Ancora sull’efficacia della CEDU nel diritto interno: il BVerfG e la “detenzione di sicurezza”
A partire dalla fine del 2009, com’è noto, la Corte costituzionale italiana ha accolto una serie di questioni in materia di diritto processuale penale alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 6 CEDU, talora ponendo fine ad un contrasto tra i giudici di legittimità (sent. n. 317/2009, sulla restituzione del contumace nel termine di cui all’art. 175, comma 2 c.p.p., qualora l’impugnazione sia già stata proposta dal difensore d’ufficio), talaltra superando una propria pregressa giurisprudenza (sent. n. 93/2010 e 80/2011 sullo svolgimento in udienza pubblica del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione), talaltra ancora negando efficacia preclusiva inter partes ad una propria pronuncia di rigetto emessa nello stesso grado di giudizio (sent. n. 113/2011, che fa seguito alla sent. n. 129/2008, sulla revisione/riapertura dei procedimenti penali in caso di accertamento, da parte della Corte EDU, di “prova iniqua” – si tratta del caso Dorigo).
Per contro, più rare, nel medesimo settore, sono state le decisioni del Tribunale costituzionale federale tedesco dopo la delineazione del rapporto tra ordinamento interno e CEDU avvenuta con il Gorgülü-Beschluß (BVerfGE, 111, 307, del 14 ottobre 2004): lo stesso Gorgülü-Beschluß ed il Caroline-Urteil (BVerfGE 120, 180, del 26 febbraio 2008) – i casi finora più significativi – hanno riguardato rispettivamente il diritto di famiglia e il conflitto tra libertà di opinione e privacy, ossia quelle che il BVerfG definisce “relazioni multipolari di diritti fondamentali”. Ad un primo sguardo, pertanto, la sentenza emessa dal Tribunale costituzionale federale tedesco lo scorso 4 maggio 2011 (2 BvR 2365/09; 2 BvR 740/10; 2 BvR 2333/08; 2 BvR 1152/10; 2 BvR 571/10), segnalata qui brevemente, si distingue anzitutto per l’ambito materiale investito – quello, appunto, penal-processuale – e la relativa implicazione in merito al giudizio di bilanciamento, che si svolge non già tra due diritti confliggenti, bensì tra una libertà individuale e l’interesse generale (nella fattispecie, quello alla prevenzione dei reati).
Oggetto dei numerosi ricorsi riuniti nel giudizio in esame è l’istituto della Sicherungsverwahrung (“detenzione di sicurezza”, appartenente al genere delle misure di sicurezza), in particolare la disciplina che ne dispone retroattivamente sia l’applicazione originaria (§ 66b Abs. 2 StGB, § 7 Abs. 2 JGG) sia il prolungamento oltre l’iniziale limite di 10 anni (§ 67d Abs. 3 Satz 1 StGB), di cui si lamenta l’incostituzionalità. Mentre il BVerfG, in una pregressa decisione, aveva ritenuto la soppressione retroattiva del limite decennale compatibile con il Grundgesetz (BVerfGE 109, 133, del 5 febbraio 2004), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha in seguito accertato, con riferimento alla medesima questione, una violazione degli art. 5 e 7 CEDU (M. c. Germania, del 17 dicembre 2009, n. 19359/04). Quest’ultima sentenza – insieme ad altre emesse dalla Corte EDU nei primi mesi del 2011 – viene ora presa in considerazione dal BVerfG, che dichiara le norme indirettamente impugnate incompatibili con la libertà personale (art. 2, comma 2, frase 2 e art. 104, comma 1 GG) ed il principio della tutela dell’affidamento (art. 2, comma 2, frase 2 e art. 20, comma 3 GG).
Non essendo questa la sede per soffermarsi sui numerosi aspetti di rilievo, condivisi da questa pronuncia con quelle italiane summenzionate, mi limito a sottolineare il rapporto dinamico che viene instaurato tra la corte europea, le corti costituzionali, i legislatori e i giudici nazionali nell’attuazione delle garanzie processuali e della libertà personale, nonché una tendenza – comune sia alla Consulta che al BVerfG – a mutare orientamento giurisprudenziale grazie all’influenza dell’attività interpretativa della Corte di Strasburgo, pur professandosi un’apparente continuità con gli indirizzi precedenti.
Il secondo aspetto su cui merita richiamare l’attenzione riguarda alcune precisazioni in ordine all’efficacia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento interno, con riguardo alle fattispecie che non interessano direttamente il giudicato delle decisioni della Corte EDU (uno slittamento in questo senso era già percepibile nel Gorgülü-Beschluß), nonché la valorizzazione dei contesti nazionali nell’interpretazione delle norme della Convenzione (par. 89-94). Dopo aver ribadito la funzione di ausilio interpretativo della CEDU (con la relativa giurisprudenza) e l’obbligo dei giudici di tenerne conto alla luce del principio della Völkerrechtsfreundlichkeit, il BVerfG delinea, a proposito della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, una faktische Orientierungs- und Leitfunktion (funzione di orientamento e di indirizzo) ed una “efficacia di precedente almeno fattuale”, che si esplicano anche al di là del singolo caso concreto. Quanto alla diversa questione (anch’essa già emersa parzialmente nel Gorgülü-Beschluß e, nell’ordinamento italiano, nelle sent. n. 348 e 349/2007) circa l’efficacia preclusiva del giudicato di una sentenza del Tribunale costituzionale federale, si ritiene che quest’ultima possa essere superata se “sopravvengono modifiche giuridicamente rilevanti della situazione giuridica e fattuale”, alle quali vengono equiparate le sentenze della Corte EDU (par. 82).
Correggendo alcune statuizioni di principio contenute nel Gorgülü-Beschluß – allora incisivamente criticate dalla dottrina poiché indici di un atteggiamento autoreferenziale del Tribunale costituzionale – in cui la sovranità e “l’ultima parola” venivano attribuite esclusivamente alla Legge fondamentale, i giudici di Karlsruhe affermano adesso che “la Völkerrechtsfreundlichkeit del Grundgesetz è espressione di una concezione della sovranità, che non solo non si oppone ai vincoli nei contesti inter- e sovranazionali, così come al loro ulteriore sviluppo, ma che questi stessi [vincoli e sviluppo] presuppone e si attende”. Alla luce di ciò “anche l’‘ultima parola’ della Costituzione tedesca non contrasta con un dialogo internazionale ed europeo, ma ne è il relativo fondamento normativo”. Se, invero, l’art. 1, comma 2 GG “non costituisce la porta d’ingresso per un immediato rango costituzionale della Convenzione”, viene altresì rimarcato che tale norma costituisce “più di una proposizione programmatica non vincolante, nella misura in cui indica ed illustra una massima per l’interpretazione della Legge fondamentale, secondo cui i Grundrechte devono concepirsi anche come espressione dei Menschenrechte, avendoli racchiusi in sé come uno standard minimo”.
Questa chiara apertura nei confronti della CEDU si accompagna ad un’accorta valutazione dei diversi contesti che fanno da sfondo ai due parametri (fonte convenzionale e Costituzione): affrontando il tema del significato “autonomo” che la Corte EDU – non diversamente dalla Corte di Giustizia – attribuisce a determinati concetti, affrancandosi spesso dalla configurazione dogmatica da questi assunta nel diritto interno, il BVerfG riserva a sé e agli operatori nazionali un margine per continuare ad interpretarli secondo la tradizione giuridica dell’ordinamento di provenienza (nella fattispecie, si trattava della categoria di “pena”, che nel diritto penal-processuale tedesco non ricomprende le misure di sicurezza, al contrario di quanto stabilito, sulla base di considerazioni prevalentemente pratico-fattuali, dalla Corte di Strasburgo). A questo proposito, l’interpretazione völkerrechtsfreundlich dei concetti del Grundgesetz viene significativamente accostata – non a caso con un richiamo alla Europäische Verfassungslehre di Häberle – al ricorso all’argomento comparativo, rilevandosi come “le somiglianze nel testo normativo non possano trarre in inganno circa le differenze che risultano dai contesti degli ordinamenti”: i diritti umani delle convenzioni internazionali, infatti, “devono essere ‘ripensati’ nel contesto dell’ordinamento costituzionale che li accoglie nell’ambito di un procedimento attivo (di recezione)”.
Si chiarisce così l’ulteriore precisazione secondo cui il ricorso alla CEDU non implica uno “schematico parallelo” con i singoli concetti costituzionali ma è ergebnisorientiert, ossia volto al fine di evitare di incorrere nella responsabilità internazionale mediante “l’armonizzaz[ione] del diritto interno con la Convenzione”.
Conformemente all’approccio inaugurato con il Gorgülü-Beschluß e sviluppato nel Caroline-Urteil – ma più cautamente percorso dalla Corte costituzionale italiana –, i diritti della Convenzione (art. 5 e 7), così come interpretati dalla Corte di Strasburgo, rifluiscono nel giudizio di proporzionalità, in questo caso particolarmente stretto, poiché relativo ad una detenzione dalla durata potenzialmente illimitata, nonché retroattiva, tale da incidere sulla libertà personale con un elevato grado di afflittività. Escludendo la praticabilità, da parte dei singoli giudici, dell’interpretazione conforme al diritto convenzionale, come invece auspicato da una parte della dottrina (C. Grabenwarter, Wirkungen eines Urteils des Europäischen Gerichtshofs für Menschenrechte – am Beispiel des Falls M. gegen Deutschland, in JZ 2010, 857ss.), il BVerfG ritiene necessaria la declaratoria di incostituzionalità, la cui efficacia viene tuttavia differita fino al maggio 2013, per consentire al legislatore, sulla scorta di una serie di indicazioni dettagliate fornite nel corpo della motivazione, una configurazione dell’istituto più rispettosa dei diritti degli interessati.
Sono molti gli aspetti interessanti della sentenza segnalata nel bel post di Alessandra (che, a ben vedere, va ben oltre la mera segnalazione!).
Sono colpito, in particolare, dalla affermazione – meglio, dalla decisa esplicitazione – del principio secondo cui l’insistenza sulla “istanza identitaria” (“l’ultima parola” del GG nelle situazioni di tensione tra diversi livelli ordinamentali) non si oppone all’immersione del livello costituzionale nazionale in un sistema di relazioni interordinamentali complesse, ma anzi fornisce ad esso fondamentale impulso e orientamento. Uso il termine “esplicitazione”, perché mi sembrano posizioni in continuità con una lettura (forse troppo benevola) delle decisioni “Lisbona” e “Mangold-Honeywell”.
Altrettanto importante mi sembra il legame – sottolineato anche da Alessandra – tra approccio comparativo alla gestione della relazione (anche normativa) tra i livelli ordinamentali e superamento dell’idea dello “schematico parallelo” tra disposizioni costituzionali e convenzionali, in vista di una interpretazione ergebnisorientiert. C’è un significativo “parallelo” – mi sembra – con la nostra 317 del 2009 (nonché, in parte, con la recentissima 80/2011) e, più in generale, mi sembra sempre più definita la tendenza verso assetti in cui la ricerca di convergenze sul piano materiale tende fino all’estremo le potenzialità del giudizio di costituzionalità, che pure viene mantenuto fermo come perno della gestione della relazione.