Tendenze del semipresidenzialismo francese alla luce del discorso di Macron a Versailles
L’8 gennaio 1790, nove mesi dopo il suo insediamento come Presidente, George Washington, in ottemperanza all’art. 2, sez. III della Costituzione degli Stati Uniti, indirizzava al Congresso in seduta comune il suo primo messaggio annuale. In realtà, quello che poi, grazie alla fortunata espressione di Roosevelt, sarebbe divenuto il discorso sullo stato dell’Unione, aveva radici ben più antiche, risalenti alle monarchie medioevali. Da un’epoca in cui il Sovrano convocava il Parlamento per illustrare le politiche che intendeva perseguire, la tradizione si è consolidata, poi, nel sistema anglosassone, ove il suddetto discorso, in costanza dell’assolutismo, assumeva talvolta i tratti di un avvertimento, quasi per ricordare alla riottosa assemblea dei Comuni che al Monarca, e soltanto ad esso, spettava l’ultima parola sulle decisioni relative alla vita del Paese.
Lo Speech from the Throne era usualmente proferito in maniera orale e, salvo eccezioni, dal Re in persona. Fu questa, probabilmente, la ragione che spinse Washington ad aprire la tradizione americana con un messaggio scritto e consegnato al Congresso. Un discorso declamato in persona avrebbe rischiato di rievocare i costumi di quella madrepatria da cui con tanta determinazione era stata ottenuta l’Indipendenza.
Nell’epoca attuale, la mediatizzazione e la personalizzazione della vita politica rendono sempre più impellente la ricerca di occasioni per tracciare pubblicamente un bilancio o per esteriorizzare una certa linea d’azione. La decisione del neo eletto Presidente francese, Emmanuel Macron, di parlare al cospetto delle Camere riunite a Versailles, e non all’Eliseo, fa riaffiorare in modo sottile quella consuetudine monarchica di cui Washington aveva inteso sbarazzarsi. Tuttavia, note di folclore a parte, è opportuno compiere qualche considerazione sulla sostanza del discorso, visto che, in alcuni punti, il Presidente ha annunciato di voler compiere importanti riforme. Se effettuate, come promesso, il volto politico-istituzionale della Francia potrebbe mutare profondamente.
Nel riassumere il poderoso messaggio, si segnala, in relazione al Parlamento, l’annuncio di una riforma intesa a ridurne i membri di un terzo, eleggendoli «con una dose di proporzionale» ed evitando quanto più possibile il cumulo dei mandati. L’obiettivo è disporre di un’assemblea «in cui il lavoro diventa più fluido, dove i parlamentari si possono circondare di collaboratori più preparati e più numerosi». Viene quasi da pensare ad un Parlamento amministrato come una start-up: la navette sarebbe «semplificata» per far fronte alle esigenze di urgenza che i tempi lunghi dei lavori parlamentari non riescono ad appagare; i testi di legge più importanti sarebbero sottoposti a una «valutazione d’impatto» entro due anni dalla loro entrata in vigore; quelli meno importanti potrebbero essere votati in commissione; le procedure parlamentari dovrebbero essere «adattate agli obiettivi» e l’attività complessiva sarebbe «vivificata da una rotta chiara»; quanto al Presidente della Repubblica “in Parliament”, diventerebbe fisso l’appuntamento di fronte al Congresso per un suo «rendiconto annuale».
Rispetto al potere giudiziario, poi, il Presidente proclama di voler abolire la Corte di Giustizia, non ritenendo più attuale l’esistenza di una «giurisdizione d’eccezione» riservata al giudizio sulla responsabilità ministeriale. Per potenziare la separazione tra esecutivo e giudiziario, inoltre, si intende rinforzare il ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura, limitando l’intervento dell’esecutivo nelle nomine dei magistrati del cd. parquet (la carriera dei pubblici ministeri).
Se queste riforme dovessero essere osteggiate dal Parlamento, nel quale, ad ogni modo, Macron vanta una maggioranza senza precedenti, il Presidente rivela che non esiterebbe ad appellarsi alla volontà del popolo, per mezzo di un referendum. Un popolo le cui aspirazioni verso una democrazia più partecipativa sarebbero, peraltro, assecondate dall’obiettivo di facilitare il ricorso alla petizione popolare. Siglando un patto coi cittadini, la più alta carica dello Stato aspira a ricreare, con qualche ridondanza demagogica, quel patto di fiducia su cui si fonda la sua «Repubblica contrattuale».
Rileva, infine, una nuova ed insolita configurazione del rapporto fra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio dei Ministri. È il primo, infatti, a «fissare il senso del quinquennato», a cui il secondo dovrà, successivamente, dar corpo, dirigendo l’azione del governo. L’agenda politica del nuovo Presidente della Repubblica si snoderà attraverso «obiettivi chiari», assegnati, secondo un meccanismo a cascata, al Primo ministro, e da questi ai suoi Ministri, tenuti ad un rendiconto annuale al Presidente stesso: «questo è il circolo virtuoso dell’efficacia». Anche qui i richiami ad una realtà gerarchizzata di tipo aziendale, con valutazioni “a performance”, sembrano piuttosto evidenti.
La domanda legittima che l’analisi di questo discorso può far sorgere, dunque, è la seguente: fino a che punto l’attitudine decisamente forte della presidenza Macron rientra nel fisiologico tasso di variabilità che da sempre ha caratterizzato lo svolgimento pratico della forma di governo francese? E quanto è plausibile la tesi di una virata verso una VI Repubblica, più presidenziale?
Bisogna considerare, infatti, che, come l’esperienza costituzionale italiana, anche quella francese è stata connotata da una serie di “modificazioni tacite” che, in via di prassi, consuetudine o convenzione, hanno riempito gli spazi vuoti della Costituzione, per rendere politicamente viabili e concordanti le relazioni interorganiche nell’esecutivo. La Francia, tuttavia, rispetto all’Italia, ha storicamente assistito allo scontro-incontro fra l’esigenza di razionalizzare il Parlamento e quella, opposta, di irrobustire il Presidente. Su questo si basava, infatti, il patto costituente stipulato dopo la crisi algerina nel 1958: un equilibrio camaleontico che, con un complicato meccanismo di freni reciproci, sarebbe stato capace di impedire il ripetersi dell’assemblearismo, da un lato, e del bonapartismo, dall’altro. A conferma di ciò, si rammenti l’osservazione di Pinelli (Dir. e Soc., 1981) per cui il compromesso insito nella Costituzione della V Repubblica non sarebbe, come nelle altre carte costituzionali, incentrato sui rapporti economici e sociali, bensì proprio sull’organizzazione costituzionale.
È qui che si trova il nervo scoperto dell’assetto politico-istituzionale francese: le molteplici letture dei “paletti” costituzionali hanno fatto in modo che, nel corso degli anni, la struttura diarchica dell’esecutivo si configurasse in modo sempre nuovo, sino a condurre un’illustre dottrina a formulare il concetto di “ultrapresidenzialismo”, sperimentato nei lunghi periodi di maggioranze del Presidente (Troper, Revue du droit public, 1989). La teoria della preminenza “a fasi alterne”, tuttavia, si fonda su dinamiche politiche assolutamente fattuali, mai codificate in norme organizzative.
Inoltre, rispetto alle tre scuole di pensiero cui si ispira la V Repubblica, nell’ambito della regolamentazione dei poteri fra esecutivo e legislativo, è possibile trovare almeno un punto di contatto con le tendenze manifestate nel discorso di Versailles. Non è, infatti, agli insegnamenti di Michel Debré o di Boris Mirkine-Guetzevitch che Emmanuel Macron è tributario, quanto, piuttosto, all’influsso del movimento gaullista. L’appello al popolo di Macron è volto, in modo analogo alle vicende di De Gaulle, a superare un paventato stallo fra esecutivo e legislativo, rivolgendosi ad una più onnicomprensiva assise popolare, in chiave antipartitica e antiassembleare. La vocazione referendaria, dunque, rammenta quello spirito teso a superare le divergenze procedurali e ostruzionistiche dentro le istituzioni con strumenti eccezionali, pronti ad essere “normalizzati”. Il Presidente dichiara, infatti, che non esiterà a porre alla Nazione la sua singolare questione di fiducia, nel tentativo di ingiungere, con i ritmi incalzanti e drammatici della spettacolarizzazione politica, un proprio ed autonomo indirizzo.
A prima vista, dunque, sembrerebbe essere di fronte a un prototipo nuovo: il dualismo dell’esecutivo ritradotto in chiave unipersonale, in cui il Primo Ministro, marginalizzato al ruolo di puntuale rendicontatore, vivrebbe all’ombra di un Capo di Stato, clef de voute di tutto il sistema. Lo stesso Parlamento potrebbe risultare ridimensionato dall’esito sorprendente del “fenomeno maggioritario alla francese”, visto che, nel secondo turno delle legislative, si è prodotta una maggioranza numericamente molto forte, identificata nel movimento rinnovatore del Presidente. E così potrebbe risultare confermato l’adagio “si veut le Président, si veut la loi”. La rottura già verificatasi di alcune prassi parlamentari, come quella dell’attribuzione all’opposizione di almeno due Vicepresidenze dell’Assemblea, induce a pronosticare un uso certo non indulgente delle prerogative procedurali, in nome di quell’efficacité che tanto rappresenta il vessillo ispiratore del nuovo corso politico.
Sarebbe legittimo obiettare a quanto detto sinora che, in ogni caso, la costituzione francese prevede espressamente che l’esercizio della sovranità popolare avvenga mediante la rappresentanza e anche i referendum, così che il ricorso allo strumento referendario non sarebbe poi una novità nello scenario politico-costituzionale dell’Esagono. Inoltre, in assenza di cohabitation, è del tutto normale che il Presidente della Repubblica si trovi in una condizione di netta supremazia, e sia capace di imporre al Primo Ministro i propri desiderata. Basti pensare alla prassi, non costituzionalizzata, della dimission-revocation, che ricompone il frazionamento del potere esecutivo nettamente a favore del Presidente della Repubblica e che, per di più, è stata alimentata dall’assoggettamento volontario degli stessi primi ministri (ad esempio, sotto gli anni di Giscard d’Estaing, si sviluppa la prassi della consegna di una lettera di dimissioni in bianco contestualmente all’accettazione dell’incarico).
La maggiore difficoltà, in un simile contesto, sta nel valutare l’idoneità dei vari contropoteri a sopportare, con un argine sufficientemente resistente, il contrappeso del blocco di potere promanante dal Capo dello Stato. Infatti, se il referendum ha poco valore, visto che promette di configurarsi come uno strumento di consenso (e di veto) presidenziale, neanche il potere giudiziario assicura quella sufficiente dose di imparzialità, se si considera che la presidenza del CSM francese è assegnata al Capo dello Stato, mentre la vicepresidenza spetta a Madame la Garde des Sceaux. Lo stesso Conseil constitutionnel vanta una composizione politica a pieno titolo, visto che sono membri di diritto gli ex Presidenti della Repubblica, mentre gli altri nove sono scelti, in ragione di un terzo, rispettivamente dal Capo dello Stato e dai due presidenti d’Assemblea. Quanto all’opposizione parlamentare, si è già osservato che, complici sia il sistema maggioritario a doppio turno, che l’effetto trascinatore delle presidenziali, è uscita decimata dalle elezioni. Non bisogna dimenticare, poi, il controllo finanziario della Cour des Comptes e la funzione amministrativa consultiva del Conseil d’Etat, poteri di garanzia certamente importanti, ma lungi dal poter dialogare su problematiche di ampio spettro. Resta, dunque, l’opinione pubblica, un contropotere che, se per gli epigoni di Dicey sarebbe certamente stato sufficiente a vivificare la forma di governo, nei giorni nostri ha dato tristemente prova di essere facilmente manipolabile.
Pertanto, la fortunata congiunzione astrale che ha permesso a Macron di ottenere una vasta platea di consensi, tradottisi in membri del Parlamento, persuade a ritenere che l’ipotesi di una svolta in senso presidenzialista non paia del tutto peregrina. Chissà, dunque, che l’art. 89 Const., il grimaldello della revisione costituzionale francese che, nel corso degli anni, da pouvoir partagé si è trasformato in iniziativa solo formalmente primoministeriale ma sostanzialmente presidenziale, non possa essere presto attivato per formalizzare quella transizione di cui adesso sembra potersi scorgere un bocciolo.