La retorica dei diritti e l’impoverimento del discorso politico. Il caso del Giappone
Quando uno statunitense si ferma a riflettere su un problema che affligge la sua comunità, è piuttosto facile che tenda a concepirlo nei termini di un diritto da rivendicare in sede politica o da invocare davanti ad una corte. Nel suo caso, si tratta di un metodo dialettico ed argomentativo accessibile, familiare, con il quale la cultura americana tutta dimostra una provata familiarità, forse anche grazie all’epopea del movimento di liberazione per i diritti civili che, stagliandosi come la più fiera conquista del Novecento con la quale gli Stati Uniti hanno raggiunto il novero di nazioni civili da cui la segregazione li divideva, ha tracciato il solco retorico e politico per ogni altra rivendicazione sociale.
L’approccio secondo cui ogni esigenza o problema della società debba essere promosso nei termini di un diritto da reclamare ha la sua convenienza anche solo guardando alla mera strategia comunicativa: un’agenda politica attrae decisamente più attenzione ed intercetta più facilmente militanze a suo favore se imbastita con i termini di un diritto invocato e finora disatteso, forte di quell’autorevolezza morale (oltre che giuridica) che la pretesa di un diritto porta con sé nell’immaginario pubblico. La facilità di presa e di circolazione del messaggio, tuttavia, corre il rischio di semplificare i piani che si intersecano nella trama di un’istanza sociale, e la retorica dei diritti finisce così per impoverire il discorso politico anziché agevolarlo, lasciando senza voce e sullo sfondo tutti quei significati e quelle implicazioni che la formula di un diritto preteso non riesce a veicolare. Mary Ann Glendon, tra gli altri, ne ha fatto il tema del suo Rights Talk. The Impoverishment of Political Discourse, con abbondanza di esempi tratti dall’esperienza d’oltreoceano degli ultimi decenni.
Che il modello americano si profili come il paradigma di confronto (e spesso di emulazione) dell’intero Occidente non torna nuovo (anche se con tutte le considerazioni critiche del caso). Più interessante si fa constatare quanto questo modello si spinga al di là dei confini del nostro mondo, verso latitudini geografiche e culturali molto distanti da Washington e anche dalla vecchia Europa. Il caso del Giappone diventa, in quest’ottica, molto indicativo.
Stiamo parlando di una società – e di una cultura giuridica – del tutto estranea al concetto dei diritti, nella quale le controversie sono di norma gentilmente (o quantomeno silenziosamente) risolte all’interno di relazioni informali e personali. Per i giapponesi, dare ad un proprio interesse la forma di un diritto è inappropriato perché, promuovendo i bisogni individuali, si ignorano le norme che reggono la comunità nella sua interezza. È anche inefficace, come modalità di perseguimento delle proprie istanze, perché le pretese formulate in termini di diritti sono volutamente trascurate dalle corti. Quando un giapponese avverte di esser vittima di una frode, di un raggiro, o di aver subito una violazione indebita dei suoi legittimi interessi, è estremamente improbabile che si faccia avanti a reclamare ciò che ingiustamente gli è stato distratto. Piuttosto preferisce cambiare argomento, o sottrarsi al confronto con molta maniera. Insomma, la larga parte dei giapponesi non guarda al mondo attraverso il prisma dei diritti legalmente tutelabili, tanto che chi vive in mezzo a loro sa quanto raramente ricorra l’impiego della parola «kenri», per l’appunto «diritto» (anche se la cultura giapponese, sin dai primi tentativi degli intellettuali dell’epoca Meiji, non è mai riuscita ad inglobare propriamente in un’unica traduzione il «diritto» individuale – per incapacità e, forse, per indisponibilità).
Ciò non vuol dire che un giapponese non conosca i suoi diritti e non sia in grado di difenderli: è solo che la rivendicazione di un diritto soggettivo non gli pare un mezzo accettabile per una discussione uno ad uno: non è mai conveniente impostare un discorso in termini di invocazione di un diritto perché la controparte comincerà ad arroccarsi e le possibilità di addivenire ad un accordo vantaggioso ad assottigliarsi.
Dagli anni Sessanta, però, ed in reazione alla letteratura che tratteggiava la cultura giuridica giapponese come sempre consensuale, armoniosa e gerarchica, sono nati studi verso i cosiddetti «nuovi diritti», correlati, cioè, all’ambiente, al pagamento delle tasse, all’integrità del corpo, e accomunati dal fatto di essere rivendicati da movimenti sociali organizzati intorno ad un interesse proprio ed invocati a dispetto degli ostacoli di ordine economico, politico, giuridico o morale. Questi nuovi diritti sono anche giustiziabili. E uno di questi, in particolare, fa perno intorno al tema dei diritti dei pazienti.
Anche se in Giappone esiste un sistema abbastanza equo di assistenza sanitaria pubblica, nella cultura medica conformata al paternalismo tradizionale manca ancora l’idea che i pazienti debbano essere coinvolti nel decidere un certo percorso di cura (per dare un riferimento circa il tradizionalismo conservatore della classe medica nipponica, basti ricordare che il Giappone è stato l’ultimo dei Paesi industrializzati ad accettare la definizione di morte cerebrale come introdotta dal Comitato ad hoc della Harvard Medical School nel 1968). E la cultura giuridica non aiuta, poiché la penuria di avvocati, attivisti, associazioni pronti a patrocinare gli interessi dei pazienti impedisce di far giustizia di un trattamento imposto dall’alto senza il consenso informato di chi ne è il destinatario. Così, il paziente giapponese medio non avrebbe diritto ad accedere alla sua cartella clinica. I tentativi di promuovere una legge a tutela dei diritti dei pazienti data al 1984 ed è stato un percorso molto discusso. Ma, anche se in Giappone l’avvento di un diritto come quello dell’inviolabilità del corpo e del consenso informato finirebbe per riservare un ruolo dominante alle decisioni della famiglia invece che dell’individuo autonomo, in ossequio alla tradizione della responsabilità familiare che poco accoglie il principio di auto-determinazione personale, si tratta di uno dei primi esempi di penetrazione della cultura dei diritti nella realtà giuridica nipponica. Si vedrà se, come negli Stati Uniti e in molta parte dell’Occidente, la tutela della salute pubblica di competenza dello Stato possa farsi preferibilmente materia di rivendicazioni individuali in termini di diritti e meno di politiche pubbliche, con i rischi di impoverimento del dibattito che taluna critica ha stigmatizzato.