Il Protocollo n. 16 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali entra finalmente in vigore
Il 30 dicembre 2014 il ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale ed il ministro della giustizia, di concerto con il ministro dell’economia e delle finanze, hanno presentato il disegno di legge n. 2801 concernente la “Ratifica ed esecuzione dei seguenti protocolli: a) Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013; b) Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013”.
Il disegno di legge, dopo essere stato approvato dalla Camera dei Deputati in data 26 settembre 2017, è passato all’esame del Senato della Repubblica (disegno di legge n. 2921) ove è stato assegnato alle commissioni riunite 2a e 3a (giustizia, affari esteri) in sede referente (3 ottobre 2017).
La conclusione dell’iter italiano rappresentava, fino a pochi giorni fa, la condizione ultima necessaria per l’entrata in vigore del Protocollo che era stato firmato da 18 Stati membri del Consiglio, 9 dei quali avevano depositato gli strumenti di ratifica: Albania, Armenia, Estonia, Finlandia, Georgia, Lituania, San Marino, Slovenia e Ucraina. La piena esecuzione del Protocollo n. 16 è infatti ancorata al decorrere di tre mesi dal deposito delle ratifiche di almeno dieci Alte Parti contraenti la Convenzione.
Tuttavia, il 12 aprile 2018 la Francia, tramite il suo ministro della Giustizia, Nicole Belloubet, ha depositato, a Copenaghen, il decimo strumento di ratifica del Protocollo n. 16. Questa è stata quindi la decima ratifica, che ha innescato l’entrata in vigore del protocollo, che si perfezionerà il 1 agosto 2018.
Il processo che ha portato all’adozione in particolare del Protocollo n. 16 è originato, anzitutto, dalla diffusa consapevolezza circa il difficile funzionamento della Corte europea dei diritti dell’uomo degli ultimi anni che, a causa della molteplicità dei ricorsi presentati, e, di conseguenza, dell’arretrato che si è andato formando, ha rischiato di determinare la paradossale violazione di uno dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione e da essa tutelati, il diritto del cittadino alla durata ragionevole del processo (art. 6, par. 1, CEDU).
La constatazione della insufficienza delle risposte fornite alle problematiche suddette, costituite dal Protocollo n. 14 e dall’introduzione di misure quali la previsione di un giudice unico con il compito di decidere i casi manifestamente inammissibili o la possibilità di dichiarare il ricorso inammissibile in assenza di un pregiudizio importante per i diritti del ricorrente o, ancora, l’aumento delle competenze attribuite ai comitati composti di soli tre giudici, e l’inefficienza del modello costituito dagli artt. 47, 48 e 49 CEDU, ha indotto il Comitato dei Ministri ad interrogarsi circa la possibilità di introdurre nuovi meccanismi.
A tal fine un gruppo di saggi, istituito mediante la nomina dei capi di Stato e di Governo dei Paesi membri del Consiglio d’Europa in occasione della riunione tenuta il 15-16 maggio 2005 a Varsavia, ha stilato, in data 15 novembre 2006, un rapporto attraverso il quale si prospettava l’introduzione di uno strumento da consegnare alle corti nazionali di ultima istanza che realizzasse e ampliasse il dialogo con la Corte di Strasburgo, riducendo il numero di ricorsi introdotti dinanzi a tale giudice.
Dopo le formali dichiarazioni rilasciate nelle Conferenze di Interlaken (febbraio 2010) e di Izmir (aprile 2011), la Conferenza di Brighton dell’aprile 2012 ha pertanto invitato il Comitato dei Ministri ad adottare un Protocollo facoltativo alla Convenzione europea entro la fine del 2013.
Il testo è stato predisposto dal Comité directeur pour les droits de l’Homme (CDDH), rimesso al Drafting Group B on the reform of the Court (GT-GDR-B)), trasmesso, insieme al rapporto esplicativo, al Comitato dei Ministri per l’adozione finale, avvenuta il 10 luglio 2013, ed infine aperto alla firma a Strasburgo il 2 ottobre 2013.
Si è giunti pertanto all’introduzione di un nuovo strumento di cooperazione tra le Corti nazionali e la Corte di Strasburgo, diretto ad istituire una giurisdizione consultiva improntata al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ex art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFEU).
Ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo “Le più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente, designate conformemente all’articolo 10, possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli”. Il successivo e richiamato art. 10 prevede invece che “Ciascuna Alta Parte contraente della Convenzione indica, al momento della firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, per mezzo di una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, quali autorità giudiziarie nomina ai fini dell’articolo 1, paragrafo 1, del presente Protocollo. Tale dichiarazione può essere modificata in qualsiasi momento nello stesso modo”.
Il Protocollo rimette pertanto alle Alte Parti contraenti l’individuazione delle “più alte giurisdizioni” nazionali che potranno richiedere il parere consultivo alla Corte europea. Nel testo in esame al Senato, si prevede, a tal fine, all’art. 3 (rubricato “Sospensione del processo”) che “La Suprema Corte di cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana possono presentare alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo richieste di parere ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del Protocollo di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), della presente legge”, e, al comma 3, che “La Corte costituzionale può provvedere con proprio regolamento sull’applicazione del Protocollo di cui al comma 1 del presente articolo, in conformità agli articoli 14, primo comma, e 22, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87”.
Il disegno di legge ha quindi sostanzialmente rimesso alla Corte costituzionale stessa la scelta in ordine alla possibilità di divenire soggetto legittimato a proporre il rinvio oggetto del Protocollo n. 16.
Il sistema delineato dal Protocollo è improntato al modello incidentale. La Corte che presenta la domanda può infatti chiedere il parere consultivo solo nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad essa e, in ogni caso, deve motivare la richiesta di parere e produrre gli elementi pertinenti inerenti al contesto giuridico e fattuale della causa pendente.
Interessanti, in tale prospettiva, le affermazioni contenute nella relazione n. III/02/2013, del 10 ottobre 2013 (“Novità legislative: Protocollo aggiuntivo n. 16 alla CEDU”), dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, secondo cui “nell’esporre il contesto giuridico e fattuale rilevante, l’autorità giudiziaria che presenta la richiesta deve chiarire quanto segue: a) l’oggetto del procedimento interno e le risultanze rilevanti dei fatti acquisiti nel corso del procedimento interno, o almeno una esposizione dei fatti rilevanti; b) le norme di legge interne rilevanti; c) le questioni della Convenzione rilevanti, in particolare i diritti e le libertà invocati; d) se rilevante, una sintesi delle osservazioni delle parti nel procedimento in questione; e) se possibile e opportuno, una relazione sulle sue considerazioni sulla questione, compresa ogni valutazione che possa aver compiuto sulla questione”.
Si è previsto inoltre un filtro all’ammissibilità dei ricorsi, che saranno valutati preventivamente da un collegio di cinque giudici della Grande Camera, fra i quali il giudice eletto per il Paese cui appartiene l’autorità giudiziaria richiedente. Se il giudice in questione è assente o non è in grado di partecipare alla riunione, sarò sostituito da una persona scelta dal Presidente della Corte nell’ambito di una lista previamente sottoposta alla Parte interessata. In ogni caso, il rigetto della domanda dovrà essere motivato.
Venendo poi alla sostanza del rinvio, i successivi artt. 4 e 5 del Protocollo prevedono che i pareri siano motivati, pubblicati e, soprattutto, non vincolanti per l’autorità giurisdizionale che li ha richiesti. In armonia con quanto stabilito dall’art. 45 della Convenzione e dall’art. 74 del Regolamento di procedura, si prevede poi che “Se il parere consultivo non esprime, in tutto o in parte, l’opinione unanime dei giudici, ciascuno dei giudici ha il diritto di allegare allo stesso la propria opinione separata”.
La non vincolatività del parere costituisce l’elemento peculiare che lo distingue dal rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea. Il Comitato ha voluto introdurre uno strumento diretto a rafforzare il dialogo tra la Corte e le autorità giudiziarie nazionali, poste pertanto in un rapporto orizzontale e di complementarietà. L’autorità richiedente ha quindi la possibilità di disattendere il parere rilasciato dalla Corte di Strasburgo ma ciò, evidentemente, non incide sulla facoltà della parte del giudizio di esercitare, successivamente alla sua conclusione e nel rispetto del principio di sussidiarietà, il proprio diritto a proporre ricorso individuale (art. 34 della Convenzione). In tal caso sembra peraltro che la Corte possa discostarsi dal suo precedente parere.
In conclusione, lo strumento delineato dal Protocollo n. 16 sembra diretto ad interpretare quelle esigenze, che oramai fanno parte della realtà giudiziaria quotidiana, relative all’equilibrio e al dialogo virtuoso tra Corti, nonché a realizzare un bilanciamento equo tra la necessità di ridurre il contenzioso Cedu e assicurare l’effettività della tutela dei diritti umani.