Il “diritto alla speranza” è l’ultimo a morire? L’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nella giurisprudenza della Grande Chambre, da Vinter and others v. United Kingdom a Hutchinson v. United Kingdom
Il 17 gennaio 2017 la Grande Chambre ha rigettato il ricorso n. 57592/08, Hutchinson v. United Kingdom, proposto da un condannato all’ergastolo, che lamentava, in relazione alla pena comminatagli, la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Pur con tre dissenting opinions, i giudici di Strasburgo dichiaravano l’insussistenza dell’inosservanza del divieto di trattamenti degradanti e inumani, ribaltando così i principi stabiliti nel caso Vinter and others v. United Kingdom (ricorso n. 66069/09).
Con la sentenza del 9 luglio 2013, la Grande Chambre aveva infatti affermato che il carcere a vita senza alcuna possibilità di rilascio (life imprisonment without parole), costituiva di per sé una violazione dell’art. 3 della Convenzione. Chiarificatrice in questo senso, era stata la concurring opinion del giudice Ann Power – Forde: “Article 3 encompasses what might be described as the right to hope […] Those who commit the most abhorrent and egregious of acts and who inflict untold sufferings upon others nevertheless retain their fundamental humanity and carry within themselves the capacity to change. Long and deserved though their prison sentences may be, they retain the right to hope that, someday, they may have atoned for the wrongs which they have committed. They ought not to be deprived entirely of such hope. To deny them the experience of hope would be to deny a fundamental aspect of their humanity and to do that would be degrading”. La Corte aveva riscontrato la violazione convenzionale perché la legge vigente nel Regno Unito non era in grado di garantire una reale opportunità di modificare le condizioni degli ergastolani. In realtà il Secretary of State aveva il potere di far rilasciare il detenuto in circostanze particolari, riferite a chi si fosse trovato in condizioni di malattia terminale o totale incapacità, come indicato nel c. d. Lifer Manual (Prison Service Order 4700 2010, 12.2.1). Secondo la Corte, questa forma di compassionate release non si poteva considerare una liberazione a tutti gli effetti. Nella sentenza, i giudici di Strasburgo non chiedevano l’immediato rilascio dei ricorrenti, ma affermavano che un sistema legale che non fosse stato in grado di offrire un’effettiva e chiara definizione delle opportunità di ritornare liberi, infrangesse il principio insito nell’art. 3 della Convenzione.
Se è vero che la decisione Vinter non si dimostrava di immediato favore per i ricorrenti, aveva tuttavia avuto riverberi in casi successivi, primo fra tutti Trabelsi v. Belgium (ricorso 140/10). La Corte aveva evidenziato l’infrazione del divieto di cui all’art.3 della Convenzione, nell’ipotesi di estradizione del ricorrente in uno Stato in cui si sarebbe probabilmente visto infliggere la pena del carcere a vita. La logica della decisione va rintracciata nel fatto che non solo il carcere a vita, ma anche il rischio di esservi sottoposti, ricade nella definizione di trattamento degradante e inumano. La sentenza Vinter ha avuto implicazioni ad un livello profondo: in questa occasione la Corte ha enfatizzato la sua adesione agli ideali di riabilitazione e reintegrazione dei criminali pericolosi. È difficile comprendere come il carcere a vita, rimuovendo irreversibilmente l’individuo dal contesto civile e condannandolo di fatto alla morte sociale, sia in grado di concorrere a determinare l’attitudine al cambiamento dell’internato. Sulla scia di questo orientamento, gli Stati venivano obbligati a introdurre programmi di reinserimento anche per i condannati all’ergastolo, in modo da rendere comunque possibile, anche se remota, l’eventualità della loro reintegrazione nella società. Si può dire che con tale decisione la Corte superava quel retaggio di derivazione contrattualistica stando al quale il carcere a vita sarebbe stato una sorta di surrogato della pena di morte.
Il 3 febbraio 2015, la Corte, decidendo su una vicenda simile a quella trattata in Vinter, Hutchinson v. United Kingdom, affermava però la non sussistenza della violazione dell’art.3 della Convenzione. I giudici si soffermavano su come la English Court of Appeal avesse sufficientemente chiarito i criteri per individuare i casi in cui può sopravvenire la liberazione ad opera del Secretary of State dei carcerati a vita. Nonostante non fosse intervenuta alcuna modifica del Lifer Manual, la Court of Appeal aveva spiegato come il Secretary of State fosse direttamente vincolato dalle decisioni dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Dopo questa sentenza, la situazione poteva però dirsi tutto fuorché chiarita: la Corte non aveva esplicitamente overruled la precedente statuizione della Grande Chambre sulla questione, ma nemmeno la aveva accolta e rimaneva l’interrogativo se il Lifer Manual potesse essere considerato “good law”.
Con la decisione della Grande Chambre del 17 gennaio 2017, relativa al caso Hutchinson, siamo di fronte ad un’interpretazione evolutiva che abbassa, anziché innalzare, il livello di protezione dei diritti dell’individuo. La Corte richiamava la decisione McLoughlin della Court of Appeal of England and Wales (2014), che aveva spiegato quale dovesse essere la legge applicabile nelle condizioni verificatesi. Grazie all’indicazione di tale parametro, a differenza di quanto avveniva nel 2013, la Corte non poteva ora riscontrare una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “The Court considers that the McLoughlin decision has dispelled the lack of clarity identified in Vinter arising out of the discrepancy within the domestic system between the applicable law and the published official policy. In addition, the Court of Appeal has brought clarification as regards the scope and grounds of the review by the Secretary of State, the manner in which it should be conducted, as well as the duty of the Secretary of State to release a whole life prisoner where continued detention can no longer be justified on legitimate penological grounds. In this way, the domestic system, based on statute (the 1997 Act and the Human Rights Act), case‑law (of the domestic courts and this Court) and published official policy (the Lifer Manual) no longer displays the contrast that the Court identified in Vinter […] The statutory obligation on national courts to take into account the Article 3 case-law as it may develop in future provides an additional important safeguard”.
Prima della sentenza Vinter, il Secretary of State poteva rivedere una condanna a vita solo in un ristretto numero di casi, ma in realtà anche dopo non si erano verificate applicazioni in senso estensivo delle condizioni determinanti la liberazione, in quanto il Lifer Manual era ancora in vigore e non aveva subito modifiche. In secondo luogo, la Court of Appeal in McLoughlin suggeriva che “The Manual cannot restrict the duty of the Secretary of State to consider all circumstances relevant to release on compassionate grounds. He cannot fetter his discretion by taking into account only the matters set on in the Lifer Manual”. Prima di questo disposto, successivo alla sentenza Vinter, la Corte Europea considerava la più risalente statuizione della Court of Appeal sul caso R. v. Bieber (2008): “At present it is the practice of the Secretary of State to use this power (to release) sparingly, in circumstances where, for instance, a prisoner is suffering from a terminal illness or is bedridden or similarly incapacitated. If, however, the position is reached where the continued imprisonment of a prisoner is held to amount to inhuman or degrading treatment, we can see no reason why, having particular regard to the requirement to comply with the Convention, the Secretary of State should not use his statutory power to release the prisoner”. Emerge come il giudice inglese fosse dell’idea che il Secretary of State potesse andare oltre quanto previsto dal Lifer Manual (anche se nella pratica non c’era stata alcuna applicazione in termini più ampi dei poteri suddetti). In terzo luogo, la Corte richiamava lo Human Rights Act del 1998 (entrato in vigore nel 2000), affermando che il Secretary of State, decidendo sul possibile rilascio dei detenuti, avrebbe dovuto riferirsi agli orientamenti giurisprudenziali della Corte. Già nel 2013, anno della sentenza Vinter, lo Human Rights Act avrebbe potuto essere tenuto in considerazione dal Secretary of State. Da ultimo, la Corte lamentava in Vinter la mancanza di chiarezza in relazione all’esistenza di un termine entro il quale potesse aversi una modificazione delle condizioni del carcere a vita, mentre in Hutchinson statuiva che ciò non era un problema, perché il detenuto poteva rivolgersi al Secretary of State in ogni momento dell’espiazione della pena comminatagli.
Nella sua dissenting opinion, il giudice Pinto de Albuquerque sottolineava come con la decisione della Grande Chambre di ritornare indietro rispetto al dictum Vinter, si stesse assistendo ad una “existential crisis” della Corte, in cui “the pre-catastrophic scenario is now aggravated by the unfortunate spill-over effect of Hirst on the Russian courts”. Il giudice faceva risalire l’origine di questa crisi all’argomentazione riguardante le “rare occasions” contenuta in R. v. Horncastle [2009] UKSC 14, [2010] 2 A.C. 373, in cui la House of Lords osservava come la Convenzione non vincolasse le Corti inglesi alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, limitandosi ad affermare che queste ultime dovessero essere prese in considerazione. Così, continua Pinto de Albuquerque, oltre a presentarsi un rischio per la tutela di uno standard uniforme di diritti umani, si presenta anche il rischio che la Corte “will end up as a non-judicial commissiono f highly qualified and politically legitimised 47 experts, which does not deliver binding judgments, at least with regard to certain Contracting Parties, but pronounces mere recommendations on “what it would be desirable” for domestic authorities to do, acting in an mere auxiliary capacity, in order to “aid” them in fulfilling their statutory and international obligations”.
Si può dire che la sentenza Hutchinson non sia un overruling, semmai una lettura di Vinter. Il right to hope rimane quindi ancora uno standard, ma è cambiato il modo in cui la Corte ne definisce i confini. Di certo la sua chiarezza ne risulta scalfita. Se ne possono dare due letture: da una parte, si potrebbe argomentare che quello che emerge dalla Grande Chambre del 17 gennaio 2017 sia un parametro applicabile al solo Regno Unito, mentre per gli altri Stati continuerebbe ad essere valido il principio stabilito in Vinter, con l’infausto risultato però di creare un “doppio binario” nella protezione dei diritti umani. D’altra parte, si potrebbe dire che Hutchinson giustifichi un più ampio margine di apprezzamento per le Parti Contraenti in questa determinata materia, causando quindi un allentamento dell’applicazione dei principi faticosamente affermatisi attraverso la giurisprudenza di Strasburgo. È comunque possibile che la Corte riveda il suo ultimo statement e ritorni sul sentiero tracciato da Vinter, qualora il Secretary of State dovesse continuare a far uso dei suoi poteri in maniera restrittiva e quindi rendendo ineffective il right to hope.