La Corte costituzionale e la conservazione dello status filiationis acquisito all’estero: (molte) luci e (poche) ombre, tra verità biologica e interesse del minore
Con una decisione molto attesa – la n. 272/17 – la Corte costituzionale è intervenuta sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’Appello di Milano. Il giudice rimettente, in particolare, dubitava della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui non consente al giudice – in sede di decisione sull’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio – di accogliere detta impugnazione solo ove essa sia effettivamente corrispondente all’interesse del figlio; quali parametri, venivano indicati gli artt. 2, 30, 31 e 117, comma 1 della Costituzione. La vicenda sottoposta all’esame della Corte d’appello di Milano trae origine dalla trascrizione del certificato di nascita formato all’estero, relativo alla nascita di un bambino, figlio di una coppia di cittadini italiani, i quali avevano fatto ricorso, in India, alla gestazione per altri, realizzata attraverso ovodonazione, ottenendo – ai sensi della legislazione indiana – un certificato di nascita attestante per il minore lo status di figlio di entrambi i genitori d’intenzione.
Si tratta, pertanto, di decisione relativa non alla legittimità costituzionale della gestazione per altri (rectius: del divieto di ricorrere ad essa; la stessa Corte d’Appello di Milano, pur prospettandola, aveva escluso di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004), bensì alla posizione del minore nato a seguito del ricorso a tale pratica, con particolare riguardo al suo diritto a conservare lo status di figlio del genitore d’intenzione, acquisito nello Stato di nascita in conformità alla legge del luogo: in particolare, la Corte era chiamata a chiarire se l’interesse pubblico alla corrispondenza dello status di figlio alla verità biologica (per la madre) e genetica (per il padre) – il cd. favor veritatis – possa essere bilanciato con l’interesse del minore alla conservazione dello status non corrispondente, nel caso di specie, alla verità biologica (ed in particolare, al fatto del parto).
La decisione della Corte rappresenta l’ultimo di una serie di significativi interventi che – a partire dalla seconda metà degli anni Novanta – hanno accompagnato il processo di riforma che ha investito, per effetto di interventi legislativi e di una corposa giurisprudenza di merito e legittimità, la disciplina giuridica della filiazione, culminato con il D. Lgs. n. 154/13 (che, come noto, ha introdotto nell’ordinamento il principio dell’unicità dello status di figlio, con tutta una serie di conseguenze, anche e soprattutto sul piano della disciplina delle azioni di stato). Un processo senza dubbio complesso, che ha visto il progressivo abbandono – nella costituzione dello status di figlio – della centralità del favor legitimitatis, a favore di più delicati equilibri tra il favor veritatis e la considerazione del miglior interesse del minore, declinato con riferimento alla fattispecie concretamente considerata.
Attraverso una sentenza interpretativa di rigetto, la Corte media tra i due estremi della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’automatismo legislativo e il suo mantenimento sic et simpliciter. Senza pervenire ad un giudicato di accoglimento, la Corte preferisce dunque lasciare al giudice la valutazione non solo dei termini, ma della stessa esistenza di una concorrenza – caso per caso – tra interesse del minore e favor veritatis. Pur con i limiti derivanti dall’efficacia solo inter partes del giudicato di rigetto – su tutti, il rischio che un giudice possa ritenere insussistente la concorrenza, nel caso concreto, così non tentando nemmeno il bilanciamento – si tratta di una decisione prudente, idonea ad assicurare un equilibrio tra gli interessi in gioco, curvandolo sulle concrete caratteristiche del caso. Peraltro, la ricostruzione dei termini del bilanciamento effettuata dalla Corte – ed in particolare, l’articolazione di una concezione ampia dell’identità personale del minore, atta a ricomprendervi anche il rilievo delle relazioni familiari di fatto (e di intenzione) – sembra allontanare il rischio di esclusioni a priori di una concorrenza tra favor veritatis e interesse del minore.
Assai condivisibilmente, infatti, la Corte esclude che l’“accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento” (Diritto, 4.1), pur in presenza di un “accentuato favore” dell’ordinamento per la corrispondenza tra status e “realtà della procreazione”. Tale affermazione è dedotta da una puntuale ricostruzione dell’evoluzione legislativa e della giurisprudenza che mostra come, nel nostro ordinamento, già abbia fatto ingresso da tempo un concetto di filiazione non necessariamente legato alla verità biologica o genetica ed anzi aperto alla considerazione della relazione familiare di fatto e, soprattutto, dell’intenzione e dell’assunzione di responsabilità sottesa alla costituzione del rapporto parentale. Ne consegue – afferma la Corte – che l’ordinamento già consente al giudice di valutare l’interesse del minore alla conservazione dello status, in sede di decisione ex art. 263 c.c. Tale valutazione si lega strettamente ad una declinazione per così dire aperta del concetto di identità personale del minore. Afferma infatti la Corte che la verità biologica della procreazione – sebbene costituisca una componente essenziale dell’identità personale del minore – concorre “insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto” (Diritto, 4.1.6).
In sede di bilanciamento, inoltre, il giudice dovrà valutare – precisa la Corte – se l’interesse a far valere la verità prevalga sull’interesse del minore, anche con riferimento all’eventuale rilievo pubblicistico dell’interesse alla verità medesima. Tuttavia, è proprio sull’individuazione dei termini del bilanciamento che deve essere svolto qualche rilievo critico. Ritenuto che la regola di giudizio, in questi casi, “debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso” (Diritto, 4.3), la Corte traccia alcuni caratteri del giudizio “comparativo” tra accertamento della verità e interesse del minore, individuando – quali indicatori del concorrente interesse del minore – la “durata del rapporto instauratosi col minore” e dunque la “condizione identitaria già da esso acquisita”, le modalità del concepimento e della gestazione nonché, infine, la presenza di strumenti giuridici che, in alternativa al riconoscimento (e pur instaurando un legame parentale di tipo diverso), consentano adeguata tutela al minore sotto il profilo della conservazione del rapporto con il genitore non biologico (in questo caso, con la madre di intenzione).
In disparte le considerazioni – che pure potrebbero essere svolte – sul rilievo della durata del rapporto e della sussistenza di altri strumenti giuridici per dare riconoscimento e tutela alla relazione, è in particolare il riferimento al rapporto tra valutazione dell’interesse del minore e modalità del concepimento e del parto che deve essere approfondito.
Si deve escludere, anzitutto, che la sentenza individui un vincolo biunivoco e automaticamente rilevante tra l’interesse del minore e la circostanza che questi sia venuto al mondo grazie ad una tecnica non consentita dal nostro ordinamento. In questo senso, è la Corte stessa ad escludere che – anche nei casi in cui la valutazione comparativa degli interessi sia operata direttamente dal legislatore, o viga un divieto assoluto di ricorso alla pratica procreativa in Italia (come nel caso della surrogazione di maternità) – l’interesse del minore venga automaticamente cancellato (cfr. Diritto, par. 4.2).
D’altro canto, la stessa ipotesi di un nesso tra interesse del minore alla conservazione dello status e modalità della procreazione desta notevoli perplessità: essa rischierebbe, infatti, di sovrapporre acriticamente all’interesse del minore il disfavore dell’ordinamento verso talune tecniche o pratiche di p.m.a. Come sostenuto in dottrina, invece, “nell’attuale diritto di famiglia, secondo i principi costituzionali interni ed europei ed in conformità alle regole civilistiche vigenti, l’attribuzione di stato non può essere determinata dall’esigenza di prevenire e sanzionare condotte dei genitori riprovate dall’ordinamento, ma deve invece guardare all’interesse del figlio” (così G. Ferrando, Gravidanza per altri, impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità e interesse del minore. Molti dubbi e poche certezze, in GenIUS, n. 2/2017, pp. 12 ss., p. 17).
Si tratta di questione non nuova, che la giurisprudenza di merito e legittimità ha più volte affrontato, anche in relazione alla valutazione della contrarietà all’ordine pubblico di status costituiti all’estero, dei quali si richiedeva la trascrizione in Italia, escludendo l’esistenza – e comunque la rilevanza – di simile nesso. Molto chiara, sul punto, Cass., sez. I civ., sent. n. 19599/16, secondo cui “non si può ricorrere alla nozione di ordine pubblico […] per giustificare discriminazioni nei confronti [del minore] a causa della scelta di coloro che lo hanno messo al mondo mediante una pratica di procreazione assistita non consentita in Italia […] Vi sarebbe altrimenti una violazione del principio di uguaglianza, intesa come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali” (par. 8.3). Si ricordi, inoltre, che proprio la considerazione dell’interesse del nato aveva condotto la Corte costituzionale – nella sentenza n. 162/14 – ad interpretare gli artt. 8 e 9, comma 1 della legge n. 40/2004, ritenendoli pacificamente applicabili anche a tecniche di p.m.a. praticate all’estero (pur se non consentite dalla legge italiana), ed anzi riconoscendo in tale peculiare sfera di applicazione l’originario fondamento della ratio delle disposizioni richiamate. Si tratta, peraltro, di principi affermati anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle due sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia (26.6.2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26.6.2014, ric. n. 65941/1), relative proprio ad una ipotesi di diniego di trascrivere l’atto di nascita formato all’estero a seguito di ricorso alla gestazione per altri, vietata dall’ordinamento francese. Come affermato dalla Corte, gli effetti del mancato riconoscimento in Francia dello status filiationis validamente formato all’estero non riguardano solo i genitori, che abbiano scelto di fare ricorso all’estero ad una pratica di p.m.a. non consentita dall’ordinamento francese, ma anche e soprattutto i minori, il cui diritto alla vita privata – “che implica che ognuno debba poter costruire e veder riconosciuta la propria identità personale, anche sotto il profilo dello status filiationis” – risulta pertanto violato (par. 99).
L’operazione di bilanciamento dovrà essere dunque condotta considerando la fattispecie nel suo complesso, e le più recenti evoluzioni della giurisprudenza sul punto: ciò è d’altro canto coerente con lo stesso spirito della decisione della Corte, che esclude qualunque automatismo nella prevalenza di un interesse sull’altro, auspicando una attenta valutazione comparativa da parte del giudice (cfr. ancora Diritto, par. 4.3).
Qualche brevissima considerazione deve essere svolta, infine, sulla valutazione della pratica della gestazione per altri, contenuta in un inciso del par. 4.2 del Diritto, nel quale la Corte afferma – a proposito del rapporto tra rilevanza pubblica del favor veritatis e divieto di ricorso alla surrogazione di maternità (in Italia) – che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”.
La valutazione del merito di simili affermazioni – dure, e forse poco attente alla varietà di esperienze e relazioni cui la gestazione per altri pure può dare luogo, al di là delle pure presenti e censurabili ipotesi di sfruttamento della capacità procreativa della donna (come messo in luce da una ormai cospicua pubblicistica e da importanti ricerche in ambito psicologico: v. rispettivamente S. Marchi, Mio tuo suo loro, Fandango 2017; S. Golombok, Famiglie moderne, EDRA 2016, N. Carone, In origine è il dono, il Saggiatore, 2016) – richiederebbe una più approfondita disamina, in questa sede preclusa, e relativa ad esempio, in ottica comparativa, alla pluralità di modelli di disciplina della gestazione per altri, e ai differenti livelli di tutela della libertà e della dignità dei soggetti coinvolti, ed in primo luogo della donna e del nascituro (si rinvia, sul punto, al ricco volume a cura di K. Trimmings e P. Beaumont, International surrogacy arrangements: legal regulation at the international level, Hart 2013). Merita però di essere sottolineata, nel metodo, la circostanza che la Corte interviene così in un dibattito delicato, aperto e conflittuale, quale quello sulla gestazione per altri. E lo fa con affermazioni molto nette, che vanno al di là della rilevanza del disfavore ex se desumibile dal divieto penale di ricorso alla g.p.a. di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 in sede di valutazione dell’interesse del minore alla conservazione dello status, e non sembrano tenere pienamente conto – nel quadro di una sentenza per altro verso molto attenta al riconoscimento delle relazioni familiari di fatto – non solo della pluralità di modelli ed esperienze, ma anche delle diverse e complesse posizioni emerse in dottrina sul diverso grado di incidenza della pratica proprio sulla dignità della donna e sulle relazioni fondamentali sottese alla gravidanza, al parto e alla scelta di diventare genitori (e questo, sia tra i favorevoli alla pratica, se condotta nel rispetto delle parti coinvolte – come Gattuso – sia tra i contrari – come Niccolai, pp. 50 ss., laddove sembra considerare ammissibili forme di maternità solidale tra donne, pure nel quadro di una ferma condanna della surrogazione – sia tra coloro che hanno assunto una posizione intermedia, pensosa, aperta al rilievo delle diverse esperienze, come Pezzini e, con diversi accenti, Ruggeri).