Pluralismo disciplinare e comparazione nella ricostruzione del dato positivo. La Corte suprema messicana dinnanzi al problema del matrimonio homosexual
Il ricorso al pluralismo disciplinare nell’argomentazione e nella decisione delle controversie costituzionali in materia di matrimonio homosexual costituisce un punto di osservazione privilegiato per indagare in quale misura le ragioni di ordine storico-culturale e valutativo costituiscano una sfida ricorrente per il giurista.
Come infatti è stato autorevolmente osservato, l’uso di approcci disciplinari diversi (la storia, la sociologia, la filosofia, l’antropologia culturale, etc.), non resta mai fine a se stesso, ma sondando il retroterra culturale del discorso giuridico consente di far emergere dietro la facciata della positività del diritto quegli strati storici ed antropologici che appaiono indispensabili ad una corretta comprensione della positività stessa. Ciò appare tanto più essenziale se l’interdisciplinarietà è accompagnata dal metodo comparativo, in quanto è proprio il pluralismo disciplinare a collocare la comparazione sul terreno ermeneutico, contribuendo all’attivazione di processi di precomprensione idonei a proiettare nel lavoro del giurista la relazione dialettica con l’“alterità”.
Spunti significativi di riflessione vengono, in questo senso, dalla recente sentenza n. 2 del 16 agosto 2010 della Corte suprema messicana la quale, in un’ottica comparativa, si iscrive nel solco della giurisprudenza delle principali corti statali e sovrannazionali che con accenti anche assai diversi hanno affrontato il comune problema del matrimonio homosexual (basti pensare, con riferimento al caso italiano, alla sent. 138/2010). Tale pronuncia costituisce non solo il terreno ideale per un raffronto fra le tecniche di decisione e argomentazione utilizzate dalle altre corti, ma offre altresì l’occasione per fare il punto, a cinquantasette anni di distanza dalla storica sentenza Brown v. Board of Education della Corte statunitense, sull’uso del pluralismo disciplinare nella ricostruzione del dato positivo, consentendo di proseguire così la riflessione sul superamento di quella immagine “introversa” del giudice che era stata imposto dalla cultura del giuspositivismo formalista.
Il 29 dicembre 2009 veniva pubblicata la riforma del codice civile del distretto federale, la quale introduceva il matrimonio fra persone dello stesso sesso (art. 146) ed estendeva alle coppie omosessuali la possibilità di accedere all’istituto dell’adozione (art. 391). Contro la riforma del codice civile proponeva azione di incostituzionalità il procuratore generale della Repubblica, sostenendo la necessità di una interpretazione dell’art. 4, co. 1 della Costituzione («l’uomo e la donna sono eguali davanti alla legge. Questa proteggerà l’organizzazione e lo sviluppo della famiglia») in armonia con «el espiritu del constituyente», e dunque nel senso dell’incostituzionalità del matrimonio omosessuale.
All’argomento originalista proposto dalla procura, la Corte suprema ha contrapposto una concezione della Costituzione come «documento vivo», affermando che in nessun modo il concetto di famiglia può essere «pietrificato» rispetto a quello dominante nell’epoca in cui è stato redatto il testo costituzionale. La Corte giungeva così a rigettare l’azione di incostituzionalità promossa contro gli artt. 146 e 391 del codice civile.
Ma c’è di più. La prospettiva accolta dalla Corte suprema, andando ben oltre la semplice contrapposizione fra originalismo e concezioni dinamiche della costituzione, ha investito direttamente il problema del pluralismo disciplinare nella ricostruzione del dato positivo. In un passaggio significativo della decisione, i giudici supremi, dopo aver osservato che «la famiglia, prima di integrare un concetto giuridico, costituisce» innanzitutto «un concetto sociologico», hanno aggiunto che il riferimento alla presunta volontà del costituente appare tutt’altro che determinante. Richiamando infatti le opinioni tecniche formulate dall’Università nazionale autonoma del Messico, la Corte ha evidenziato, da un punto di vista sociologico, che all’epoca in cui fu redatto l’art. 4 della Costituzione, le persone omosessuali, data la disapprovazione sociale verso orientamenti sessuali considerati non di rado alla stregua di vere e proprie malattie, mantenevano celata la propria omosessualità. Questo «fatto innegabile» consente dunque di contestualizzare la scelta normativa operata dalla Costituzione, la quale non ha previsto (ma neppure escluso espressamente), forme di tutela per modelli familiari che di fatto erano occulti al momento in cui fu redatto l’art. 4.
La necessità di un approccio scientifico interdisciplinare alla ricostruzione della norma positiva è poi ben presente nell’opinione particolare del giudice Arturo Zaldívan, il quale, pur dichiarandosi concorde con le conclusioni della Corte sulla costituzionalità dell’adozione da parte di coppie omosessuali, ha richiamato l’attenzione dei colleghi sull’esigenza di un uso ancora più rigoroso del dato “extra-giuridico”. Secondo Zaldívan, infatti, non è sufficiente affermare che il principio di non discriminazione impedisce di per sé di considerare nociva per il minore la crescita all’interno di un nucleo familiare omosessuale, ma impone di combinare la ricostruzione giuridica di tale principio con la dimostrazione, attraverso un approfondito raffronto dei vari studi scientifici sul tema, che effettivamente nessun danno può essere arrecato all’adottato dal suo inserimento all’interno di una famiglia omosessuale.
Ben diverso è l’approccio interdisciplinare accolto nell’opinione dissenziente del giudice Aguirre. Dopo un lungo (e discutibile) excursus storico-sociologico sull’evoluzione a partire dal mondo antico dei concetti di matrimonio e famiglia, Aguirre ha affermato che l’istituto del matrimonio è intrinsecamente legato all’idea della “continuazione del culto domestico” attraverso la nascita di un terzo essere rispetto al padre ed alla madre. Sennonché tale affermazione non è stata motivata sulla base di approfonditi studi scientifici, come richiesto invece da Zaldívan, ma è sembra arrestarsi ad una analisi etimologica e semantica della parola “matrimonio”. Tale termine si compone infatti di due elementi: “matri” (da “mater”) e “monio” (da monere, ossia ricordare). Il matrimonio sarebbe quindi ciò che ricorda la maternità, vale a dire la procreazione. Questi dati permettono di sostenere, ad avviso di Aguirre, che l’aggettivo eterosessuale costituisce un elemento essenziale, e non meramente accidentale, del sostantivo matrimonio. Se si volesse istituire unioni fra persone dello stesso sesso si dovrebbe dunque trovare una parola diversa da matrimonio (ginecogamia, homogamia o lesbogamia) e prevedere uno status giuridico differente rispetto a quello dell’istituto matrimoniale. La posizione del giudice Aguirre, oltre a riflettere una certa “miseria” della propria concezione del fenomeno giuridico, appare tanto più incomprensibile se si considera che è ormai pacifico il carattere dinamico del significato semantico del linguaggio. Pietrificare il concetto di matrimonio a quello richiamato dal Digesto costituisce dunque, se non una provocazione, quanto meno un pericoloso controsenso.
Maggiori problemi ha presentato l’utilizzo del metodo comparativo nella decisione e argomentazione della questione di costituzionalità sottoposta al vaglio della Suprema corte.
Nel progetto di sentenza predisposto dal giudice relatore Sergio Valls Hernández, uno dei punti del “considerato in diritto” conteneva un approfondito studio comparativo sulle tendenze legislative e giurisprudenziali relative alle problematiche delle unioni civili e del matrimonio homosexual. Con una maggioranza di sei voti contro cinque, il plenum della Corte ha deciso di eliminare l’analisi comparativa dal testo della sentenza, ritenendo che essa possa assolvere ad una funzione illustrativa ma non di decisione del caso sottoposto alla Corte. L’approccio comparativo è stato così ridimensionato all’apodittica affermazione – utilizzata fra l’altro in chiave di mera opposizione ad una interpretazione originalista delle convenzioni internazionali – in base alla quale i trattati in materia di diritti, in linea con quanto ribadito dalla «giurisprudenza comparata», vanno interpretati secondo i principi pro persona e pro libertatis. In sostanza, interpretazione estensiva dei diritti e restrittiva delle loro limitazioni. Sennonché, in assenza di richiami a precedenti stranieri, il riferimento della Corte alla «giurisprudenza comparata» appare per alcuni aspetti misterioso, sembrando delineare l’esistenza sul punto di un blocco giurisprudenziale monolitico.
Benché l’argomentazione comparativa avrebbe richiesto sviluppi assai più rigorosi, la sentenza messicana offre non di meno spunti utili in relazione al problema dell’approccio comparativo alla ricostruzione del dato positivo. L’eliminazione dell’indagine comparativa compiuta dal relatore, eliminazione fra l’altro decisa sulla base di una maggioranza di un solo voto, non ha impedito infatti al giudice Valls di riprodurre integralmente il soppresso “considerato in diritto” all’interno della propria opinione particolare, rendendo così pubblica l’esistenza di un momento comparativo all’interno del processo di precomprensione che ha coinvolto l’interprete nella ricostruzione del dato positivo.
L’esistenza di fenomeni di precomprensione comparativa conduce a domandarsi se la dicotomia «argomento/giudizio comparativo» (De Vergottini), per la difficoltà di dare conto di tutta una larga zona di confine fra le due categorie, non vada intesa in senso debole, ossia come distinzione fra mere polarità estreme nell’utilizzazione della comparazione all’interno del giudizio costituzionale. In secondo luogo, vi è da chiedersi se le risorse dell’argomentare comparativo, comportando in ogni caso un mutamento della immagine “introversa” del giudice disegnata dal positivismo statualista, non proietti le proprie conseguenze su un orizzonte molto più ampio rispetto a quello della decisione del singolo caso, ossia su uno spazio di medio-lungo termine. L’argomento comparativo, scardinando infatti i pilastri del sistema Westfalia, fa «rifluire nell’interpretazione costituzionale la rete delle interdipendenze che condizionano in misura crescente lo stato costituzionale contemporaneo, a causa della tendenza in atto da alcuni decenni alla generalizzazione di un patrimonio costituzionale che trascende i confini degli stati, al delinearsi di un nuovo “cosmpolitismo costituzionale”, non più fondato su basi giusnaturalistiche, ma sulla formazione di circuiti comunicativi fra le esperienze dello stato costituzionale cooperativo» (Ridola). Se così è, ben si comprende allora l’esigenza di non confinare il c.d. argomento comparativo ad una posizione “ancillare” rispetto ad altre forme di utilizzazione della comparazione all’interno del processo di ricostruzione del dato positivo, recuperando dunque per l’argomentare su basi comparative quella indispensabile funzione di quinto canone dell’interpretazione che è stata tracciata dalla preziosa lezione di Peter Häberle.