Non è un’Unione per principi. Il caso Sayn-Wittgenstein

Una legge costituzionale sull’eguaglianza formale giustifica la limitazione del diritto alla libera circolazione. Questo il responso che ha dato la Corte di Giustizia nell’affaire “Sayn-Wittgenstein” (C-208/09), deciso il 22 dicembre 2010.
I fatti, in breve. La ricorrente nel giudizio principale è un’austriaca, adottata da un cittadino tedesco. Con un’ordinanza del 1992, il Kreisgericht Worbis tedesco ha dichiarato l’acquisto del nome “Ilonka Fürstin von Sayn Wittgenstein”, visto che l’adottante aveva come parte del cognome Fürst, ovvero “principe”. La signora ha portato da allora questo cognome con titolo nobiliare annesso e si è occupata di compravendite di castelli e manieri di lusso in Germania e altrove, mantenendo sempre la cittadinanza austriaca. Nel 2003 il Verfassungsgerichtshof, la Corte costituzionale d’Austria, in un caso molto simile a quello in esame, ha dichiarato che la legge relativa all’abolizione della nobiltà, degli ordini secolari di cavalieri e dame e di determinati titoli e dignità, una legge di rango costituzionale del 1919, impedisce ai cittadini della Repubblica di integrare titoli nobiliari nel proprio cognome come risultato dell’adozione da parte di un tedesco. Pertanto, lo stato civile austriaco ha proceduto a rettificare il cognome della ricorrente, che era stato modificato a seguito dell’adozione, in «Sayn Wittgenstein». Il ricorso contro questa rettifica è giunto sino alla Corte di giustizia amministrativa di Vienna. Il Verwaltungsgerichtshof ha quindi domandato alla Corte di Giustizia se l’art. 21 TFUE “osti ad una normativa in base alla quale le autorità competenti di uno Stato membro possono rifiutare di riconoscere un cognome – in quanto contenente un titolo nobiliare non ammesso in tale Stato (anche sotto il profilo giuridico costituzionale) – che sia stato attribuito in un altro Stato membro ad un figlio adottivo (adulto)”.

La Corte di Giustizia ha ritenuto sussistente una violazione della libertà di circolazione e di soggiorno della ricorrente. Questo perché in diritto tedesco il titolo nobiliare è considerato parte del cognome e quindi la rettifica andava a modificare il nome che era stato utilizzato per quindici anni e di cui vi era traccia in documenti pubblici e privati. La questione del giudice del rinvio riguardava esclusivamente l’art. 21 e la Corte non si è pertanto espressa riguardo all’art. 56 TFUE, astrattamente invocabile per via dell’attività economica svolta dalla sig.ra Sayn-Wittgenstein.
Il passaggio successivo ha però permesso di salvare il provvedimento amministrativo austriaco. La Corte ha infatti valutato che il limite dell’ordine pubblico potesse giustificare la limitazione della libertà comunitaria. Innanzitutto, la legge del 1919 mira a garantire l’eguaglianza formale tra tutti i cittadini e questo è un obiettivo compatibile con il diritto dell’Unione, tra l’altro sancito dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali. In secondo luogo, l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri (art. 4, n. 2, TUE), la quale comprende anche la forma repubblicana dello Stato. A questo proposito, si è dato risalto al ruolo che la legge sull’abolizione della nobiltà riveste nell’ordinamento costituzionale austriaco.

La Corte lussemburghese non ha dato peso al fatto che i sistemi di diritto internazionale privato dei due Stati coinvolti designassero entrambi come legge applicabile quella austriaca, in virtù della nazionalità della ricorrente. Così, sia l’ordinanza tedesca del 1992 sia la modifica dello stato civile austriaco si erano basati su un’erronea base giuridica. I giudici europei hanno considerato solamente il fatto che per quindici anni il cognome che compariva sul passaporto e altri documenti ufficiali fosse “Fürstin von Sayn Wittgenstein”. È dunque la lesione dei diritti acquisiti che fonda la violazione della libertà comunitaria di circolazione e soggiorno.
L’approvazione della misura nazionale potrà forse placare gli animi degli internazionalprivatisti, che non avevano accolto con favore la giurisprudenza precedente in materia. Nel 2003, con la sentenza Garcia Avello, la Corte di Giustizia aveva sanzionato la normativa belga di conflitto di leggi, rea di non permettere a una coppia ispano-belga di imporre al proprio figlio (con nazionalità e domicilio in Belgio) il doppio cognome secondo l’uso spagnolo. Nel 2008, il caso Grunkin e Paul aveva visto la censura della regolamentazione tedesca, che si rifiutava di registrare allo stato civile il doppio cognome iscritto in Danimarca per il proprio figlio da una coppia di tedeschi. In entrambi i casi, il diritto internazionale privato dello stato di nazionalità era risultato soccombente rispetto al diritto di circolare liberamente dei cittadini dell’Unione, dando fiato alle critiche della dottrina nei confronti del presunto neo-liberismo che spirerebbe da Bruxelles e dal Lussemburgo.