La cittadinanza fra tradizione e progetto giuridico
Quando si affronta lo studio del concetto giuridico di cittadinanza, l’impressione che se ne ricava è che, da alcuni decenni a questa parte, la dottrina mano a mano che si approfondisce il discorso, si mostri progressivamente sempre più «disorientata» e, in certo modo, a disagio nel tentativo di ricondurre e circoscrivere la riflessione negli angusti limiti tracciati dalla tradizione giuridica. Sembra, insomma, che il concetto di cittadinanza, in senso “tecnico“, quale si è consolidato tra Otto e Novecento, come l’appartenenza di un individuo ad un determinato gruppo sociale costituito nella forma politica Stato, attraversi una crisi di progressiva “perdita di identità”, a fronte della quale si è aperta, da parte della scienza giuspubblicistica, una fase di laborioso ripensamento.
Le cause di tutto questo sono molteplici: in primo luogo, a partire almeno dal secondo dopoguerra, della cittadinanza si sono “appropriate” anche altre discipline, diverse, ancorché connesse, alla scienza del diritto, le quali, in tal modo, hanno rotto quella sorta di “monopolio” consolidato su tale concetto da parte dei giuristi. Naturalmente, ciascuna di queste differenti branchie delle scienze sociali utilizza il concetto di cittadinanza in accezioni sensibilmente diverse, trasfondendovi le proprie specificità e, di conseguenza, l’uso che esse ne fanno non si sovrappone né, tanto meno, si sostituisce a quello proprio della scienza del diritto; tuttavia, l’”esplosione“ del campo semantico di questo termine, la moltiplicazione dei significati che l’uso comune ad esso attribuisce, contribuiscono a rendere il concetto di cittadinanza assai ambiguo. E questo non è privo di conseguenze anche sulla riflessione tecnico-giuridica, soprattutto a fronte della sempre più evidente (e per molti versi salutare) affermazione di metodologie di ricerca basate su approcci interdisciplinari o comunque aperte a temperare il rigido formalismo giuridico attraverso gli apporti delle discipline più prossime.
Così, accanto al tradizionale concetto giuridico di cittadinanza – inteso ad indicare la condizione di appartenenza di un soggetto ad un determinato Stato, da cui discende, come luogo di imputazione del fascio di rapporti originali e stabili tra il singolo e la collettività a cui appartiene, una serie di diritti e di doveri (definita cittadinanza-appartenenza) – è possibile enucleare una nozione sociologica e politologica di cittadinanza, elaborata a partire da una celebre opera di T.H. Marshall del 1949 (Citizenship and social class in Citizenship and social class and other essays, Cambridge, CUP, 1950), intesa, invece, a chiarire cosa faccia di un cittadino un membro a pieno titolo della sua comunità (definita, per distinguerla dall’altra, cittadinanza-partecipazione). Quest’ultima nozione, con tutta evidenza, lasciando sullo sfondo il formale rapporto d’appartenenza cittadino-Stato, si collega alle concrete tematiche dell’effettività del godimento dei diritti e del materiale inserimento sociale dell’individuo.
Non solo: a ben vedere, infatti, il termine cittadinanza può ricollegarsi almeno ad un terzo ambito semantico, laddove sia usato, in accezione eminentemente storico-filosofica, ad indicare lo statuto della persona umana di fronte all’autorità. In quest’ultimo caso, la cittadinanza è utilizzata per descrivere il peculiare modo in cui una determinata società ha impostato e risolto il problema del rapporto tra l’individuo e l’autorità (P. Costa, Cittadinanza, Roma-Bari, Laterza, 2005, 4). Sotto questo ulteriore profilo, il tema dell’appartenenza sfuma, al punto che, in definitiva, l’individuo è preso in considerazione indipendentemente, se non addirittura in antitesi, al formale collegamento alla forma politica che assume il gruppo sociale.
In secondo luogo, e soprattutto, al di là delle eventuali “contaminazioni” interdisciplinari, è lo stesso concetto giuridico di cittadinanza che mostra, attualmente, lacerazioni che sono difficilmente riducibili.
Il concetto giuridico di cittadinanza è venuto formandosi nello specifico contesto giuridico-culturale di fine Ottocento, inizio Novecento, nel quale dominano, come due facce della stessa medaglia, da un lato la concezione hegeliana dello Stato etico e, dall’altro, la concezione statalistica del diritto, le quali saldano i concetti di individuo, popolo (o nazione, termine più “ottocentesco”), Stato e diritto in un continuum discorsivo, nel quale il riconoscimento dei diritti (e dei doveri) in capo al soggetto è necessariamente mediato dall’appartenenza statale. Non sfugge che in questo quadro il cittadino rilevi principalmente come oggetto della sovranità statale e che la cittadinanza stessa, come funzione dei concetti di Stato e di sovranità, svolga un ruolo meramente ancillare. Ma, nel mutato contesto sociale e costituzionale, sono proprio questi ultimi concetti – Stato, sovranità, nazione – che sono entrati in crisi, erosi tanto a livello interno che internazionale dal riemergere della società civile e dall’affermazione di istituzioni sopranazionali: divenuto anacronistico il modello di rapporto società-Stato sottostante, necessariamente risulterà inadeguato, o comunque solo parziale, anche quel concetto di cittadinanza.
Così si può assistere ad un processo che, anche a livello giuridico, ha portato a caricare il concetto di cittadinanza (originariamente neutro, cfr. E. Grosso, Le vie della cittadinanza. Le grandi radici, i modelli storici di riferimento, Padova, CEDAM, 1997, 8 ss.), di significati e di aspettative che nel modello tradizionale non erano affatto presenti o, comunque, non erano qualificanti. In primo luogo, laddove nel modello ottocentesco la cittadinanza non era assolutamente condizione sufficiente per il godimento dei diritti politici, in seguito alle definitiva affermazione dei valori della liberal-democrazia, essa acquista una componete politico-partecipativa che, oggi, qualsiasi costituzione occidentale (e non solo) considera come nucleo irrinunciabile di essa. Sotto questo profilo, ricollegandosi per altro al significato più antico del termine (cfr. P. Magrette, La citoyenneté. Une histoire de l’idée de participation civique, Bruxelles, Bruylant, 2001), si può, dunque, affermare che la cittadinanza, sulla scorta delle costituzioni contemporanee, possa essere pensata anche come la sfera della partecipazione politica alla cosa comune.
In secondo luogo, il concetto di cittadinanza, a partire dal secondo dopoguerra, si riappropria di quella vocazione filosofica egualitaria in senso forte che ne aveva segnato la nascita: nella concezione rivoluzionaria di fine settecento, infatti, la cittadinanza, e il principio di eguaglianza (ancorché formale) ad essa legato, sono espressione di un progetto rivolto al raggiungimento di un obiettivo sostanziale, che si esprime, in termini privatistici, nel passaggio dagli status al contratto (secondo la nota formula di Sir H.S. Maine, Ancient Law, London, 1861), nella “liberazione” della volontà come criterio egualitario – ovviamente in un’ottica strettamente borghese – di regolazione delle relazioni intersoggettive. Il concetto di cittadinanza, oltre ad avere, almeno per una parte significativa del movimento rivoluzionario, una forte connotazione politica, in questa fase è il principale strumento per eliminare le ”frontiere interne“, i confini costruiti dai privilegi e dalle immunità dell’antico regime, e far coincidere lo spazio della legge con il territorio dello Stato (nelle parole di G. Lombardi, Spazio e frontiera tra eguaglianza e privilegio: problemi costituzionali fra storia e diritto, in Diritto e Società, 1985, 52 ss.).
Nel corso dell’Ottocento, raggiunto l’obiettivo, la profonda tensione che ha accompagnato l’evoluzione della società in senso liberale, di cui la cittadinanza è strumento imprescindibile, scema e la dottrina giuspubblicistica, nella fase di costruzione della propria specificità scientifica, ha buon gioco nel relegare questa vocazione nell’etereo campo dei principi filosofici e politici (è sufficiente rinviare alle pagine introduttive di V.E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, Firenze, Barbera Ed., 1921): così, la cittadinanza e lo stesso principio di eguaglianza, persa la loro statura progettuale, si riducono ad essere intesi, in termini meramente formali e neutri, l’una come elemento personale dello Stato e l’altra come pari sottoposizione alla legge dei cittadini, quasi corrispondesse, ancora una volta, a mero àmbito personale di validità della forma suprema di espressione della volontà dello Stato, la legge.
Dopo la parentesi della forma di Stato liberale, tuttavia, la cittadinanza torna a riproporsi, anche in ambito giuridico, come un progetto di eguaglianza, oggi rinvigorita e rafforzata da una inedita componente anche sostanziale: essa ridiventa, con le costituzioni del secondo dopoguerra, lo strumento di costruzione (non importa, a questo punto, l’esito) di una sfera partecipativa, non tanto politica, quanto economica e sociale, perseguita attraverso l’effettività del godimento dei diritti. Per illustrare questo aspetto, è, forse, sufficiente una considerazione che mostra come il discorso della cittadinanza, in un certo senso, finisca col trascendere il mero aspetto della titolarità dei diritti: infatti, laddove nell’art. 2 Cost. il soggetto al quale sono riconosciuti i diritti inviolabili è l’uomo, l’art. 3, invece, ha come soggetto, tanto nel primo quanto nel secondo comma, il cittadino. Da un lato, questa lettura è, in realtà, frutto di un preciso contesto ideologico e di una evoluzione della dottrina dello Stato e della costituzione che ha caratterizzato il decennio della rinascita democratica, che solo in parte sono stati trasfusi nello stesso testo costituzionale e che oggi sono, in gran parte, superati. Da un altro lato, la stessa consolidata interpretazione in chiave oggettiva del principio di eguaglianza da parte della Corte ha di molto depotenziato la formulazione testuale dell’art. 3, c. 1. Tuttavia questo non significa che tale modo di pensare la cittadinanza, come lo spazio progettuale del «pieno sviluppo della persona umana e [del]l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», non eserciti una suggestione (magari residua o aggiornata all’attuale contesto socio-economico) ancora oggi.
Proprio in questa progressiva espansione del campo semantico della cittadinanza si annidano le ragioni profonde della difficoltà che oggi il giurista incontra nel definire questo “oggetto”. Infatti, il concetto, non più neutro, ma carico di significati così forti e pregnanti, finisce col mostrare una sorta di “doppia personalità”: da un lato, sotto il profilo soggettivo conserva la tradizionale funzione esclusiva della cittadinanza-appartenenza, quella di distinguere preliminarmente chi è dentro da chi è fuori, chi fa parte della comunità da chi ne è escluso; ma dall’altro lato, sotto il profilo del suo contenuto, mostra una innegabile vocazione egualitaria ed espansiva della sfera dei diritti, una tendenza diretta alla costruzione di uno spazio giuridico di uguaglianza, anche sostanziale.
Sebbene incidano su aspetti differenti (lo si ripete: uno sul profilo soggettivo, cioè il “chi”, e l’altro sul profilo oggettivo, cioè il “che cosa”), tuttavia queste due “personalità” si pongono in latente antinomia. E questa latente antinomia è venuta palesandosi proprio negli ultimi decenni, nel momento in cui ingenti fenomeni migratori hanno determinato un contesto sociale nel quale, sul territorio dei singoli Stati, risiedono stabilmente, accanto ai cittadini, non trascurabili masse di non-cittadini. Dal momento che questi ultimi non sono, ovviamente, assimilabili ai primi nel loro rapporto con l’ordinamento statale, la cittadinanza, lungi dal creare, secondo l’idea sottesa ad un certo modo di concepirla, uno spazio giuridico egualitario, contribuisce essa stessa a determinare, condannando una parte ormai rilevante di popolazione a godere in modo sensibilmente ridotto dei diritti individuali (non solo politici, ma anche sociali e, talvolta, civili), nuove metaforiche frontiere interne, rappresentate da divisioni, differenze e privilegi.
La constatazione di questo stato di cose ed il senso di disagio e di ripugnanza che (almeno inconsciamente) provoca sono alla base del progressivo allontanamento dall’idea che la cittadinanza-appartenenza costituisca criterio generale di collegamento tra gli individui ed i diritti. Allontanamento che (anticipato, in qualche modo, dalla formulazione dell’art. 2 della nostra Costituzione) è percepibile, in via “pratica”, nella giurisprudenza ormai costante della Corte costituzionale e, in via dogmatica, in diverse elaborazioni dottrinali.
Per quanto attiene il primo profilo, a partire dalle storiche sentenze 15.11.1967, n. 120, e 19.6.1969, n. 104, la Corte ha adottato uno schema di giudizio, attraverso il combinato disposto dell’art. 3, c. 1, con gli art. 2 e 10, c. 2, Cost., che ha favorito una progressiva estensione delle posizioni giuridiche soggettive riconosciute allo straniero, fino a ricomprendere anche diritti la cui testuale formulazione avrebbe fatto intendere riservati ai cittadini (ad esempio, art. 17 e 18).
Sotto il secondo aspetto, invece, il termine cittadinanza è spesso utilizzato in formule composte – come “cittadinanza amministrativa” o “cittadinanza sociale” – nelle quali l’aggettivo ha la funzione di relativizzare ed ampliare, sotto profili più o meno ampi, il significato del sostantivo: tra queste dottrine, la più notevole, almeno sotto il profilo costituzionalistico, è quella – ormai non più recentissima, ma che ha avuto qualche seguito – che ha tentato di ricondurre ad unità il discorso sui diritti, tanto del cittadino che del non-cittadino nel nostro ordinamento, enucleando una nozione di cittadinanza costituzionale, il cui soggetto non è il cittadino, bensì l’uomo (M. Cuniberti, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e del cittadino nella Costituzione italiana, Padova, CEDAM, 1997). Assunto, dunque, che la Costituzione riconosce i diritti sempre in capo a chiunque, allora la cittadinanza legale e la mera condizione umana (soggettività, se si preferisce) costituirebbero semplicemente dei fattori che concorrono, in concreto, a determinare differenti livelli di garanzia dei singoli diritti in capo alle diverse categorie di soggetti, a loro volta valutabili in termini di ragionevolezza dalla Corte.
Non può sfuggire (ma lo sottolinea lo stesso Autore) che questa cittadinanza costituzionale si presenti come cosa “altra” rispetto alla cittadinanza legale, avvicinandosi molto, si dovrebbe aggiungere, al terzo modo di pensare questo concetto di cui si è detto in apertura, quello storico-filosofico. Può stupire, semmai, che si voglia utilizzare il termine “cittadinanza” in modo così evidentemente (e coscientemente) atecnico: ma anche questo, in realtà, può apparire coerente, se non con la stretta tradizione giuridica, con una delle “anime” che caratterizzano questo concetto, quella egualitaria.
Se quanto detto è vero, è certo che il concetto di cittadinanza così caricato di significati, di fatto, rischia di essere sostanzialmente svuotato di ogni contenuto, tanto da poter apparire addirittura inutile (coerentemente, su questa linea di pensiero, L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti dell’uomo, in D. Zolo, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, 266 ss., auspica l’abolizione della cittadinanza-appartenenza). Anche senza arrivare a conclusioni così perentorie, sembra, tuttavia, evidente che anche a livello di diritto pubblico si stia consolidando il costume di utilizzare il termine cittadinanza in un “doppio” significato, uno “stretto” – cittadinanza come appartenenza allo Stato – ed uno “lato” – cittadinanza (qualificata sociale o amministrativa o, nella sua forma più ampia, costituzionale) come statuto del soggetto (cittadino e non) che in qualunque modo entri in contatto con il nostro ordinamento –, e che molti dei contenuti una volta attribuiti al primo stiano scivolando nel secondo.
Non è altrettanto certo, al contrario, che l’esito di questo processo di ridimensionamento del concetto tradizionale corrisponda ad un suo totale svuotamento, ad una sua totale eclissi, dal momento che, a ben vedere, ancora oggi esso sembra conservare una propria specifica e fondamentale sfera nell’economia del diritto pubblico. Laddove, infatti, può apparire non solo possibile, ma anche auspicabile, “graduare”, sulla base di un insieme di concreti e materiali collegamenti familiari, sociali ed economici, la titolarità dei diritti civili e, almeno in parte, sociali attraverso il collegamento alla semplice residenza, lo stesso schema non sembra adattabile, almeno allo stato attuale, in relazione ai diritti politici. La titolarità soggettiva di questi ultimi, infatti, sembra, sulla base della lettura congiunta degli art. 1, 48 e 67 della Costituzione, inscindibilmente collegata a quel rapporto originario e stabile che lega l’individuo alla collettività di appartenenza, la cittadinanza formale, quale misura astratta dell’interesse alla rappresentanza generale politica (su questo profilo si perdoni il rinvio a C. Lucioni, Cittadinanza e diritti politici. Studio storico-comparatistico sui confini della comunità politica, Roma, Aracne, 2008).
In conclusione, a chiusura di un cerchio che ha coperto la storia delle istituzioni politiche occidentali lungo duemilacinquecento anni, sembra che il concetto di cittadinanza, inteso come rapporto tra l’individuo e la collettività, dopo essere stato dimenticato, riscoperto, trasfigurato, ritorni alle sue origini, come eminente strumento di costruzione della comunità politica, non più, ovviamente, nell’ottica del repubblicanesimo antico o moderno, ma in una nuova prospettiva eminentemente liberal-democratica.