Speech is powerful. La Corte suprema statunitense e il I Emendamento
Deve considerarsi protetta dal I Emendamento una manifestazione contro la politica di tolleranza degli Stati Uniti nei confronti dell’omosessualità – specialmente all’interno dell’esercito – e contro la corruzione del clero nella Chiesa cattolica svoltasi in occasione del funerale di un soldato americano morto in Iraq? La risposta a tale domanda, data dalla netta maggioranza dei giudici della Corte suprema degli Stati Uniti, è stata affermativa. Nella recente decisione Snyder v. Phelps (562 U.S., 2011), il giudice supremo americano ha ricondotto tale manifestazione sotto le garanzie del I Emendamento, richiamando così l’attenzione sul mai sopito dibattito relativo al valore e alla portata di quella norma che, nel riconoscere la libertà di espressione, rappresenta il fondamento irrinunciabile della democrazia statunitense. In particolare, ancora una volta la Corte si è concentrata sulla possibilità che vengano apposti dei limiti a tale libertà, specialmente con riferimento a quelle forme espressive odiose e oltraggiose o comunque idonee a provocare intenzionalmente un profondo disagio emotivo in coloro nei confronti dei quali sono dirette.
La Chiesa Battista di Westboro è la protagonista della vicenda all’attenzione della Corte. Fondata nel 1955 da Fred Phelps, uno dei resistenti nel caso di specie, la congregazione di Westboro vanta un’intensa attività di diffusione e comunicazione della convinzione che Dio odi gli Stati Uniti, proprio a causa della loro tolleranza nei confronti dell’omosessualità, specialmente all’interno delle forze armate. Le loro manifestazioni, inoltre, hanno come bersaglio anche la Chiesa cattolica, criticata principalmente per scandali che hanno coinvolto alcuni membri del clero. Nel caso di specie, Fred Phelps e altri sei adepti (tutti suoi parenti) si erano recati nel Maryland, per manifestare al funerale del marine Matthew Snyder (ucciso in Iraq), mediante l’utilizzo di cartelloni riportanti scritte dal contenuto offensivo nei confronti, tra gli altri, dei militari statunitensi. Snyder, il padre del marine deceduto denunciò i partecipanti alla manifestazione per avergli provocato intenzionalmente un forte stato di stress emotivo, per aver interferito ingiustificatamente nella sua vita privata e, infine, per il reato di civil conspiracy.
Nel giudizio di primo grado, la Chiesa di Westboro e i partecipanti alla manifestazione furono condannati ad un risarcimento danni dell’ammontare di alcuni milioni di dollari, somma che fu poi ridotta dalla Corte distrettuale. La Corte d’Appello per il Quarto Circuito, invece, ribaltando le precedenti decisioni, affermò che la condotta di Phelps e dei suoi adepti dovesse essere considerata come protetta dal I Emendamento, in quanto si trattava di una forma espressiva di pubblica rilevanza, basata su dichiarazioni che, seppur potevano essere considerate come offensive, non erano manifestamente false. Contro tale decisione Snyder ha proposto ricorso alla Corte suprema. Valutazione preliminare dell’argomentazione del giudice supremo è rilevare se si tratta di una questione di pubblico interesse oppure no. Infatti, come evidenziato nella giurisprudenza pressoché monolitica della Corte suprema sulla libertà di espressione, il cuore del I Emendamento risiede nelle questioni di pubblica rilevanza (in questo senso Dun & Bradstreet, Inc. v. Greenmoss Builders, Inc., 472 U. S. 749, 758–759 (1985) e ciò in quanto, come affermato anche nella decisione New York Times Co. v. Sullivan (376 U. S. 254, 270 (1964)), il I Emendamento racchiude quel profondo impegno nazionale nei confronti del dibattito pubblico, che dovrebbe essere «uninhibited, robust, and wide-open», costituendo l’essenza dell’autogoverno e riconoscendo al tempo stesso una garanzia di minore intensità per quelle forme espressive di natura privata.
La Corte afferma che anche se alla manifestazione della congregazione di Westboro non può essere riconosciuto un valore politico o sociale, il suo contenuto mette comunque in evidenza tematiche di pubblica rilevanza, tra le quali la condotta morale e politica degli Stati Uniti e dei loro cittadini, il destino della nazione americana, l’omosessualità nell’esercito e gli scandali che hanno coinvolto la Chiesa cattolica. E anche se nel caso di specie i messaggi diffusi da Westboro erano apparentemente diretti solo al giovane Snyder, in realtà il loro obiettivo era quello di raggiungere un pubblico più ampio possibile. Se almeno da un punto di vista morale è criticabile la scelta del luogo e dell’occasione della manifestazione – il funerale di un soldato – secondo la Corte ciò non modifica la natura del discorso: lo svolgimento della manifestazione in modo pacifico, sul suolo pubblico e conformemente a tutte le indicazioni fornite dall’autorità di pubblica sicurezza avrebbe confermato l’intenzione della congregazione di condannare apertamente determinati costumi invalsi nella società moderna, piuttosto che di attaccare direttamente il soldato Snyder. E ciò sarebbe confermato anche dal fatto che la chiesa di Westboro pratica tale tipo di attività di contestazione già da tempo e quello specifico funerale rappresentava solamente una nuova occasione per diffondere le proprie idee. Tutte coordinate spazio-modali che contribuiscono a delineare il carattere pubblico del discorso, assicurandogli quella particolare protezione prevista dal I Emendamento. La maggioranza della Corte non ignora comunque che la manifestazione abbia prodotto dei danni al padre e alla famiglia del soldato defunto: ciononostante la libertà di parola non può essere limitata solamente perché è «upsetting» o «arouses contempt».
Tale affermazione, seppur molto forte nel suo contenuto, non sorprende, in quanto esprime un’opinione generalmente condivisa. Oltre a confermare l’orientamento consolidato della giurisprudenza americana in materia di hate speech (concetto elaborato dalla dottrina statunitense, comprensivo di tutte quelle forme espressive violente e offensive motivate da un profondo sentimento di odio) anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa in termini analoghi: così nella sentenza Handyside v. the United Kingdom, il giudice europeo ha evidenziato che le garanzie previste dall’art. 10 devono essere riconosciute non soltanto a quelle espressioni, informazioni o idee che sono percepite come favorevoli o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche nei confronti di quelle che offendono, scioccano o disturbano lo Stato o una parte della popolazione (Handyside v. the United Kingdom, 7 dicembre 1976, Series A no. 24, para. 49). Ciò che in realtà lascia perplessi sono le conseguenze della decisione della Corte: non è possibile punire delle espressioni solo per il loro contenuto. Le cose (apparentemente) potrebbero cambiare nel caso in cui le espressioni diventassero “oltraggiose”. Nonostante questa parziale apertura, la Corte non si sbilancia e si rifugia dietro alla difficoltà di definire un concetto troppo malleabile, che inciderebbe sulla neutralità dei giudici, implicando così una soggettività implicita sulla base della quale condannare o assolvere a seconda delle proprie opinioni o gusti personali. Punire la manifestazione del pensiero a seconda del suo contenuto creerebbe il pericolo concreto e reale che quelle espressioni «vehement, caustic, and some-times unpleasan[t]’” expression» siano soppresse. Ancora una volta, il giudice supremo statunitense sottolinea come tale rischio sia inaccettabile, affermando il dovere nel pubblico dibattito di tollerare anche l’ «insulting, and even outrageous, speech in order to provide adequate ‘breathing space’ to the freedoms protected by the First Amendment» (in questo anche Boos v. Barry, 485 U. S. 312, 322, 1988).
Speech is powerful, dice la Corte, consapevole dei rischi insiti nel I Emendamento: la parola può incitare all’azione, può causare sia gioia che tristezza, può infliggere grande dolore, ma non si può comunque reagire punendo, sottolineando in tal modo come si debba proteggere anche la hurtful speech per non correre il rischio di soffocare il dibattito pubblico.
Diversi i punti di debolezza nell’argomentazione della Corte. Innanzitutto, la decisione peccherebbe per non aver tenuto in adeguata considerazione la distinzione tra fini e mezzi, posto che talvolta l’uso di certe parole non dovrebbe essere protetto, come nel caso delle cd. fighting words (Chaplinsky v. New Hampshire, 315 U.S. 568 (1942)): così nelle parole del Justice Alito, unico giudice dissenziente, che sottolinea come anche le espressioni, analogamente alla violenza fisica, possono causare danni anche molto gravi, senza peraltro contribuire in alcun modo al dibattito pubblico. A dimostrazione di ciò, Alito sottolinea come, già nella sentenza Chaplinsky (cit.), la Corte aveva escluso l’estensione della protezione prevista dal I Emendamento sia a quelle espressioni che «by their very utterance inflict injury», così come a quelle che non esprimono alcuna idea e dalle quali non deriverebbe alcun beneficio per la società, dando cosi prevalenza alla protezione di altri valori quali l’interesse sociale all’ordine e alla moralità. Così, le modalità della manifestazione (in particolare la scelta del funerale per coinvolgere un pubblico più vasto), il contenuto delle espressioni scritte nei cartelloni esposti (alcune delle quali evocavano anche la presunta omosessualità di Snyder) e la condotta successiva posta in essere da Phelps e dagli altri membri della congregazione, sarebbero, secondo il dissenting Justice, tutti elementi che escluderebbero la pubblica rilevanza delle espressioni, confermando piuttosto un attacco diretto nei confronti di Matthew Snyder, in quanto cattolico e membro dell’esercito americano. Infatti, mentre vi è concordia nel ritenere che i commenti nei confronti della Chiesa cattolica e dell’esercito americano sono da considerarsi tematiche di pubblico interesse, gli attacchi diretti nei confronti di una persona, secondo Alito, sono da qualificarsi come discorsi di carattere privato, a nulla rilevando che la manifestazione si sia svolta in luogo pubblico: difatti, le fighitng words rimangono tali indipendentemente dalla loro location.
Al di là della qualificazione della natura pubblica o privata della manifestazione della congregazione di Westboro, rimane da chiedersi: la democrazia e lo sviluppo dell’autogoverno hanno davvero bisogno di espressioni che la stessa Corte definisce come hurtful? È giusto riconoscere la garanzia del I Emendamento a quelle espressioni pronunciate da chi probabilmente ha come intento quello di ferire piuttosto che di contribuire in modo costruttivo al dibattito pubblico? D’altronde, non era stata la stessa Corte a sostenere che le fighting words erano escluse da qualunque protezione costituzionale in quanto si trattava di espressioni che «by their very utterance inflict injury»? Ancora una volta emerge la debolezza della giurisprudenza statunitense interpretativa del I Emendamento e la Corte ha forse perso un’altra preziosa occasione per definire gli evanescenti confini delle fighting words. Così quelle espressioni offensive, seppur volte a provocare reazioni violente da parte di coloro nei confronti delle quali erano rivolte, continuano ad essere escluse da tale categoria in quanto la (presunta) tutela della democrazia rimane il valore fondamentale da proteggere. D’altronde, «consentire a una famiglia di avere alcune ore di pace senza subire molestie non mina il dibattito pubblico» (dissenting opinion, Justice Alito).
Grazie molte all’Autrice per averci riferito così bene questa vicenda assai interessante. Le considerazioni finali sollevano un interrogativo che a me pare rilevante, anche se non sono così ferrato sulla giurisprudenza americana in argomento.
Direi così: i confini dell’hate speech devono fondarsi sulla definizione del contenuto delle fighting words oppure risentono, di volta in volta, delle circostanze concrete in cui vengono espresse? Mi pare infatti che l’A., accogliendo in fondo l’opinione di Alito, accolga la prima opzione interpretativa, che tuttavia a me pare assai difficilmente percorribile. Oltre alla estrema difficoltà di definire fin dove può arrivare un discorso oltraggioso e/o “combattente”, così facendo si rischia di veicolare nello spazio pubblico una visione “filtrata” dei diversi contenuti politici e di valore che pervadono la società. E anche se, penso e spero, possiamo essere tutti d’accordo che le posizioni della chiesa di Westboro sono fastidiose se non ridicole, ciò non toglie che anch’esse, in una democrazia pluralistica, debbano avere diritto di cittadinanza.
Nel caso concreto di Snyder, infatti, il fatto dirimente, a me pare, è che il livello di offensività di queste dichiarazioni non ha arrecato un pregiudizio eccessivo: i dimostranti si erano tenuti a distanza dalla chiesa dove si celebravano i funerali, al punto che il padre del soldato ucciso era venuto a conoscenza della manifestazione solamente dopo la cerimonia, una volta tornato a casa. Questo potrebbe avvalorare l’idea che la complessa individuazione dei confini dell’hate speech, più che un’opera rimessa all’individuazione astratta dei contenuti odiosi, scaturisca dai bilanciamenti che di volta in volta presiedono alla composizione con gli altri diritti che vengono in questione.