Il caso del Politecnico di Milano
Uno degli elementi di maggior rilievo caratterizzanti il XXI secolo è, indubbiamente, la compiuta affermazione della dimensione globale e multiculturale nel quotidiano svolgersi della vita economica, culturale e sociale di ciascuno. In particolare, oggi, qualsiasi professionista – e, ancor prima, qualsiasi studente – è costretto a confrontarsi con colleghi provenienti da altri Paesi, portatori di idee e conoscenze nuove, frutto di una visione del mondo diversa e parallela alla propria.
Il consolidarsi di una sì fitta trama di relazioni e scambi, culturali e commerciali, indifferenti alle distanze e ai confini geografici tra le Nazioni, impone, però, l’avvio di una seria riflessione sul rapporto tra il multiculturalismo e l’esigenza di difesa dell’identità nazionale.
Centrale a questo proposito risulta il ruolo dell’Università. A questa la Costituzione italiana riconosce un valore preminente quale luogo istituzionalmente deputato alla trasmissione della conoscenza nei vari rami del sapere ed alla formazione della persona e del cittadino (ex multis Corte Cost. 383/1998, Corte Cost. 7/1967). Al contempo, la medesima fonte, nei suoi artt. 6 e 9, secondo la costante lettura che ne dà la Consulta, riafferma l’indefettibilità del primato della lingua italiana, quale mezzo di salvaguardia e trasmissione dell’identità della Repubblica, attribuendo proprio al mondo della cultura tale munus di tutela.
Il mondo dell’Istruzione si trova, pertanto, prigioniero della dicotomia tra il rispondere con efficacia alle sfide della globalizzazione e il preservare il patrimonio culturale e linguistico nazionale. Questi è chiamato a svolgere, nel concretizzarsi della sua autonomia, una delicata operazione di bilanciamento tra i tanti valori costituzionali in gioco.
Significativa della complessità di tale compito è la vicenda giudiziaria, ancora aperta, che coinvolge il Senato accademico del Politecnico di Milano e la sua deliberazione del 21 maggio 2013 che istituisce l’inglese quale unica lingua ufficiale di tutti i corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca impartiti presso il polo milanese a partire dall’a.a. 2014-2015. La misura è stata adottata in attuazione dell’art. 2, comma 2 lett. l della l. 240 del 30 dicembre 2010 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), che individua una molteplicità di strumenti atti a favorire l’internazionalizzazione dell’offerta formativa, tra cui, anche, l’istituzione di corsi in lingua straniera. Il T.A.R. Lombardia, su ricorso promosso da alcuni docenti dell’università milanese, ha annullato il provvedimento del Senato Accademico, giudicandolo irragionevole e sproporzionato, oltre che lesivo delle libertà di insegnanti e studenti. Il Consiglio di Stato, in appello, ne ha, invece, dichiarato la conformità alla lettera della legge, che non imporrebbe l’onere di conservare un numero minimo di corsi in lingua italiana. Questo giudice ha, però, considerato tale assenza normativa un probabile vizio di legittimità, sollecitando, quindi, una pronuncia in via incidentale della Corte Costituzionale.
Con la sentenza interpretativa di rigetto del 21 febbraio 2017, n. 42, la Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 lett. l della l. 240/2010, statuendo che di tale norma non possa essere data una lettura che consenta l’erogazione di interi corsi di studio esclusivamente in lingua inglese, senza che questi siano affiancati da altri di contenuto del tutto analogo, ma impartiti in italiano. La Corte ha privilegiato, così, l’esigenza di salvaguardia dei principi costituzionali di eguaglianza nelle possibilità di accesso dei capaci e meritevoli a tutti i gradi di istruzione (art. 3 in connessione con art. 34 Cost.), di libertà di insegnamento e di autonomia universitaria (art. 33 Cost.) e, soprattutto, di tutela e primazia del patrimonio linguistico e culturale italiano.
Al fine di non sacrificare eccessivamente la promozione dell’indispensabile apertura internazionale della formazione universitaria, la sentenza citata, al considerato in diritto n. 4, fa salva la possibilità di istituire corsi di studio integralmente in lingua straniera, purché a ciascuno di essi corrisponda l’offerta di un suo omologo impartito in italiano e del tutto identico nei contenuti didattici, onde fornire agli studenti ed ai docenti la possibilità di scegliere la lingua di cui avvalersi. In conclusione della pronuncia, si riafferma la possibilità che singoli insegnamenti siano forniti esclusivamente in una lingua straniera, senza il necessario corrispettivo italiano, sempre che questi siano contenuti in numero ragionevole e, nel complesso, non costituiscano un mezzo elusivo del divieto precedente.
Quello raggiunto dalla Corte appare un bilanciamento sostanzialmente accettabile tra le individuate esigenze di salvaguardia linguistica e di apertura multiculturale; tuttavia, permangono alcune questioni meritevoli di ulteriore approfondimento.
Ho già avuto modo di occuparmi della questione in una riflessione sviluppata sui Sapienza Legal Papers (n.3, parte prima). In tale sede avevo espresso qualche perplessità in merito alla necessità di una pronuncia della Corte Costituzionale. Da un’attenta lettura della disposizione normativa, della cui legittimità costituzionale il Consiglio di Stato ha dubitato, infatti, risulta sufficientemente evidente la scelta compiuta dal legislatore di promuovere un modello di internazionalizzazione mirante a finalità d’integrazione plurilaterale, che mal si concilia con il monolinguismo esasperato presente nella delibera dell’Università milanese, ma di cui sembra risentire, sebbene in misura decisamene più sfumata e di segno totalmente opposto, anche la sentenza della Consulta.
Il catalogo normativo degli strumenti suggeriti alle università per rafforzare l’apertura verso l’estero è, infatti, molto più variegato e risulta comprensivo di misure tese alla cooperazione e alla definizione di programmi di studio integrati che presuppongono una lodevole biunivocità nelle influenze. In tale contesto l’istituzione di corsi tenuti, in tutto o in parte, in lingua straniera è solo un aspetto di una strategia molto più articolata, assolutamente rispettosa della cultura italiana e mirante alla sua valorizzazione all’estero.
È pertanto, forse, censurabile la rigidità della lettura della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, che, seguendo l’esempio del T.A.R. Lombardia, avrebbe potuto promuoverne un’interpretazione meno penalizzante il valore costituzionale della tutela della lingua italiana.
La Corte Costituzionale, a riguardo, statuendo sull’ammissibilità delle questioni prospettate dal giudice del rinvio, ha riconosciuto l’esistenza di una molteplicità di interpretazioni possibili, ritenendo, però, la scelta tra di esse una questione attinente al merito e non un ostacolo preliminare alla trattazione, rivendicando, così, il proprio diritto-dovere di pronunciarsi in via definitiva.
Il bilanciamento effettuato dalla Corte Costituzionale sembra muovere dal presupposto che la primazia della lingua italiana sia da preservarsi in ogni caso, in quanto vettore dell’identità e della cultura nazionale, quindi anche laddove la specificità dell’insegnamento renda preferibile l’utilizzo di una determinata lingua straniera. Si legge, infatti, nel considerato in diritto n. 4.1 che “le legittime finalità dell’internazionalizzazione non possono ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare.”
Una tale impostazione, per quanto non priva di ragionevolezza, può risultare eccessivamente semplificatrice del problema del multiculturalismo. La vera sfida dell’Università, oggi, non è quella di scegliere la lingua migliore per impartire i propri insegnamenti, né tantomeno di difendere il simulacro di un’identità culturale ormai sbiadita e contaminata, bensì l’incentivazione dello scambio, delle commistioni e dei confronti tra studenti, ricercatori, idee e metodi diversi.
Il concetto di internazionalizzazione, pertanto, non dovrebbe essere inteso come omologazione ed appiattimento su di un’unica forma di elaborazione e concettualizzazione scientifica, bensì come interrelazione e dialogo tra punti di osservazione differenti dei medesimi fenomeni.
Si è fatto prima riferimento all’idea di integrazione plurilaterale, in contrapposizione ad un’impostazione che privilegia il monolinguismo al fine di velocizzare e facilitare al massimo le comunicazioni e lo scambio di informazioni; spesso si tende a sottovalutare la pericolosità delle implicazioni di quest’ultima opzione. La lingua non è un mero strumento dello scambio, non è un “…cavo telefonico, bensì essa svolge una serie di altre funzioni che vanno ben oltre il semplice ruolo di comunicazione. […]. La lingua è ciò che dà coscienza individuale a ciascuno di noi e sedimenta la cultura in cui ci siamo formati…” (L. Serianni).
Sussiste, per quanto spesso obliata, una connessione strettissima e ineludibile tra il contenuto concettuale proprio di una determinata disciplina e la forma in cui esso si esplicita. Ogni elaborazione gnoseologica nasce in un determinato contesto linguistico ed esso è a sua volta plasmato ed integrato da tale evoluzione conoscitiva. Già nel mondo classico, come si dirà più avanti, i più acuti osservatori intuirono l’esistenza di tale legame, divenuto oggi di immediata percezione per i tanti giovani che hanno la fortuna di trascorrere un periodo di studio all’estero. In alcune materie, come il Diritto, la distanza tra sistemi e tradizioni giuridiche si riflette immancabilmente nel lessico specialistico; per cui uno studente italiano che svolga studi comparati con sistemi di Common Law scoprirà, come capitato a me poco dopo aver scritto l’articolo prima menzionato, sin da subito l’impossibilità di tradurre alcuni concetti propri della scienza giuridica romanistica, in quanto assenti nell’elaborazione anglosassone, e viceversa. L’utilizzo di un linguaggio unico ed universale, per quanto possa facilitare la comunicazione, porterebbe al sacrificio di ogni sfumatura ed implicazione cognitiva il cui sostrato logico non sia esprimibile nell’impianto culturale che a quella lingua fa capo.
Similmente, vi è un’indiscutibile penalizzazione della capacità del singolo di sviluppo di un pensiero complesso, quale palesemente è quello scientifico in senso lato, in una lingua che non sia quella utilizzata quotidianamente. La lingua materna ha una superiore capacità di dar corpo ai pensieri e di trasformarli in parole chiare, perché nel corso dell’acquisizione infantile essa plasma in modo duraturo le strutture della mente.
In sintesi, il monolinguismo, quale che sia l’idioma scelto, induce, quale conseguenza ineludibile, la fine del pluralismo nella elaborazione del pensiero e l’omologazione ad un punto di vista preminente, legato all’impostazione culturale cui la lingua scelta appartiene, con la conseguente perdita di ogni possibilità di arricchimento mediante lo scambio ed il confronto.
Da ciò deriva la necessità che i programmi di condivisione siano orientati verso un afflato multiculturale, in cui ciascun soggetto sia chiamato a sviluppare il proprio metodo di studio tradizionale, secondo l’impostazione culturale di cui è portatore, nella lingua in cui essa si declina, per poi mettere in dialogo i risultati ottenuti con quelli dei propri colleghi di tutto il mondo. Solo tale pluralità di approcci consentirà, tramite i sistemi pratici di coordinamento più idonei, un vero scambio ed una sintesi delle diversità che siano arricchenti per tutti i soggetti e le realtà culturali coinvolte.
L’opportunità di perpetrare l’utilizzo della lingua italiana nell’insegnamento universitario deriva, quindi, dalla necessità di preservare e valorizzare i contenuti e le peculiarità metodologiche che il nostro sistema culturale ha maturato nei secoli. Tale esigenza risulta presente in misura decisamente inferiore laddove, come osservabile in molti campi di ricerca scientifica e tecnologica, si è dinanzi a discipline di recente formazione, sviluppatesi intorno ad un patrimonio conoscitivo ed a paradigmi sostanzialmente unitari, espressi attraverso un sistema glottologico veicolare, specifico e sostanzialmente condiviso.
Nell’ottica presentata, la statuizione della Corte appare, a giudizio di chi scrive, viziata dal medesimo assolutismo che intende condannare. Interessanti, a sostegno di questa lettura, risultano le affermazioni contenute nel considerato in diritto n. 4: “Ove si interpretasse la disposizione oggetto del presente giudizio nel senso che agli atenei sia consentito predisporre una generale offerta formativa che contempli interi corsi di studio impartiti esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano, anche in settori nei quali l’oggetto stesso dell’insegnamento lo richieda, si determinerebbe senz’altro, un illegittimo sacrificio di tali principi.” La lingua italiana è da essa tutelata in sé e per sé, senza attenzione alcuna per le esigenze didattiche e formative di studenti e professori e senza interrogarsi sul come creare un ambiente fertile di scambio e collaborazione internazionale, atto ad esaltare e valorizzare le specificità del nostro insegnamento universitario attraverso la relazione con esperienze estere. La soluzione suggerita nel considerato in diritto n. 4.1 di “affiancare all’erogazione di corsi universitari in lingua italiana corsi in lingua straniera” identici nei contenuti, ferma restando l’illegittimità dell’ipotesi che “interi corsi di studio siano erogati esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano”, sembrerebbe, a prima vista, la panacea di ogni male, a garanzia tanto delle libertà di scelta di studenti e docenti, quanto della promozione del metodo proprio; essa, tuttavia, risulta nei fatti estremamente onerosa, implicando la moltiplicazione delle risorse necessarie – ed oggi non disponibili – all’attivazione di corsi, con il conseguente rischio che non si riesca a garantire detta duplicità e si realizzi un eccessivo sacrificio degli aspetti di internazionalizzazione, non per ogni disciplina giustificato da una precipua esigenza di esaltazione della tipicità linguistica nazionale.
La Consulta, nel giudicare della costituzionalità della disposizione normativa, ricollega, altresì, l’utilizzo obbligatorio dell’italiano ad un’esigenza di uguaglianza e garanzia per gli studenti capaci e meritevoli di poter accedere alla formazione universitaria prescelta, senza che siano costretti ad utilizzare una lingua che non conoscono o a doversi spostare per frequentare un diverso ateneo.
È questo un argomento non privo di ragionevolezza, ma forse incompleto nella sua lettura del mondo contemporaneo; bisognerebbe, infatti, riflettere anche sulla possibilità che studenti, proprio in quanto capaci e meritevoli, siano interessati a sviluppare le proprie competenze in un ambiente internazionale che ne accresca la competitività in vista del futuro ingresso nel mercato del lavoro. Per uno studente è oramai essenziale, al fine di conseguire una preparazione completa e gli strumenti per mantenerla aggiornata in una realtà in rapidissima evoluzione, confrontarsi con idee, mentalità e metodi diversi dai propri, familiarizzando con sistemi linguistici specialistici altri.
In sostanza, la Corte si è limitata a una difesa, a mio avviso, eccessivamente tradizionalista del valore identitario della lingua italiana, senza interrogarsi sui modelli di internazionalizzazione ed evoluzione multiculturale, cui la formazione universitaria contemporanea deve tendere.
Come detto in apertura, la globalizzazione pone sfide importanti all’intero sistema educativo italiano ed, in tale contesto, la previsione, secondo le indicazioni ed i limiti individuati dalla citata sentenza n. 42/2017, di corsi o di singoli insegnamenti in lingua straniera dovrebbe risultare solo un aspetto di strategie di offerta formativa molto più articolate, volte ad arricchire la preparazione internazionale degli studenti, ma, al contempo, assolutamente rispettose della cultura italiana e promotrici della sua valorizzazione all’estero.
The law is expressed in words which reflect the identity of a language. Lawyers are known to be punctilious and hairsplitting in particular respect of their use of language – be it by déformation professionnelle or by pleasure. So there is an intrinsic link between linguistic identity and legal rules. This link becomes particularly apparent when you study law abroad and in a different language as I had the chance to experience. Thanks to the tri-national law curriculum of the European Law School I studied law in Berlin (Humboldt University), Rome (Sapienza Università di Roma) and London (King’s College London) in German, Italian and English respectively. Each language has its peculiarities. German grammar is complicated both in declinations and in sentence structure, but precise in content. Italian is eloquent, rhetorically appealing and well-sounding. English is to the point content-wise and flexible in its use and evolution. In my opinion, these linguistic characteristics are mirrored in the legal education and legal thinking taught in the respective countries’ universities. Take the examination styles and compare them. In Germany, law students are trained to write legal opinions in a strict form and severely regulated style from the point of view of a judge. Italian law exams are almost exclusively conducted orally and in the style of a mini-lecture given by the student. The English examination through essays focuses on both flexible thinking and writing to the point. All of these systems express different approaches to teach law. Furthermore, they might be causally linked to the linguistic characteristics outlined above. The systems have their own charm and advantages as do the respective languages. Since law is all about creative and inventive problem-solving, legal education should stimulate thinking outside the box and thus foster inter-linguistic exchange by studying different legal systems in different languages. NIKOLAI BADENHOOP – dottorando in diritto privato presso la Humboldt-Universität zu Berlin
Lingue veicolari e insegnamenti della storia Marie Theres Fögen nel 1995 – in uno scritto dal titolo Diritto bizantino in lingua latina, pubblicato sul numero 23 di Index. Quaderni camerti di studi romanistici – International Survey of Roman Law – proponeva brillantemente un parallelismo tra l’esperienza giuridico-linguistica romana e il «multilinguismo» della «Babele di Bruxelles», posta di fronte alla costante alternativa fra l’adozione di un «plurilinguismo» e l’assunzione di un «monolinguismo», opzioni entrambe destinate – in un modo o nell’altro – a emarginare le lingue europee «perdenti». Sulle orme di queste riflessioni, la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 42/2017 sul rischio di marginalità che l’italiano può acquisire – nel generale «contesto di plurilinguismo della società contemporanea» – nell’attivazione di corsi di studio esclusivamente in lingua straniera, mi spinge a riflettere sull’esperienza storico-giuridica dell’Impero romano e dei conflitti linguistici sorti nei secoli quarto e sesto d. C. Siamo negli anni trenta del trecento d. C. e l’imperatore Costantino trasferisce il governo della ‘cosa romana’ nella neonata Costantinopoli, la ‘Nuova Roma’ nella parte orientale ed ellenica dell’Impero. La cancelleria imperiale, trapiantata sul Bosforo, parla latino; gli atti ufficiali sono redatti in latino; gli atti normativi – le costituzioni imperiali – sono emanati in latino: «in un mondo di parlanti greco», il latino afferma il proprio monopolio nel diritto e nell’amministrazione. Non mancano gli scontenti, i delusi e gli sconfitti che intravedono nella latinizzazione del diritto e dell’amministrazione ellenica, e nella conseguente assunzione di una nuova lingua ufficiale, la «repressione di una cultura di lingua diversa», ovvero di quella autoctona. Due secoli dopo, dalla mente dell’imperatore Giustiniano prende forma il sogno di una rinascita della cultura giuridica latina. Passano pochi anni dal concepimento e nasce – sempre sulle sponde orientali del Mediterraneo – il «templum iustitiae» che, unito al Codex e alle Institutiones – cui si aggiunge tempo dopo il testo in greco delle Novellae –, passa alla storia col nome di Corpus iuris civilis. Il conflitto linguistico «celebra il proprio trionfo»: due grandi uomini ‘di palazzo’ – Triboniano, favorevole alla conservazione della lingua latina, e Giovanni di Cappadocia, sostenitore dell’uso del greco – trovano nella scelta della lingua ufficiale da adottare per il nuovo diritto imperiale un importante terreno di scontro. Si afferma il genio del primo, celeberrimo architetto della compilazione giustinianea. L’imperatore raccoglie nel Codex gli atti normativi dei suoi predecessori redatti in lingua latina; «mette insieme» («pandekomai», da cui Pandectae) frammenti sparsi tratti dalle opere composte in lingua latina dalla gloriosa giurisprudenza dei secoli passati; redige, sempre in latino, il testo ufficiale delle Institutiones su cui apprendere i primi elementi del diritto al primo anno degli studi giuridici. A Beirut e a Costantinopoli – sedi delle due più importanti scuole giuridiche del tempo – l’insegnamento di questo diritto a fatica si svolge in latino e viene impartito per lo più in lingua greca: agli studenti grecofoni i professori di diritto sentono il dovere di proporre traduzioni e commenti in greco dei Digesta giustinianei, nonostante i divieti, previsti dal legislatore imperiale, di interpretazioni – e quindi traduzioni – «devianti» il testo legislativo (Const. Deo auctore 12; Const. Tanta 21). L’insegnamento degli antecessores conduce alla nascita di un secondo Corpus iuris, interamente commentato in lingua greca, a esclusione di molti termini tecnico-giuridici che, nati e sviluppati nel contesto linguistico latino, si presentano quali veicoli di specifici contenuti dogmatici: i professori di diritto si convincono della impossibilità di tradurre in greco tali termini, se non tradendone il significato (e.g. la Parafrasi greca di Teofilo alle Institutiones di Giustiniano). L’esperienza storica romana sul punto, qui sinteticamente riportata, può insegnarci allora qualcosa: nell’ambito di un plurilinguismo o di un conflitto linguistico operanti, l’insegnamento di un sapere tecnico – quale è quello giuridico – molto spesso non può prescindere dal proprio codice linguistico di provenienza a cui tale sapere resta necessariamente ancorato.
Cosa viene della “capacità” e della “meritevolezza” In uno dei passaggi della sentenza 42/2017, la Corte, facendo richiamo al metodo del bilanciamento, include, a ragione, il principio d’eguaglianza sotto lo specifico profilo della parità di accesso all’istruzione. Afferma, inoltre, come la Repubblica abbia il dovere di garantire il predetto diritto, sino ai gradi più alti degli studi, ai capaci e ai meritevoli, anche se privi di mezzi. Ora, sappiamo che la Costituzione affida alla Repubblica il compito di attuare questo diritto mediante alcune specifiche provvidenze pubbliche (art. 34, quarto comma, Cost.). Tuttavia, mi chiedo a che punto siamo con il più complessivo impegno dello Stato sociale a rimuovere le disuguaglianze di fatto e le condizioni di subalternità sociale, che limitano la possibilità di accesso ad eguali occasioni di libertà e rendono difficile l’effettivo godimento dei diritti da parte del singolo. Ebbene, mi pare che da questa vicenda si possa cogliere un aspetto rilevante che riguarda proprio il tema della parità di accesso. In tal senso, credo che sia opportuno precisare la portata dell’espressione “in assenza di adeguati supporti formativi”. Si tratta di una formula utilizzata dai giudici costituzionali nella richiamata pronuncia con cui si tiene conto di una possibile condizione di sfavore, che penalizzerebbe ingiustamente coloro che non abbiano potuto fruire di un adeguato insegnamento dell’inglese nell’accedere a corsi universitari attivati esclusivamente in tale lingua. Da questo punto di vista, occorre mettere in luce che il grado di apprendimento di una lingua straniera non dipende in maniera esclusiva dall’educazione scolastica impartita nelle scuole primarie e al liceo, ma risente di ulteriori vincoli ereditari. In particolare, la trasmissione intergenerazionale del capitale economico e il contesto sociale e culturale in cui si è inseriti sono decisivi per la propria formazione, sicché, come affermato dal professor Franzini in “Disuguaglianze inaccettabili”, le opportunità rischiano di essere distribuite per nascita piuttosto che per merito. Per restare alla questione, è chiaro, ad esempio, che per approfondire la conoscenza di una lingua straniera saranno determinanti le esperienze formative sostenute direttamente all’estero. Ma siccome il “grado di mobilità” di un figlio dipende grosso modo dal livello di reddito della propria famiglia, è altamente probabile che genitori diversamente ricchi abbiano figli diversamente istruiti. Oltretutto, il livello di conoscenza di una seconda lingua può dipendere dalle condizioni economiche familiari, anche sotto un altro profilo: il titolo di studio dei genitori e le relazioni sociali della famiglia possono incidere sul percorso formativo dei figli, in quanto può essere avvertita in modo differente la necessità di conoscere una seconda o addirittura terza lingua. Orbene, i sistemi adoperati per la selezione e la promozione degli individui possono infliggere danni seri ad una società. Garantire, pertanto, l’indipendenza del futuro di ciascun giovane dalle condizioni di origine dovrebbe rappresentare uno degli obiettivi sottesi al raggiungimento dell’eguaglianza sostanziale. A quel punto, forse, potremmo parlare più liberamente di concetti come capacità e merito.