Kosovo: i conti con il passato e le prospettive per il futuro
Nel 2008 l’ex Procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, Carla Del Ponte, pubblicò il libro “La caccia. Io e i criminali di guerra”, dove, descrivendo le principali difficoltà incontrate nel corso del proprio mandato, l’autrice dedicò un intero capitolo alle indagini sul traffico di organi nei Balcani. Secondo l’ex Procuratore tale traffico fiorì nell’area alla fine degli anni ’90, frutto delle attività criminali cui erano dediti molti esponenti dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (di seguito ELK), impegnato allora nella guerra contro l’ex Jugoslavia. Le vittime del commercio di organi sarebbero stati i prigionieri di guerra, di etnia prevalentemente serba, detenuti presso un luogo noto come “la casa gialla” nella città di Rripe, in Albania (C. Del Ponte, La caccia. Io e i criminali di guerra, Milano, 2008). Tuttavia, le prove raccolte dal Procuratore non sfociarono in un procedimento giudiziario dinanzi al Tribunale per l’ex Jugoslavia, poiché, secondo Del Ponte, i vertici delle Nazioni Unite vi si opposero. È altresì quantomeno dubbio che il Tribunale avrebbe potuto procedere per fatti avvenuti in Albania, in quanto l’art. 8 del suo Statuto ne limita la giurisdizione al territorio dell’ex Jugoslavia.
In seguito alla pubblicazione del libro, la Commissione affari legali e diritti umani dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa decise di nominare uno Special rapporteur, lo svizzero Dick Marty, con il mandato di indagare sugli “inhuman treatment of people and illicit trafficking in human organs in Kosovo”. Il cd. “Rapporto Marty” (di seguito, semplicemente, “il Rapporto”), presentato alla Commissione lo scorso dicembre e discusso dall’Assemblea parlamentare il 25 gennaio, sta suscitando vivaci reazioni in seno alla comunità internazionale, poiché esso avvalora e fortifica i sospetti già avanzati nel libro “La caccia” (Consiglio d’Europa, Assemblea parlamentare, Commissione Affari Legali e Diritti Umani, Inhuman treatment of people and illicit trafficking in human organs in Kosovo, Rapporto del 12 dicembre 2010). Secondo Marty, infatti, molti leader dell’ELK – alleato de facto delle truppe NATO durante l’intervento militare di quest’ultima nel 1999 – intravedendo nella guerra un’opportunità di arricchimento personale, collaborarono con organizzazioni criminali, dedicandosi, fra l’altro, al traffico di organi. In particolare, lo Special rapporteur conferma che prigionieri serbi, nonché albanesi sospettati di collaborare con i serbi, furono detenuti dall’ELK presso la “casa gialla” di Rripe, dove vennero loro espiantati gli organi vitali. Tale traffico – proseguito, secondo il Rapporto, anche dopo la cessazione del conflitto – potrebbe spiegare, almeno in parte, l’elevato numero di persone scomparse nel periodo fra il 1999-2000 (più di 1.800 secondo la United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK), Office of Missing Persons and Forensics). Inoltre, Marty ritiene che il mercato nero non si sia arrestato con la fine della guerra, bensì sia proseguito a lungo nel corso degli anni, sino a ricollegarsi con le indagini recentemente condotte dalla Procura della missione dell’Unione europea in Kosovo (EULEX) nei confronti di alcuni medici e di un ex dirigente del Ministero della Salute kosovaro. Questi ultimi sono accusati di aver “acquistato” organi da persone indigenti nel 2008, al fine di rivenderli, ad un prezzo estremamente elevato, in altri Paesi (EULEX, Indictment in Medicus clinic case, comunicati stampa del 15 ottobre e del 12 novembre 2010. Il caso è noto come “Medicus case” dal nome della clinica di Pristina dove sarebbero avvenuti gli interventi di espianto degli organi).
Il Kosovo non è nuovo a sospetti in merito all’esistenza di un illecito commercio di organi: oltre al menzionato libro dell’ex Procuratore Del Ponte, varie inchieste giornalistiche si sono occupate della questione (V. ad es. bbc.co.uk/news/10166800). Lo stesso codice penale provvisorio del Kosovo, entrato in vigore nell’aprile 2004, fa espresso riferimento alla rimozione degli organi come forma di sfruttamento dell’individuo (art. 139 Cod. pen. provvisorio del Kosovo). Tuttavia, è solo con il Rapporto Marty che tali sospetti sono stati per la prima volta cristallizzati all’interno del documento di un’organizzazione internazionale, nel quale si giunge persino ad accusare l’ex leader dell’ ELK ed attuale Primo Ministro del Kosovo Hashim Taçi di aver avuto un ruolo di primo piano nella criminalità kosovara. Invero, secondo il Rapporto, alla fine degli anni ‘90 egli guidava il cd. “Drenica group”, composto dai massimi esponenti dell’ELK e molto vicino ad organizzazioni malavitose, fra cui la mafia albanese. Il Rapporto richiama anche documenti dell’intelligence di vari Paesi, in cui Taçi sarebbe identificato come “il più pericoloso fra i boss criminali del KLA”.
Naturalmente, le reazioni di Kosovo e Serbia alla pubblicazione del Rapporto non si sono fatte attendere. Il Governo del primo ha respinto fermamente le accuse come l’ennesimo tentativo, da parte di individui collusi con il Governo serbo, di ostacolare il lavoro del Primo Ministro kosovaro e, in ultima analisi, di mettere in discussione l’indipendenza del Paese (cfr. Ufficio del Primo Ministro della Repubblica del Kosovo, comunicato stampa del 14 dicembre 2010). La Serbia, dal canto suo, ha sollecitato la prosecuzione delle indagini sui crimini commessi dall’ELK (Governo Serbo, comunicato stampa del 22 dicembre 2010) e si è detta soddisfatta quando, il 25 gennaio scorso, il Rapporto Marty è stato adottato da una risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Tale risoluzione ha altresì sottolineato la necessità di rifuggire da ogni tentazione di impunità nei confronti dei vincitori ed ha invitato la missione EULEX ad indagare sui crimini indicati nel Rapporto “without taking any account of the offices held by possible suspects or of the origin of the victims”, auspicando altresì la cooperazione del Kosovo e dell’Albania nello svolgimento di tali indagini (Consiglio d’Europa, Assemblea parlamentare, risoluzione n. 1782 del 26 gennaio 2011).
Il Rapporto interviene in una fase alquanto delicata delle relazioni fra Serbia e Kosovo, esacerbata dal parere pronunciato nel luglio scorso dalla Corte internazionale di giustizia, su richiesta della Serbia, in merito alla conformità dell’unilaterale dichiarazione di indipendenza del Kosovo al diritto internazionale (Nazioni Unite, Corte internazionale di giustizia, parere del 22 luglio 2010). Secondo la Corte, tale dichiarazione non è atto contrario al diritto internazionale, bensì un legittimo tentativo di definire, in via stabile e definitiva, lo status del territorio. La Serbia, prendendo le distanze da tale parere, presentò all’Assemblea generale delle Nazioni Unite una proposta di risoluzione in cui si sosteneva l’inammissibilità di secessioni unilaterali come strumenti per la soluzione di questioni territoriali (v. Missione permanente della Repubblica Serba presso le Nazioni Unite, proposta di risoluzione presentata nel luglio 2010). Detta proposta non ebbe seguito, poiché l’Assemblea generale preferì approvare, lo scorso settembre, una diversa risoluzione, elaborata di concerto con l’Unione europea. Tale risoluzione, omettendo ogni riferimento alla liceità della secessione kosovara, accoglie “with respect” il parere della Corte internazionale di giustizia ed invita Serbia e Kosovo al dialogo, sotto la guida dell’Unione europea (Nazioni Unite, Assemblea generale, A/RES/64/298 del 13 settembre 2010). Tuttavia, la credibilità di quest’ultima nel ruolo di mediatore rischia di essere compromessa dalle posizioni antitetiche emerse al proprio interno in merito al territorio del Kosovo. Invero, alcuni Paesi dell’Unione, prima fra tutti la Spagna (oltre a Romania, Grecia, Cipro e Slovacchia), non ne riconoscono l’indipendenza dalla Serbia, temendo probabilmente che tale riconoscimento finisca per alimentare tensioni separatistiche interne. Pertanto, non è chiaro quali saranno le linee guida che l’Unione europea seguirà nel corso dei negoziati fra Serbia e Kosovo. Infatti, al di là dei generici proclami contenuti nella citata risoluzione dell’Assemblea generale, secondo cui il dialogo promuoverà la pace e la cooperazione nella regione, non vi è una politica unitaria in materia da parte dell’Unione. Verosimilmente, il Rapporto Marty, invitando i Paesi europei a prendere coscienza delle gravi violazioni in esso denunciate, lungi dal giovare al superamento dell’impasse, potrebbe aggravare ulteriormente la posizione di imbarazzo dell’Unione europea. Al riguardo, basti ricordare che solo pochi mesi fa l’Alto rappresentante dell’Unione, nel corso di una visita ufficiale a Pristina, si complimentò con il Premier Taçi per gli ottimi risultati raggiunti nella lotta al crimine organizzato, di cui proprio lo stesso premier, secondo il Rapporto Marty, sarebbe invece stato uno dei maggiori esponenti! (v. Unione europea, Alto rappresentante per la politica estera, comunicato stampa del 18 giugno 2010).