Argomenti comparativi e giurisprudenza Cedu: il ruolo della Commissione di Venezia in materia di diritto elettorale

Lo scorso 5 giugno 2010, nello storico complesso edilizio della Scuola di San Giovanni Evangelista della città di Venezia, ha avuto luogo la commemorazione del XX anniversario della Commissione Europea per la Democrazia attraverso il Diritto, meglio conosciuta come Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa. L’anniversario offre l’opportunità di sviluppare una riflessione sul ruolo che il diritto costituzionale comparato, grazie all’incessante ed esperta produzione di pregiati strumenti giuridici di soft law (le celebri “opinions”) da parte della Commissione di Venezia (cui vanno aggiunti i meno formali ma sempre rigorosissimi “studies”), gioca oggi nel panorama interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il Giudice di Strasburgo, è critica nota, viene spesso accusato di eccessivo distacco dai circuiti reali dell’ordinamento senza Stato in cui produce la sua giurisprudenza, la quale, conseguentemente, appare irrimediabilmente condannata ad un perenne movimento casistico. Ebbene, la Commissione di Venezia ed altri organismi del Consiglio d’Europa (a titolo non esaustivo si possono ricordare l’Assemblea parlamentare, il Congresso dei poteri locali e regionali, ed il Centro di Prevenzione della Tortura), attraverso i summenzionati strumenti di soft law (raccomandazioni, risoluzioni, opinioni e così via), svolgono una preziosa opera di mediazione fra testo (convenzionale) e contesto (storico, politico e sociale) di riferimento – da questo punto di vista, benché la loro azione non dia luogo alla elaborazione di atti giuridici altrettanto formalizzati, è bene ricordare anche il ruolo cruciale che viene quotidianamente svolto (“sul campo”) dai Bureaux extérieurs del Consiglio d’Europa, istantanei misuratori della democraticità delle Istituzioni nei Paesi di riferimento delle attività dell’OI.

Fra le molteplici riflessioni che si potrebbero proporre per avvalorare la suddetta affermazione, il veicolo di analisi più prezioso sembra proprio l’esplicita indagine sull’attività di ausilio che, in (diretta) qualità di Amicus Curiae o attraverso il sostegno (indiretto) dei suoi modelli comparati, la Commissione di Venezia fornisce alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo nello sviluppo della sua giurisprudenza. Si tratta di una collaborazione estremamente vasta, estesa a tutti i settori di intervento delle due istituzioni.
Prendiamo il caso dell’articolo 3 del I protocollo addizionale alla Convenzione CEDU, sul diritto a libere elezioni. Quest’ultimo, infatti, in virtù della (per certi aspetti) acerba foggiatura interpretativa cui è stato sottoposto e della “politicità” della sua formulazione, è, nel complesso delle norme convenzionali, uno di quegli articoli in cui la giurisprudenza della Corte appare più proficuamente foriera di sviluppi ricettivi di soluzioni soft law.
Il diritto elettorale, se non attributo proprio della sovranità (come nel caso della politica estera, ad esempio), è stato tuttavia (storicamente) considerato dagli Stati come una tipica questione di domestic jurisdiction. Le ragioni di tale attitudine sono evidenti e si collegano alla inevitabile politicità delle scelte di selezione dei propri Rappresentanti nelle odierne democrazie.
Anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, è stata vittima di questa lettura statocentrica. Tant’è che nella formulazione originaria della stessa Convenzione del 1950 non vi era traccia di forme di protezione del diritto elettorale e gli Stati firmatari preferirono prendersi un paio d’anni di riflessione per arrivare ad una soluzione, peraltro al ribasso, con il primo protocollo addizionale del 1952. La soluzione – “modesta” appunto – che ne uscì non azionava alcuna forma di diritto elettorale in capo agli individui, ma si limitava ad istituire un generico “diritto a libere elezioni”.
Sarebbe spettato alla Corte, per mezzo della sua giurisprudenza, determinare i contenuti normativi della disposizione convenzionale in oggetto. Questa, in Mathieu-Mohin and Clerfayt vs Belgium del 2 Marzo 1987, partendo dal diritto a libere elezioni, avrebbe ricavato ad esempio il “diritto di voto” ed il “diritto di candidarsi alle elezioni” che, come noto, vanno appunto sotto la definizione di, rispettivamente, diritto elettorale “attivo” e “passivo”.
Ad ogni modo, per l’art. 3 I protocollo, così come per l’intero complesso convenzionale EDU, i regime changes che seguirono al collasso dell’impero sovietico, con i loro deficit democratici, comportarono una forte riflessione attorno ai tradizionali percorsi interpretativi del Giudice di Strasburgo. Nel caso che stiamo analizzando, sarebbe stato possibile continuare ad accordare la possibilità di limitazioni all’art. 3 I protocollo in presenza di assetti statali che presentavano vistose storture in rapporto al patrimonio del diritto elettorale europeo? Alcune tematiche (la composizione delle Commissioni elettorali, l’accessibilità ai media e agli altri mezzi di informazione di massa, il ritaglio delle circoscrizioni elettorali in contesti altamente problematici per ciò che attiene la tutela delle minoranze nazionali, la configurazione stessa dei sistemi elettorali specie su questioni spinose come le soglie di sbarramento alla ripartizione dei seggi e così via), di già problematica definizione nei contesti a democrazia consolidata, sfioravano improvvisamente l’ingestibilità, se riferiti ai nuovi spazi di transizione costituzionale.
Per sottrarsi all’impatto frontale con la politicità dei nodi più controversi, la Corte ricorse (si potrebbe dire, da questo momento, massicciamente) ad interpretazioni fortemente valorizzatrici del contesto storico e sociale che, nella maggior parte dei casi, investono ciò che la politologia contemporanea sintetizza con il concetto di transizione costituzionale. In pratica, assieme ed al di là dei casi di intrinseca irragionevolezza sistemica degli atti delle autorità statali limitative dei diritti dei ricorrenti (qualora questi non comportino un’immediata contraddizione con le norme della Convenzione), il principio accolto fu quello per cui la democraticità delle istituzioni si atteggia o a parametro di valorizzazione del contesto o a vero e proprio thema decidendum del contenzioso, stabilendosi, di volta in volta ed in entrambi i casi, che una determinata restrizione al diritto elettorale è giustificata se disposta per il mantenimento della stessa democraticità delle istituzioni. È, questa, peraltro, una posizione che ritengo ampiamente (se non prevalentemente) operante non solo in relazione al diritto a libere elezioni ma anche ad altre cruciali disposizioni convenzionali che, direttamente o indirettamente, incidono sui passaggi più delicati dei processi di democratizzazione della scala d’azione geopolitica del Consiglio d’Europa (è il caso dell’art. 6 sul diritto a un equo processo, degli artt. 8-11 sulle libertà civili, dell’art. 1 I protocollo sulla protezione della proprietà e così via).
Nel citato Mathieu-Mohin del Marzo ’87, la Corte si era, ad esempio, trattenuta dal valutare la compatibilità di un sistema elettorale in quanto tale con il disposto dell’articolo 3 I protocollo affermando che «no electoral system can eliminate wasted votes». L’argomento è particolarmente delicato in riferimento alla valutazione della compatibilità delle soglie di sbarramento dei sistemi proporzionali col diritto a libere elezioni; ma, anche su questo punto, fedele all’impostazione richiamata, a partire dal famoso pronunciamento Federación Nacionalista Canaria c. Spagna del 7 giugno 2001, la Corte ha puntualmente dichiarato inammissibili i ricorsi che implicassero appunto un giudizio sulla sostenibilità delle soglie di sbarramento.
Tuttavia, il problema della sostenibilità delle soglie di sbarramento, benché particolarmente legato alla richiamata tradizione di domestic jurisdiction degli Stati, se lasciato privo di supervisione europea, rischiava di produrre risultati ampiamente distorsivi della «free expression of the opinion of the people», specie in relazione a quei Paesi che ospitano minoranze nazionali concentrate in specifiche parti del territorio dello Stato. Un caso da manuale, in questo senso è il recente Yumak e Sadak c. Turchia del 30 gennaio 2007.
I ricorrenti erano due cittadini turchi che avevano concorso alle elezioni politiche del 3 novembre 2002 nelle fila del Partito Dehap; pur avendo ottenuto, con il loro partito, ben il 45% dei voti nella Provincia di Şırnak, i due erano rimasti esclusi dall’accesso alla rappresentanza parlamentare in ragione della clausola di sbarramento prevista dall’art. 33 della legge elettorale nazionale, in forza della quale possono partecipare alla ripartizione dei seggi solo quelle liste che abbiano raggiunto almeno il 10% dei voti validi espressi su tutto il territorio nazionale. Sorprendentemente, benché la soglia del 10% dei voti espressi costituisse la più alta prevista nelle legislazioni vigenti in tutti i Paesi aderenti al Consiglio d’Europa, e benché la Corte stessa, nell’occasione, rivolgesse alla Turchia il monito ad individuare strategie alternative di contenimento della frammentazione partitica, la Corte non accolse il ricorso, optando per una di quelle letture fortemente valorizzatrici del contesto transizionale cui si accennava prima. In sostanza, l’interesse di garantire la stabilità delle istituzioni in un sistema partitico ad alto tasso di schizofrenia politica (si pensi al costante ricorso alle procedure di scioglimento dei partiti), prevalse sulle valutazioni (formalistiche) relative alla tutela (astratta) del diritto elettorale (passivo) dei ricorrenti.
Il caso ci interessa proprio perché, nella circostanza specifica, la Corte decise di ignorare le raccomandazioni dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE) la quale, attraverso una serie di risoluzioni, ossia degli atti tipici di soft law, ingiungeva alla Turchia di abbassare le proprie soglie di sbarramento interne in materia elettorale e concludeva che: «in well-established democracies, there should be no thresholds higher than 3% during the parliamentary elections» (Risoluzione PACE 1547(2007), State of human rigths and democracy in Europe, § 8).
Ancor più di recente, in Georgian Labour Party contro Georgia dell’8 luglio 2008, la Corte ha nuovamente fatto ampio ricorso al diritto costituzionale comparato giudicando, inter alia, la conformità del metodo di composizione della Commissione elettorale in Georgia. Nel caso specifico, i ricorrenti lamentavano che detta composizione, prevedendo la nomina di 6 dei suoi 15 membri da parte del Presidente (con la presenza di altri due membri di provenienza del partito presidenziale), mettesse la Commissione sotto il controllo sproporzionato di quest’ultimo. La Corte respinse il ricorso sostenendo che: «the applicant party did not submit any evidence that the presidential majority in the electoral commissions had misappropriated the votes cast in its favour or otherwise limited its rights and legitimate interests during the repeat parliamentary election». Tuttavia, Essa, facendo appunto uso del metodo comparativo, avvertì la necessità di criticare la modalità di composizione delle Commissioni elettorali in Georgia. Più nello specifico, la Corte richiamò il celebre Codice di Buona Condotta in materia elettorale della Commissione di Venezia per denunciare il rischio di interferenza governativa nella questione oggetto del contenzioso.
È anche capitato che la Corte, motu proprio, abbia richiesto alla Commissione di Venezia di preparare un’apposita opinione su di un determinato tema. Nel caso specifico – il riferimento è a Parti Nationaliste Basque c. Francia del 7 giugno 2007 – si trattava di un altro tema molto sensibile in materia elettorale, quello del finanziamento estero ai partiti politici. La Corte, nel suo giudizio, seguì l’approccio della Commissione e stabilì che la norma che vietava il finanziamento dei partiti politici da parte di persone giuridiche straniere non poteva considerarsi, di per sé, contraria alle disposizioni convenzionali.
L’ultimo esempio che ricordo è quello dell’ancor più recente Tănase e Chirtoacă c Moldova del 18 novembre 2008. Anche qui, la Corte si servì del Codice di buona condotta in materia elettorale per stabilire che la privazione del diritto elettorale passivo alle elezioni parlamentari per quei cittadini in possesso di una doppia nazionalità fosse incompatibile con gli obblighi derivanti dall’art. 3 I protocollo.
Da questa pur breve rassegna si può già dedurre il rilievo che i pareri e gli studi comparatistici della Commissione di Venezia hanno ormai assunto nell’azione interpretativa della Corte di Strasburgo. L’autorevolezza giuridica dei Membri della Commissione e dei componenti del suo Segretariato, l’indipendenza e la non politicità degli stessi, nonché la duttilità dei suoi atti di soft law (rinvenibile, per esempio, nel suo evitare risposte secche, “sì” o “no”, in ossequio al metodo del diritto costituzionale comparato che impone lo studio attento di tutte le sfumature e le variabili del diritto), fanno della Commissione di Venezia, anche nel campo della collaborazione con le Corti europee, uno dei capisaldi giuridici della contemporaneità. Tanto che, proprio nel caso dell’articolo 3 I protocollo, Serguei Golubok vede ormai in azione due livelli di protezione: il nocciolo duro dei diritti (attivi e passivi) elettorali di cui il Giudice di Strasburgo è attento custode ed un livello sovrastrutturale composto da una serie di tematiche che, per la loro sensibilità (basti pensare alla configurazione stessa dei sistemi elettorali), meglio si prestano ad essere valutate con il ricorso a duttili strumenti giuridici quali gli atti di soft law fra cui, come attestato nel corso di questo commento, per quantità e qualità degli argomenti comparativi presenti, spiccano quelli prodotti dalla Commissione di Venezia).

Alessio Pecorario, componente del Segretariato della Commissione di Venezia

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