Una rilettura di Lochner v. New York ad oltre un secolo di distanza

La sentenza Lochner v. New York del 1905 (198 U.S. 45) è unanimemente considerata una delle sentenze più controverse della Corte Suprema federale statunitense, in grado di rivaleggiare con Dred Scott v. Sanford (60 U.S. 393), o con Plessy v. Ferguson (163 U.S. 537), o con Bush v. Gore (531 U.S. 98), per la grande quantità di polemiche suscitate. Con questa sentenza, la Corte Suprema presieduta da Melville Fuller – redattore dell’opinion of the Court fu il giudice Rufus Peckham – dichiarò incostituzionale per contrasto con il XIV Emendamento il Bakeshop Act (1895) dello Stato di New York, che fissava in 60 ore settimanali e in 10 ore giornaliere l’orario massimo di lavoro dei fornai.

Per rendersi conto della fondamentale importanza di questa sentenza nell’ambito della storia costituzionale americana, basti pensare che non c’è un saggio, un articolo o una monografia di uno studioso statunitense che non vi faccia riferimento: al centenario di Lochner sono stati dedicati fascicoli monografici della Boston University Law Review e del New York University Journal of Law & Liberty; una citazione di Lochner si ritrova nella recente traduzione italiana di Justice in Robes di Ronald Dworkin; di Lochner si occupa Laurence Tribe nel suo The Invisible Constitution, sfortunatamente non ancora tradotto in italiano; una sostanziale esaltazione di Lochner e della giurisprudenza «lochneriana» è presente nel libretto (fortemente polemico) di Richard Epstein, How Progressives Rewrote the Constitution; un riferimento a Lochner è presente nella biografia della Costituzione americana di Akhil Reed Amar; alla Lochner Era Jurisprudence sono dedicati numerosi lavori (articoli e monografie) di Paul Kens, Howard Gillmann, e James W. Ely; a Lochner è dedicata una parte della monumentale The History of the Countermajoritarian Difficulty di Barry Friedman; della sentenza Lochner si occupa persino Robert Bork, nel suo (per la verità, a tratti delirante) libello, Coercing Virtue; di Lochner Era parla Stephen Griffin nel suo eccellente libro sul costituzionalismo americano; di Lochner si sono occupati Tribe e Dorf nel loro splendido lavoro sull’interpretazione costituzionale; di Lochner parla a lungo Bruce Ackerman nella sua opera più importante, We the People, comparandola addirittura a Dred Scott («“Lochner” is morally obtuse while “Dred Scott” is morally wrong»); Lochner, infine, viene citata anche in Democracy and Distrust di J.H. Ely, o in Government by Judiciary di Raoul Berger, che, a tutti gli effetti, è una delle prime teorizzazioni di quell’indirizzo interpretativo chiamato originalismo.
La stessa Corte Suprema non ha esitato a richiamare, direttamente o indirettamente, Lochner in numerose sentenze successive. Oltre alla giurisprudenza su temi economici successiva al 1937, in cui la Corte fece esplicito overruling dei principi affermati in Lochner, si possono citare una serie di sentenze su temi diversi, in cui il precedente di Lochner viene evocato, sia pure per prenderne le distanze: basti pensare, per es., all’opinion of the Court del giudice Douglas nel caso Griswold v. Connecticut del 1965 (381 U.S. 479), o all’opinion del Chief Justice, William Rehnquist, nel caso Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v. Casey del 1992 (505 U.S. 833), o alla dissenting opinion del giudice Scalia in Lawrence v. Texas del 2003 (539 U.S. 558).
Ma l’importanza del caso Lochner travalica i confini statunitensi. A Lochner sono dedicate alcune pagine dell’ottimo manuale di Elisabeth Zoller, Droit constitutionnel, e un riferimento in quello che è il primo studio di un giurista europeo sul judicial review statunitense, Le gouvernement des juges di Edouard Lambert. Per quanto riguarda l’Italia, si possono citare i numerosi riferimenti ad essa sia ne La legge e la sua giustizia di Gustavo Zagrebelsky, sia nel lavoro di Benedetta Barbisan dedicato alla sentenza Marbury v. Madison, mentre, per quanto riguarda i privatocomparatisti, si possono citare l’ottimo articolo di Veronica Gaffuri su liberty e due process clause pubblicato sulla Rivista critica di diritto privato o il manuale di Ugo Mattei sui paesi di common law. Di Lochner, infine, parla anche uno dei più importanti costituzionalcomparatisti italiani, Giovanni Bognetti, nel suo Lo spirito del costituzionalismo americano, seppure per esaltarne il carattere ideologico a favore della liberty of contract.
Non c’è dubbio, quindi, che la sentenza Lochner sia una delle sentenze più studiate e più citate della Corte Suprema statunitense. La sua importanza consiste nel fatto che non è soltanto una sentenza rappresentativa del judicial activism statunitense tra la fine del XIX secolo e il 1937, o una sentenza paradigmatica di una certa concezione della liberty of contract e del due process of law, ma è anche e soprattutto una sentenza «narrativa» e simbolica. Essa illustra, infatti, le profonde contraddizioni della Gilded Age statunitense e sottende lo scontro non solo tra due diverse concezioni del rapporto tra Stato ed economia (quelle che lo stesso Bognetti ha chiamato la Costituzione liberale e la Costituzione democratica), ma anche tra formalismo (ortodossia giuridica classica, per utilizzare una espressione di Morton J. Horwitz) e realismo giuridico. Questo scontro, in particolare, verrebbe ben reso da una comparazione sinottica tra l’opinion di Peckham e la dissenting opinion di Oliver Wendell Holmes: ad un Peckham tutto teso, sulla base di una visione assolutistica del laissez-faire e di un ragionamento di tipo sillogistico, ad enfatizzare la liberty of contract e l’uguaglianza formale dei contraenti, richiamando il precedente di Allgeyer v. Lousiana (165 U.S. 578), si contrappone un Holmes che sottolinea come un ragionamento di tipo sillogistico non serva a risolvere casi concreti («General propositions do not decide concrete cases. The decision will depend on a judgment or intuition more subtle than any articulate major premise»), ed il XIV Emendamento non codifichi affatto la statica sociale di Herbert Spencer.
Va detto, però, che è problematico qualificare come liberale l’oltranzismo dogmatico su liberty of contract e laissez-faire, e come dirigista l’orientamento opposto: l’opinion of the Court del caso Lochner potrà mandare in estasi gli esponenti dell’anarco-capitalismo o i libertarians, ma non mi pare debba meritare giudizi così entusiastici. A parte il fatto che tra i giudici dissenzienti c’era anche John Marshall Harlan, del quale tutto si può dire tranne che fosse un convinto assertore del dirigismo economico o, addirittura, un socialista, il problema della libertà contrattuale è assai più complesso di come viene preso in considerazione nell’opinion di Peckham. Come ha mostrato Max Weber in alcune pagine insuperabili di Wirtschaft und Gesellschaft, infatti, una accresciuta libertà contrattuale, intesa come assenza di regolamentazione, può spesso risolversi in una diminuzione della libertà individuale, o, addirittura, in un assoggettamento di una parte contrattuale all’altra, in quanto bisogna tenere presente le condizioni di fatto di chi opera nel mercato.
Ciò non toglie, comunque, che la sentenza Lochner sia fondamentale per comprendere le grandi trasformazioni che hanno investito il diritto costituzionale americano nel XX secolo. Con il 1937 e l’abbandono della giurisprudenza «lochneriana», si chiude un periodo assolutamente peculiare nell’ambito della storia costituzionale statunitense, il periodo della supremazia del giudiziario su tutti gli altri poteri, periodo che, proprio per le sue peculiari caratteristiche, non si è più verificato: anche quando la Corte Suprema è tornata ad intervenire nell’arena politico-costituzionale (basti pensare al judicial activism delle Corti Warren e Burger), la dinamica costituzionale statunitense non è affatto tornata alla situazione esistente prima del 1937.

 

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