E. D’Alterio, La funzione di regolazione delle corti nello spazio amministrativo globale, Giuffrè, Milano, 2010.
Nella spaventosa (solo per la mole, per carità!) letteratura dedicata alla funzione del giudice nella dimensione postnazionale (come la chiamerebbe Nico Krisch), una menzione particolare merita il volume di Elisa D´Alterio “La funzione di regolazione delle corti nello spazio amministrativo globale” (Giuffré, Milano, 2010).
Si tratta di un libro dalla lettura gradevole e ricchissimo di spunti, anche per la vastità dei temi toccati, temi che, generalmente, trovano “sede” in iper-specialistici studi di diritto internazionale o europeo e che raramente vengono trattati insieme come avviene in questo lavoro.
Il libro si propone di studiare il ruolo regolatore che i giudici svolgono nell´arena globale, uno “spazio giuridico” (per utilizzare le parole di Cassese, Lo spazio giuridico globale, Laterza, Roma-Barci, 2003) che conosce forme di governance senza government (p. 3).
Il primo dei cinque capitoli in cui si divide l’opera é proprio dedicato alla natura di questo spazio amministrativo globale e richiama gli studi di Cassese, Kingsbury e Krisch e Stewart (si vedano i materiali del sito http://www.iilj.org/GAL/ ) che, negli anni, hanno contributo allo sviluppo di una disciplina ormai sostanzialmente autonoma sia dal diritto internazionale che da quello amministrativo classico.
Lo spazio (si noti come l´uso dei termini “sistema” o “ordinamento” viene attentamente evitato) amministrativo globale é definito infatti come “a regulatory space that transcends international law and domestic administrative law, distinct from the inter-State relations” (GAL Glossary, http://www.irpa.eu/index.asp?idA=172 ).
Se é vero che la globalizzazione non ha “ucciso”, ma solo riplasmato, la politica (per dirla con Beck) qualcosa del genere può essere detto anche per il diritto: una prima prova dell’impatto della globalizzazione sulle strutture classiche del diritto è data dalla fine dell´autonomia degli ordinamenti nazionali (e dalla crisi, se vogliamo usare una formula nota, della sovranità); questo ha creato una scissione evidente fra i destini della politica e quelli della giurisdizione: mentre le forme della politica (si badi, non delle politiche) sono rimaste fondamentalmente classiche, legate alle strutture dello Stato Nazione, il diritto non ha arrestato la sua crescita ma ha, come dire, sviluppato meccanismi che hanno sempre di più negli anni rinunciato all´idea della fonte politica, per dirla con Pizzorusso (A. Pizzorusso, Fonti politiche e fonti culturali del diritto in Studi in onore di T Liebman, I, Giuffrè, 1979, 32 ss), ovvero, il diritto ultra-statale si é scoperto come sempre meno prodotto “pensato” dai centri di poteri dotati di indirizzo politico e affidato a fonti culturali: fra queste ultime, quelle giurisprudenziali hanno giocato un ruolo privilegiato nella formazione dei suoi principi.
Quello che Cassese chiama lo spazio giuridico globale non è quindi un perfetto “global legal regime” perché, anche quando “disciplinato” da regimi regolatori specifici (diritto del commercio, del trasporto marittimo etc), presenta delle soluzioni di continuità (i.e. di non collegamento fra questi regimi particolari e fra i giudici di questi regimi regolatori) evidenti a cui gli attori dello spazio giuridico globale cercano di ovviare (S. Cassese, La funzione costituzionale dei giudici non statali. Dallo spazio giuridico globale all’ordine giuridico globale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 3/2007, 609-626).
I tribunali, specie quelli comunemente chiamati internazionali, finiscono per operare una funzione sistemica, perfezionando o creando meccanismi di raccordo fra ordinamenti pensati come originariamente sovrani o semplicemente autonomi ma non piú dotati di tale autonomia.
Dopo aver ricordato tutto questo l´Autrice si confronta con la letteratura esistente (anche qui, spaziando dal diritto amministrativo globale al diritto europeo, fino a quello internazionale) per evidenziare i punti comuni e quelli inesplorati nella letteratura legata al tema della judicial comity, dimostrando grande dimestichezza con le opere di Shany a quelle della Slaughter, passando per Benvenisti e Pauwelyn.
Alla fine del primo capitolo vengono enunciati i fini della ricerca: “In primo luogo, la funzione di regolazione ad opera delle corti costituisce un nuovo fenomeno nel panorama dei rapporti tra ordinamenti, risultato della proliferazione dei regimi giuridici nello spazio globale e del consequenziale sviluppo delle tipologie di rapporti ordinamentali, che richiedono il ricorso a nuovi criteri di regolazione. In secondo luogo, questa esigenza di regolazione può essere soddisfatta soltanto dai giudici, in ragione dei caratteri dell’arena globale. In questo contesto, il compito di regolazione dei rapporti ordinamentali è, infatti, arduo e complesso e, soprattutto, richiede una elasticità e una neutralità, che non potrebbero appartenere a organismi legislativi o esecutivi” (p. 15).
Il secondo capitolo guarda alle “corti in azione” secondo due “dimensioni”: una verticale (relativa alla regolazione di rapporti fra ordinamenti di diversi livelli giuridici) e una orizzontale (vale a dire relativa alla regolazione di rapporti fra ordinamenti dello stello livello), offrendo una rassegna di alcuni casi emblematici (Hilton v Guyot; Yahoo; Lawrence versus Texas; Bosphorus; Medellìn v. Texas; Dorigo; Kadi), utili per la individuazione delle diverse forme assunte dalla funzione di regolazione delle corti. Tale sforzo sistematico viene ripreso nel terzo capitolo, dedicato all´analisi dei meccanismi di regolazione operanti nello spazio globale, ambito, come messo subito in risalto dall´Autrice, caratterizzato dall´assenza di regole generali di coordinamento fra sistemi giuridici (p. 103): si va dalla sussidiarietà, alla dottrina del margine di apprezzamento, dal principio di equivalenza a quello di convenienza (catalogati come “tecniche processuali”). In un secondo momento si affrontano gli “strumenti di integrazione giudiziaria” (143 ss.)- sviluppatisi, almeno sul piano della dimensione verticale, grazie al diritto internazionale privato- e i meccanismi di “mutua considerazione”- consistenti nel riferimento reciproco fra corti appartenenti a sistemi giuridici diversi-, in cui si concretizzerebbe il principio di judicial comity. Si tratta di meccanismi sviluppatisi in assenza di norme scritte che forniscono un ordine, rinunciando a gerarchie: “L’ordine è dato solo dall’esistenza di tali regole e non dalla formazione di un ordinamento in senso tradizionale. Le regole, infatti, sono estremamente flessibili, sebbene tendano ad essere applicate con una certa costanza da parte delle corti” (180) .
La judicial comity è al centro del quarto capitolo, dove l’Autrice esplora origini, sviluppi e possibili ulteriori trasformazioni del concetto: l’origine romanistica ed il suo carattere “contenitore”, che racchiude fenomeni diversissimi fra loro. Proprio per questo, alla fine, l’Autrice dimostra di “rinunciare al fascino” di espressioni come quella di judicial comity (ma anche quelle di judicial dialogue o judicial globalization) per concentrarsi sulle tecniche di regolazione esaminati nei capitoli precedenti (p. 197).
L’ultimo capitolo ribadisce quello che è il filo conduttore dell’opera: i giudici svolgono una funzione di regolazione nello spazio amministrativo globale, regolazione che rappresenta forse l’unica forma di disciplina possibile in un contesto senza sovrani in cui né l’opera armonizzatrice di improbabili legislatori sovrastatali, né le normali tecniche utilizzate dai cultori del diritto internazionale privato potrebbero fornire valide alternative. Si tratta di un assunto forte che solleva forse un problema di legittimazione che, però, a ben vedere tocca tutti gli attori del diritto post nazionale e non solo i giudici. Problema forse superabile guardando all’output (secondo la nota distinzione di Scharpf): la regolazione pretoria si presenta infatti come più flessibile e adattabile alle esigenze ma allo stesso tempo anche come incrementale e frammentata.
Tuttavia, assumendo l’argomento realista, è difficile poi trovare un’alternativa alla conclusione avanzata dall’Autrice, anche vista la struttura di quello che viene spesso definito come il global (dis)order, un ordine senza ordinamento in senso classico, caratterizzato, come ricordato in apertura, da governance fluida e da assenza di government (p. 234). Più difficile valutare l’esattezza dell’argomento basato sull’efficacia, velocemente richiamato a pagina 238, con un rinvio ad alcune conclusioni operate dagli studiosi di analisi economica del diritto e che forse avrebbe meritato qualche approfondimento.
Le ultime pagine del volume sono poi dedicate ad un concetto interessante e che meriterebbe sviluppo, quello di
legal comity con cui l’Autrice intende tutto l’insieme delle pratiche giudiziarie funzionali alla creazione di un’”armonia giuridica” (concetto, come dire, “irenico” che viene distinto da quello di “global order”), un ordine senza ordinamento (concetto che rimanderebbe a quello di “sistema”) o meglio, si potrebbe dire un ordine prodotto di logiche evoluzioniste (“kosmos” e non “taxis” per usare il linguaggio di Hayek).
Si tratta di un punto centrale che, come l’Autrice ricorda a pag. 262, potrebbe dare nuova linfa agli studi sul global administrative law.