caso, secondo la difesa di Phillips e secondo la lettura del giudice Thomas, equivarrebbe ad una manifestazione di approvazione e di sostegno nei confronti del matrimonio egualitario; e, anche acquisendo questa prospettiva, non appare così scontata la risposta alla domanda se il messaggio in tal modo veicolato sia da attribuirsi, nel caso di specie, al cake designer piuttosto che al committente. Quanto al confronto con gli altri tre casi verificatisi in Colorado, non sembra che sussista una contraddizione nel considerare diversamente, anche per quanto riguarda il legame tra il produttore e il prodotto, il caso di un dolce commissionato appositamente per veicolare un messaggio di odio o di discriminazione da quello di una torta nuziale, i cui dettagli peraltro non hanno mai formato oggetto di discussione tra le parti, cui, con ogni probabilità, non sarebbe stata apposta nessuna particolare scritta e nessun messaggio di valenza religiosa o politica. All’opinione del giudice Thomas deve essere in ogni caso riconosciuto il merito di aver affrontato una questione assolutamente centrale per la valutazione della controversia nel suo insieme, sulla quale gli altri giudici della Corte avrebbero altrimenti glissato per imboccare la strada, in questo caso decisamente più facile, della Free Exercise Clause.
A voler tirare le somme, si può dire che Masterpiece Cakeshop sia una sentenza che, più che risolvere problemi o sciogliere dubbi, finisce per sollevarne di nuovi. Innanzitutto, ripiegandosi sulla libertà religiosa, la Corte ha rinunciato a scrivere una pagina significativa della sua giurisprudenza, in un senso o in un altro, per quanto riguarda il divieto di discriminazioni e, in particolare, di quelle basate sull’orientamento sessuale. Mentre ad esempio per quanto riguarda il parametro razziale, la Corte è sempre stata categorica nel sottoporre le relative discriminazioni ad uno scrutinio stretto, sin dai tempi della sentenza Romer, i giudici di Washington D.C. non hanno saputo o voluto chiarire quale tipo di standard sia applicabile alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, mantenendo, da questo punto di vista, una giurisprudenza abbastanza ondivaga.
Desta perplessità poi, e lo ha rilevato il giudice Ginsburg nel suo dissent, il fatto che in questa decisione sembri riaffiorare la dicotomia tra matrimonio eterosessuale e matrimonio omosessuale che proprio la pronuncia Obergefell aveva cercato di smantellare in favore di un unico e inclusivo right to marriage.
Da ultimo, se dall’angolazione di Masterpiece Cakeshop si guarda appena un po’ più indietro a decisioni precedenti della Supreme Court affini per tematica a quest’ultima (si pensi al noto caso Hobby Lobby di qualche anno fa), ci si rende conto di come la Corte stia fronteggiando, in questi ultimi anni, la riemersione e la recrudescenza di profonde linee di tensione che, radicate nella cultura statunitense e mai completamente sopite, solcano il rapporto tra la libertà religiosa e gli altri diritti costituzionali.
Non c’è dubbio, peraltro, che i nodi che la Corte ha sollevato con questa decisione, che sembra configurare una sorta di diritto all’obiezione di coscienza rispetto al matrimonio same-sex, sono destinati, in breve tempo, a venire al pettine e la Corte sarà certamente chiamata quanto prima a delimitare i confini del divieto di discriminazioni nei rapporti interprivati, determinando il peso specifico di tale divieto anche a livello orizzontale.