Dopo il crocifisso, la Corte di Strasburgo apre un nuovo fronte in materia di fecondazione eterologa. Quale futuro per la legge 40?
Il tema della procreazione medicalmente assistita, disciplinato in Italia dalla legge n. 40 del 2004, è tornato prepotentemente alla ribalta a seguito di una sentenza dello scorso aprile, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 57813/00) ha condannato lo Stato austriaco per il divieto assoluto di fecondazione eterologa previsto dalla propria legislazione.
La pronuncia rischia di avere pesanti ripercussioni anche sul nostro paese, incoraggiando la presentazione di una considerevole mole di ricorsi vertenti sull’art. 4, comma 3 della legge 40 del 2004, disposizione che preclude in modo assoluto l’intervento di un donatore esterno alla coppia coniugata o convivente.
Pur riconoscendo la serietà del c.d. “rischio eugenetico” – argomento, questo, invocato dal Governo austriaco a difesa della propria normativa – i giudici di Strasburgo hanno affermato che la completa messa al bando della fecondazione eterologa appare comunque come una soluzione non proporzionata, in quanto sono possibili interventi da parte del legislatore atti a minimizzare un tale pericolo.
Il passaggio centrale della sentenza sembra essere tuttavia un altro. Nell’affermare la violazione da parte dell’Austria del combinato disposto risultante dagli artt. 14 (divieto di discriminazione) e 8 (rispetto della vita privata e familiare) CEDU, la Corte non ha affermato né l’esistenza di un diritto delle coppie a procreare, né, tantomeno, ha sancito la contrarietà tout court alla Convenzione del divieto di fecondazione eterologa. Il percorso argomentativo dei giudici di Strasburgo muove invece dalla irragionevolezza del suddetto divieto qualora la normativa nazionale consenta il ricorso alla fecondazione omologa. Si introdurrebbe infatti una inammissibile discriminazione fra le coppie che possono ricorrere con successo alla fecondazione omologa e quelle per le quali l’unica possibilità di concepire un figlio consiste nelle tecniche di fecondazione eterologa. In altri termini: coppie che si trovano nella medesima condizione di infertilità non possono essere trattate diversamente solamente in ragione della diversa tecnica di fecondazione utilizzata.
La vicenda della fecondazione eterologa costituirà un importante banco di prova in ordine alla tenuta dei principi affermati nelle sent. 348 e 349 del 2007. In questi giorni sono stati infatti presentati diversi ricorsi presso alcuni tribunali italiani con l’obiettivo di sollevare una questione di incostituzionalità dell’art. 4 della legge 40. Oltre a denunciare la violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, i ricorrenti lamentano altresì la violazione dell’art. 117 Cost. richiamando espressamente la sentenza della Corte europea.
Sennonché proprio il nodo della CEDU-parametro rischia di trascinare la Corte costituzionale su un campo minato. Come si legge nella sent. 348, «poiché le norme giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione». Da qui alcuni interrogativi già oggetto di un ampio dibattito e di vivaci contrapposizioni: deve la Corte sentirsi vincolata all’interpretazione di una sentenza che non ha efficacia vincolante nei confronti del nostro paese, per di più emessa da una sezione in assenza di una giurisprudenza consolidata sul punto? Quale danno deriverebbe all’impostazione sancita dalle sentt. 348 e 349 qualora la Gran Chambre ribaltasse la pronuncia della sezione CEDU dopo una eventuale dichiarazione d’incostituzionalità basata esclusivamente sulla violazione dell’art. 117?
Si tratti di nodi sostanzialmente aperti, ma che lasciano intravedere, a tre anni di distanza dalle sentenze “gemelle”, tutte le difficoltà nella costruzione del dialogo fra corti, soprattutto quando in gioco ci sono temi politicamente ed eticamente sensibili come quello della fecondazione eterologa.