La componente «misteriosa» della comparazione e l’importanza di giustificare le scelte

In un suo recente saggio dal titolo L’argument fondé sur la comparaison dans le raisonnement juridique, uscito in un importante volume collettaneo, curato da Pierre Legrand, dal titolo Comparer le droits, résolument (PUF, 2009), Marie-Claire Ponthoreau ha sostenuto come «la comparazione costituisca, per una buona parte, una operazione misteriosa».

Questa aura di mistero attribuita al diritto comparato, secondo la Ponthoreau, costituisce un carattere ineliminabile della comparazione giuridica e, in un contributo ricco di molte altre idee sulla forza e l’uso dell’argomento comparatistico nel ragionamento giuridico, rappresenta senz’altro una delle affermazioni più suggestive ed affascinanti.

D’altronde, fu Albert Einstein a dire che la cosa più bella con cui possiamo entrare in contatto è il mistero perché  esso è  la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la vera scienza e, ancora, parafrasando Kierkegaard, che lo diceva a proposito della vita, si potrebbe dire che la comparazione non è un problema da risolvere, ma un mistero da vivere.

Proprio questo carattere, infatti, nelle parole dell’Autrice, ha un’importanza centrale perché costituisce la causa dell’ampio dibattito sul metodo, per quanto sia, allo stesso tempo, anche il motivo per cui non esiste e non potrebbe esistere una comparazione giusta ed esatta. Non è possibile, infatti, che la questione del metodo giusto di comparazione dei diritti sia risolvibile secondo canoni oggettivi, perché questa si configurerà sempre come prevalentemente una questione di valore.

Un solo strumento si delinea all’orizzonte e viene in soccorso di un dibattito altrimenti incentrato su un mistero irrisolvibile: il «discorso argomentativo». È impossibile non constatare che nessuna teoria generale del diritto comparato sia riuscita a porre una volta per tutte le regole e le condizioni della comparazione giusta; sta allo studioso la responsabilità di permettere un controllo sul processo logico seguito, giustificandolo e «rendendo conto delle sue scelte», di quali siano le premesse del ragionamento che lo hanno portato a privilegiare e sottolineare le differenze o le somiglianze tra i diversi sistemi giuridici prescelti.

Ecco che, in questo modo, la comparazione, un’attività dinamica e romantica, forse con una componente fissa di irrazionalità, farà riferimento più che ad una teoria dell’interpretazione, ad una teoria dell’argomentazione, il che vale a dire che, per quanto parte della comparazione non potrà che restare un enigma,  essa in parte andrà a fondarsi su un «discorso argomentativo ragionevole» ed essere, su queste basi, più o meno convincente.

Nel senso prospettato, in sintesi, non può non porsi un problema metodologico della comparazione su cui deve poter essere esercitabile un controllo, ma si assiste ad un vero e proprio spostamento del problema, dal piano dell’interpretazione a quello dell’argomentazione. Non c’è un metodo giusto o sbagliato, ma è necessario che sia verificabile il percorso logico-argomentativo seguito. In questo senso, sostiene la Ponthoreau, si può parlare di «pluralismo metodologico.

Ecco, a mio avviso, il fascino e, paradossalmente, il punto di forza e di debolezza insieme del diritto comparato, il quale, se proprio in questa aura di mistero fonda le sue grandi potenzialità di analisi, suggestione e di diffusione, trova gran parte della sua forza e delle sue potenzialità prescrittive pratiche nella ragionevolezza delle argomentazioni poste alla base del ragionamento giuridico proposto e non, quindi, come il diritto posto, nella forza dell’ordinamento e nella gerarchia delle fonti, ma solo nella sua persuasività.

Se ciò è vero, forse, quando questi due elementi della comparazione trovano un punto di incontro fecondo, il diritto comparato diventa, di per sé, una felice sintesi di ratio ed emotio.

 

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