La distanza della sicurezza
Alcune osservazioni a margine del recente discorso di Emmanuel Macron alla Corte europea dei Diritti dell’uomo
Lo scorso 31 ottobre il Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, ha tenuto un lungo ed importante discorso alla presenza del Plenum della Corte europea dei Diritti dell’uomo a Strasburgo, in occasione della sua prima visita ufficiale al Consiglio d’Europa. Il discorso (reperibile qui) colpisce per la ricchezza di contenuti, oltre che per il numero di questioni affrontate, con uno stile niente affatto formale, anzi, in alcuni passaggi addirittura molto diretto e, per così dire, poco diplomatico. La prospettiva del dialogo tra le Corti, da un lato, ed il riconoscimento della funzione di controllo che i giudici di Strasburgo hanno assunto nel garantire uno standard minimo ed uniforme di tutela dei diritti umani in Europa, dall’altro, sono un dato di fatto ormai acquisito per Macron che, sotto questo punto di vista, dimostra di porsi in netta discontinuità, almeno prima facie, rispetto ai suoi predecessori nei confronti dell’attività istituzionale della Corte EDU.
Tuttavia, con uno stile che appare ormai la caratteristica peculiare della sua presidenza (su cui v. il post di Ylenia Citino), questa constatazione viene immediatamente accompagnata da un drastico ridimensionamento del ruolo della Corte di Strasburgo, in particolare rispetto alle Corti apicali transalpine che restano, per Macron, le garanti ultime dei diritti fondamentali dei cittadini francesi. Se il dialogo tra le Corti è un dato di fatto – e Macron, sul punto, auspica che finalmente la UE possa aderire alla CEDU -, tale dialogo si deve però svolgere nel rispetto della complementarietà dei ruoli dei giudici che non possono essere confusi o invertiti: “Je défends pour ma part une justice européenne, conçue comme un espace de dialogue et de complémentarité. Dialogue entre les juges européens, que je souhaite soutenu entre les Cours de Strasbourg et de Luxembourg en attendant l’adhésion de l’Union européenne à la Convention Européenne des Droits de l’Homme. Dialogue aussi entre le juge européen et le juge national. Ce qui fait la force du système de la Convention, c’est d’offrir un contrôle extérieur, donc un surcroît d’impartialité et d’objectivité sur les litiges”.
Ne consegue, secondo Macron, che la forza del sistema CEDU consiste nel fatto che non ci sia un controllo di ultima istanza della Corte di Strasburgo sulle decisioni delle Corti interne, in quanto “… les juges nationaux sont les premiers juges de la Convention Européenne des Droits de l’Homme”. La riaffermazione della propria sovranità giudiziaria, quindi, anche se con toni apparentemente diversi dal passato, viene comunque ribadita con forza dal Presidente francese, soprattutto quando proclama che “Nous n’avons donc pas remis entre les mains de la Cour notre souveraineté juridique ! Nous avons donné aux Européens une garantie supplémentaire que les Droits de l’Homme sont préservés”.
Questo passaggio appare, sotto certi aspetti, addirittura in antitesi con le stesse premesse del discorso: il Presidente, infatti, si assesta su posizioni di grande chiusura per quanto concerne il ruolo della Corte di Strasburgo nei confronti dell’ordinamento giudiziario transalpino: “La Cour n’a pas vocation à s’y substituer et à constituer un quatrième degré de juridiction ! La place primordiale des juges nationaux n’est aucunement remise en cause, et je tiens à souligner la qualité du dialogue qui existe entre la Cour et les juridictions nationales”.
Coerentemente, quindi, con questo andamento sincopato del suo ragionamento, Macron auspica che il Protocollo n. 16 entri in vigore al più presto, così che il dialogo tra Corti possa rafforzarsi con il riconoscimento del ruolo delle più alte giurisdizioni francesi, quali giudici nomofilattici del testo convenzionale, attraverso un frequente impiego degli avis consultatifs. Ma l’andamento basculante del discorso di Macron è funzionale soprattutto a porre un argine alle critiche alla nuova legge anti-terrorismo che, nel corso delle ultime settimane, è stata oggetto di un ampio dibattito in Francia, una legge con cui il Presidente della Repubblica vorrebbe finalmente chiudere la stagione dell’état d’urgence che, pur proclamato nel rispetto della CEDU, precisa Macron, non può essere considerato un état d’exception.
Ed è a questo punto che il suo discorso assume un tono netto e deciso: “La sécurité est la première mission de l’État, qui doit protéger ses citoyens et assurer la sécurité de son territoire. […] Cette sécurité, c’est la condition pour que nos libertés puissent ensuite pleinement être respectées et trouver leur cadre. La Déclaration française des Droits de l’Homme garantit la sûreté, c’est-à-dire l’assurance, pour le citoyen, que le pouvoir de l’État ne s’exercera pas sur lui de façon arbitraire et excessive. Confondre la sûreté avec la passion sécuritaire serait faire fausse route”.
In questo passaggio la Corte di Strasburgo sembra quasi smaterializzarsi davanti agli occhi di Macron: la sicurezza è il primo dovere dello Stato, è la pre-condizione dell’esercizio dei diritti e delle libertà, non della CEDU, ma della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 che proclama la sûreté come garanzia, per ogni cittadino francese, che lo Stato eserciti questo suo principale compito sovrano in maniera non arbitraria o sproporzionata.
Macron invita, quindi, a non confondere la sûreté con la passion sécuritaire che anima una parte della politica europea e francese, anche se colpisce lo slittamento semantico del linguaggio presidenziale, quando passa ad utilizzare, al posto di sécurité, il termine sûreté. A ben vedere, infatti, la Declaration del 1789 parla di sécurité quale garanzia dei diritti fondamentali del cittadino, mentre lo slittamento lessicale del discorso di Macron tradisce, in sostanza, proprio quella deriva securitaria, a parole rifiutata, ma che di fatto permea interamente la nuova legge anti-terrorismo.
E non è un caso, allora, se Macron in un passaggio successivo del suo discorso si rivolga direttamente ai giudici di Strasburgo, quasi ammonendoli a non travalicare il loro ruolo istituzionale in questa materia: “J’ai entendu […] les critiques qui ont parfois été formulées contre le projet de loi. Le commissaire aux Droits de l’Homme du Conseil de l’Europe lui-même a formulé des craintes et des doutes, également exprimés par des organisations non gouvernementales en France. […] Mais il me semble plutôt que le processus d’adoption de la loi montre combien nous avons progressé et combien la France est un État de droit”.
Macron fa qui riferimento alle dichiarazioni del Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, che si è più volte espresso criticamente su alcuni istituti della nuova legge, i quali, pensati per essere applicati nel periodo emergenziale, sono stati poi recepiti nell’ordinamento francese come strumenti ordinari per la repressione del terrorismo. In particolare, le critiche più rilevanti sono state rivolte alla possibilità per i prefetti di istituire delle vere e proprie “zone rosse d’urgenza”, sottoposte ad un controllo capillare della polizia, in occasione di eventi pubblici, culturali e sportivi, “zone rosse” all’interno delle quali la pubblica sicurezza potrà perquisire persone e veicoli senza autorizzazione della magistratura.
I prefetti, inoltre, avranno la possibilità – sempre senza l’intervento preventivo della magistratura – di chiudere i luoghi di culto, in particolare le moschee, anche fino a sei mesi di tempo, qualora gli imam o i predicatori che le frequentano esprimano idee o teorie anti-democratiche, ovvero “incitino alla violenza, all’odio o alla discriminazione, provocando degli atti di terrorismo o facendone apologia”.
Inoltre, un’altra delle critiche espresse dal Commissario del Consiglio d’Europa – e fatta propria anche da molte ONG nazionali ed internazionali – riguarda il potere che la nuova legge riconosce al Ministro dell’Interno di ordinare il domicilio coatto nei confronti di determinati soggetti, semplicemente perché sospettati di essere terroristi o simpatizzanti dell’islamismo radicale, anche quando nei confronti di queste persone non siano stati formulati capi di imputazione, ovvero formalmente aperte delle indagini da parte della magistratura.
La norma prevede, inoltre, che in questi casi, oltre al domicilio coatto sia possibile per il Ministero dell’Interno comminare la misura degli arresti domiciliari, per un periodo di tempo reiterabile fino ad un anno, senza la previa autorizzazione dei giudici competenti. Infine, la nuova legge consente ai servizi di intelligence di controllare i cellulari e le e-mail delle persone sospettate di terrorismo, al fine di “prevenire, individuare, indagare e perseguire i reati terroristici e gravi”, oltre che di accedere alle informazioni di viaggio delle stesse, comprese quelle fornite dalle agenzie di viaggio riguardanti i passeggeri delle linee aeree e marittime.
Indubbiamente, si tratta di una normativa che suscita non poche perplessità, che per l’appunto erano state manifestate già dal Commissario Muižnieks, perplessità e timori per una compressione dei diritti fondamentali che non appaiono del tutto infondate, soprattutto perché molte di queste misure, pensate per il periodo emergenziale, come detto, sono state poi recepite sic et simpliciter come ordinari strumenti di lotta contro il terrorismo, in deroga alle basilari garanzie costituzionali.
Sicuramente, memore di queste importanti e reiterate osservazioni critiche, Macron ha colto l’occasione di questo suo primo incontro ufficiale con i giudici di Strasburgo per rivendicare l’approvazione della legge, lanciando al contempo un monito agli stessi giudici sovranazionali, affinché non invadano un settore dell’ordinamento giuridico francese – quello della sicurezza e della lotta al terrorismo islamico – che per il Presidente della Repubblique resta di dominio riservato delle istituzioni transalpine.
Eppure, stando alle parole conclusive del suo discorso, Macron sembrerebbe propugnare una visione dei rapporti tra ordinamento interno e CEDU nuova, o comunque diversa rispetto al passato: “je veux être très clair, la France n’acceptera aucune critique des droits de l’homme destinée à camoufler un agenda, à promouvoir des intérêts nationaux prétendument supérieurs; elle ne se laissera pas entraîner dans des débats selon lesquels les droits de l’homme ne seraient que la traduction de «valeurs» occidentales inadaptables ailleurs dans le monde”.
Tuttavia, alla luce di quanto detto e tenendo conto del particolare momento storico e dell’attuale contesto istituzionale, questo discorso assume un significato quanto mai ambiguo. Lo stesso linguaggio utilizzato da Macron, del resto – un mélange di formule apparentemente progressiste, affiancate da frasi, tipiche di un certo gollismo d’antan, che riaffermano in maniera granitica i tradizionali valori repubblicani – sembra prospettare un nuovo periodo di tensioni tra Francia, Consiglio d’Europa e Corte EDU. Non sarebbe la prima volta che ciò accade, ma che le tensioni si manifestassero in maniera così evidente e, tra l’altro, in un incontro istituzionale e pubblico tra il Presidente della Repubblica ed i giudici della Corte di Strasburgo, è sicuramente un precedente di cui non ci si può certo rallegrare.