La dissimulation du visage dans l’espace public e la libertà di professare il proprio credo religioso
Il Conseil Constitutionnel, nella decisione n° 2010-613 DC del 7 ottobre scorso, destinata a fare discutere, ha dichiarato, prevedendo però una importante riserva su cui si tornerà tra pochissimo, la non contraddittorietà alla Costituzione del progetto di legge interdisant la dissimulation du visage dans l’espace public.
Ai sensi di tale progetto di legge, ora approvato in via definitiva dalle Camere, salvo la previsione di alcune eccezioni, «nul ne peut, dans l’espace public, porter une tenue destinée à dissimuler son visage». La stessa legge definisce “pubblico” lo spazio «constitué des voies publiques ainsi que des lieux ouverts au public ou affectés à un service public».
Com’è noto, alla base di tale iniziativa normativa c’è stata la valutazione, da parte del legislatore transalpino, da una parte, che les pratiques de dissimulation du visage dans l’espace public costituiscano un pericolo per la sicurezza pubblica e, dall’altra parte, che tali pratiche, quando sono fatte proprie dalle donne che, volontariamente o no, coprano il proprio viso con il burqua, siano in grado di provocare, a loro danno, una situazione o, comunque, una percezione di esclusione sociale e di inferiorità manifestamente incompatibile con il principio costituzionale di uguaglianza.
I giudici costituzionali d’oltralpe hanno operato un controllo di proporzionalità che, per costante giurisprudenza del Conseil, è alla base della valutazione degli stessi giudici volta a verificare la correttezza ed, appunto, la proporzionalità del bilanciamento operato dal legislatore tra, da un lato, le ragioni dettate dall’esigenza di salvaguardare l’ordine pubblico e, dall’altro, quelle alla base della necessità di garantire la protezione delle libertà costituzionalmente protette.
Tale valutazione ha un esito positivo, se è vero che il Conseil osserva che «considérant qu’eu égard aux objectifs qu’il s’est assignés et compte tenu de la nature de la peine instituée en cas de méconnaissance de la règle fixée par lui, le législateur a adopté des dispositions qui assurent, entre la sauvegarde de l’ordre public et la garantie des droits constitutionnellement protégés, une conciliation qui n’est pas manifestement disproportionnée».
Ma, come si diceva, il reasoning del Conseil non si arresta qui. I giudici costituzionali, infatti, sembrano operare una differenziazione tra le possibili limitazioni che all’esercizio della libertà di professare la propria religione sono operate in luogo “laico”, sia esso pubblico od aperto al pubblico, e quelle invece che la legge oggetto di giudizio può comportare all’esercizio della stessa libertà nei luoghi di culto aperti al pubblico. Mentre, infatti, le prime limitazioni sono considerate, come si è detto, proporzionali all’esigenza di proteggere la sicurezza pubblica e quindi conformi
alla Costituzione, per le seconde il Consiglio ci tiene a formulare una riserva bella e buona, aggiungendo che «toutefois, l’interdiction de dissimuler son visage dans l’espace public ne saurait, sans porter une atteinte excessive à l’article 10 de la Déclaration de 1789, restreindre l’exercice de la liberté religieuse dans les lieux de culte ouverts au public», per concludere che solo «sous cette réserve, les articles 1er à 3 de la loi déférée ne sont pas contraires à la Constitution»
A leggerlo la prima volta effettivamente il passaggio appena richiamato della pronuncia in esame lascia un po’ spiazzati: a cosa è dovuta la differenziazione operata dai giudici costituzionali e la prudenza dell’ultimo inciso? Una seconda lettura se, da una parte, rafforza lo spiazzamento iniziale, dall’altra forse consente di contestualizzare la pronuncia nell’ambito di un dialogo indiretto con la Corte di Strasburgo che, di recente, a conferma del suo nuovo attivismo post-allargamento del Consiglio d’Europa, ha, com’è noto, ridotto il margine di apprezzamento in capo agli Stati contraenti non solo con riguardo alla scelta di considerare obbligatoria l’affissione del croficisso nelle scuole, ma anche in relazione, questione assai più vicina a quella alla base della pronuncia del Conseil, all’ammissibilità di un divieto normativo di indossare in un luogo pubblico un vestimento religioso che sia in qualche modo in grado di nascondere l’identità di chi lo indossa.
Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza Arslan , del Febbraio 2010, in cui i giudici di Strasburgo sembrano aver modificato l’orientamento precedente sulla questione, riassunto a perfezione nel paragrafo 109 della decisione ŞAHİNdel 2005, in cui espressamente gli stessi giudici affermavano che «lorsque se trouvent en jeu des questions sur les rapports entre l’Etat et les religions, sur lesquelles de profondes divergences peuvent raisonnablement exister dans une société démocratique, il y a lieu d’accorder une importance particulière au rôle du décideur». Ciò in quanto «…la réglementation en la matière peut varier par conséquent d’un Pays à l’autre en fonction des traditions nationales et des exigences imposées par la protection des droits et libertés d’autrui et le maintien de l’ordre public (ès lors, le choix quant à l’étendue et aux modalités d’une telle réglementation doit, par la force des choses, être dans une certaine mesure laissé à l’Etat concerné, puisqu’il dépend du contexte national considéré».
Ebbene, nel caso Arslan del 2010 la Corte EDU ha ritenuto invece contraria all’art. 9 della Convenzione la legge turca del 1934 – con copertura costituzionale espressa sancita dall’art. 174 della Costituzione – che, a tutela del carattere laico dello Stato, faceva divieto ai proseliti di qualsiasi istituzione religiosa di indossare un indumento espressivo della propria religione al di fuori dei luoghi di culto.
La Corte ha provato a differenziare il portato della decisione dal proprio orientamento consolidato, prima richiamato, che su tali questioni lascia il più ampio margine di discrezionalità ai decisori “locali”, affermando che «les requérants ont été sanctionnés pour la tenue vestimentaire qu’ils portaient dans des lieux publics ouverts à tous comme les voies ou places publiques. Il ne s’agit donc pas de la réglementation du port de symboles religieux dans des établissements publics, dans lesquels le respect de la neutralité à l’égard de croyances peut primer sur le libre exercice du droit de manifester sa religion. Il s’ensuit que la jurisprudence de la Cour mettant l’accent sur l’importance particulière du rôle du décideur national quant à l’interdiction du port de symboles religieux dans les établissements d’enseignement public ne trouve pas à s’appliquer dans la présente affaire».
In realtà, la differenziazione tracciata dalla Corte non sembra del tutto convincente. Seppur la questione, nel caso di specie, non coincide interamente con quella, oggetto della giurisprudenza prima richiamata, relativa all’utilizzo di abiti religiosi in luoghi pubblici, non può non notarsi, nella decisione dei giudici di Strasburgo, una riduzione del margine di apprezzamento relativo all’ammissibilità dei limiti statali all’esercizio del diritto, risconosciuto a ciascuno individuo dall’art. 9 della CEDU, di professare il proprio credo religioso.
Si aggiunga inoltre che, nel caso di specie , il limite previsto dalla legislazione turca non solo trovava una copertura costituzionale, ma era dettato, come lo stesso Governo faceva notare, al fine di tutelare il principio di laicità che, a detta degli stessi giudici di Strasburgo «principe de laïcité … est la considération primordiale ayant motivé l’interdiction du port des symboles religieux» (Şahin par. 116).
Una ulteriore riduzione del margine di apprezzamento, dunque, che non è peraltro sfuggita al giudice Popović, che ha chiuso la sua opinione dissenziente osservando come «je me permets de constater que la majorité a manqué à situer l’affaire dans le cadre remarquablement complexe de la vie sociale de l’État défendeur, le fait qui a mené à la transgression de la marge d’appréciation accordée aux pays membres qui sont parties contractantes de la Convention».
Ritornando ora alla riserva espressa dal Conseil nella decisione di qualche giorno fa richiamata in apertura, in forza dell’evoluzione (o involuzione) giurisprudenziale di Strasburgo qui sommariamente descritta, può forse allora sospettarsi che i giudici costituzionali francesi, nell’ aver voluto mettere in chiaro che la legislazione nazionale che vieta l’utilizzo del burqa nello “spazio pubblico” non può però, in nessun caso, ledere il diritto dei singoli di professare la propria religione nei luoghi di culto aperti al pubblico, costituisca un tentativo di “blindare” detta legislazione nei confronti di un eventuale accertamento della sua conformità convenzionale da parte dei giudici di Strasburgo, proprio alla luce della giurisprudenza Arslan prima richiamata.
Sarà un tentativo sufficiente a evitare che la mannaia antimaggioritaria che caratterizza questa stagione, più attivistica che mai, della Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo aver messo in discussione la presenza del crocifisso nelle scuole italiane, si abbatta anche sui tentativi del Parlamento francese di vietare che le donne coprano il proprio volto con il burqua nei luoghi pubblici?
Se ne può dubitare, e non solo ripensando all’ aggressività interordinamentale dell’ultima giurisprudenza della Corte europea, che sembra essere sempre più indifferente, come si è visto anche nel caso Arslan, al portato delle disposizioni superprimarie ed alla giurisprudenza costituzionale degli Stati membri.
E’ anche (e forse soprattutto) la differenziazione operata dal Conseil, che si è evidenziata in apertura – a detta della quale il bilanciamento operato dal legislatore francese tra libertà di professare il proprio credo religioso e le preoccupazioni di ordine pubblico e sicurezza collettiva si trasforma “magicamente” da proporzionale e costituzionalmente legittimo ad inevitabilmente irragionevole ed in odore di incostituzionalità a secondo che i limiti previsti dalla legge limitino l’esercizio della prima in luoghi pubblici rispettivamente “laici” o di culto – a sembrare eccessivamente rigida per poter blindare efficacemente la conformità convenzionale della legge stessa.
Il principio di laicità dello Stato, il quale ingloba la laicità della scuola pubblica, risale all’ideale illuministico e giacobino dell’uguaglianza e costituisce valore fondante dell’ordinamento francese, alla stregua di un precetto sacro; oggi, si scontra inevitabilmente con una realtà multietnica che rende ardua l’armoniosa convivenza di diverse civiltà.
Ed è in siffatto contesto che si inserisce il dibattito relativo al divieto di indossare il velo islamico nelle scuole pubbliche francesi, quale occasione per una profonda discussione sul principio di laicità e sull’integrazione nel tessuto sociale dei fedeli di Allah, che configurano i precetti coranici quali leggi della società civile. Il Corano finisce, così, per sostanziarsi in un testo anche giuridico, portatore di taluni valori potenzialmente in conflitto con quelli francesi. Ne emerge la tensione tra principi di laicità e di libertà religiosa, ambedue richiamati dalla Costituzione del 4 ottobre 1958, all’art. 2, comma 1: “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’eguaglianza di fronte alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza, o di religione. Essa rispetta tutte le credenze”. Il principio di non discriminazione fondato su motivi religiosi è, oltretutto, già enunciato nel Preambolo della Costituzione del 1946 che dà diretto valore costituzionale allo specifico principio di laicità della scuola statale, in quanto “l’organizzazione dell’insegnamento pubblico, gratuito e laico in tutti i gradi, è un dovere dello Stato”. Quest’ultimo rinviene fondamento nella legge ordinaria del 28 marzo 1882, la quale dispone che, nell’istruzione primaria, l’insegnamento religioso deve essere dispensato al di fuori degli edifici e dei programmi scolastici; è rinvenibile, altresì, nella legge del 30 ottobre 1886 sull’organizzazione dell’insegnamento elementare, che, all’art. 47 dispone che nelle scuole pubbliche di ogni ordine, “l’insegnamento è esclusivamente affidato ad un personale laico”, nonché nella legge del 9 dicembre 1905, “concernant la separation des Eglises et l’Etat”, che codifica il principio de quo, su un duplice versante, positivo e negativo. L’uno, ex art. 1 della legge sulla separazione delle Chiese e dello Stato si risolve nell’assunto secondo cui “La Repubblica assicura la libertà di coscienza. Essa garantisce il libero esercizio dei culti con le restrizioni dettate nell’interesse dell’ordine pubblico”; l’altro, ex art. 2 si correla al disposto: “la Repubblica non riconosce, non stipendia, né sovvenziona alcun culto”. Ne emerge che il principio di laicità dello Stato francese si scontra inevitabilmente con la libertà di opinione e di manifestazione della propria fede, consacrato, altresì, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e, che investe un più generale diritto di esplicazione della propria identità, delle attività realizzatrici della persona. Vi si aggiunge l’intrisa problematicità connessa al principio di eguaglianza che, da un lato, predica il divieto di discriminazione tra sessi, alla cui stregua si condanna l’imposizione del velo islamico, quale palese, indiscussa soggezione della donna all’uomo; dall’altro, si estrinseca nel diritto alla differenza, che impone il rispetto delle minoranze religiose e culturali. Da qui il difficile compito della scuola, volto a garantire e favorire l’eguaglianza fra uomini e donne e, allo stesso tempo, a contribuire allo sviluppo della personalità, a far maturare il rispetto dell’individuo, delle sue origini e delle sue differenze, anche ai fini dell’integrazione di diverse culture nel tessuto sociale e culturale francese. Lo stesso diritto alla differenza viene utilizzato, sia quale argomento in favore del velo, sia in suffragio della tesi dell’espulsione, a fronte dell’irriducibilità delle differenze. E ancora, il fenomeno dell’integrazione viene concepito sempre più come un cammino convergente delle persone di origine straniera e della società di accoglienza, il che presuppone il riconoscimento non solo dei diritti degli stranieri, ma anche dei rispettivi doveri, tra i quali si impone il rispetto del principio di laicità.
Inoltre, si osserva come l’espulsione, incide, altresì, sul diritto all’istruzione, che è dovere dello Stato garantire in tutti i gradi; da qui l’esigenza di assicurare gli studi minimi necessari tramite un collegio o istituto, in famiglia o ricorrendo al centro pubblico di insegnamento per corrispondenza, o a“professori a domicilio”, soluzioni comunque, particolarmente dispendiose per le famiglie e fortemente penalizzanti per le ragazze, spesso costrette a lasciare gli studi.
Il velo islamico finisce, tra l’altro, per sintetizzare il contrasto tra l’ideologia repubblicana francese di ascendenza rivoluzionaria e il multiculturalismo. La prima non ammette l’esistenza di gruppi e realtà intermedie tra Stato e popolo francese, come emerge dalla Dichiarazione del 1789, che non contempla la libertà di associazione, per di più vietata dal decreto del 14 luglio 1791, detto “Loi Le Chapelier”, nonché dalla sentenza del Conseil constitutionnel sullo Statuto della Corsica, che osta alla nozione di “popolo corso”, in nome dell’indivisibilità del popolo francese. All’opposto, il mutilculturalismo riconosce i gruppi intermedi e la relativa autoregolamentazione, alimentando, dunque, un aperto
contrasto.
La dibattuta quaestio del velo proibito si erge, così, ad emblema dell’incontro-scontro tra valori propri dell’ordinamento francese, fondato sul risalente principio di laicità dello Stato e la cultura islamica saldamente ancorata al credo religioso, che aspira all’integrazione nel tessuto europeo. E’ un conflitto tra valori in gioco, che la pronuncia della Corte Costituzionale del 7 ottobre 2010 risolve in favore del principio di laicità, ponendosi in netto contrasto con un’ Europa che dichiara come valori fondanti il pluralismo, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la non discriminazione.