Al confine di “universale”. La limitazione del diritto di voto ai detenuti, nella pronuncia della Corte EDU Scoppola v. Italia
Nel costituzionalismo contemporaneo, il diritto di voto si è spogliato della sua veste di privilegio ereditario, censitario o capacitario, per essere elevato a rango di diritto, prima ristretto e precluso a gruppi d’individui maggioritari o minoritari sulla base dell’appartenenza di genere, di razza, di lingua, o religione, e poi riconosciuto come un diritto fondamentale dell’uomo. Ciò nonostante, la qualificazione di universale – che, sul piano giuridico implica la maggior coincidenza possibile tra la capacità di agire e la capacità elettorale – trova continui e ripetuti ostacoli nelle clausole di limitazione che, nelle democrazie aperte e pluraliste, dovrebbero ammettere solo requisiti minimi e universalmente accettati.
Ogni qual volta una Corte nazionale o sovranazionale si trova ad affrontare il quesito sui limiti del confine di “universale”, sembra ormai ricorrere alle medesime argomentazioni: il diritto di voto è uno strumento fondamentale di partecipazione politica fondato sul presupposto della dignità umana.
E’ questo il caso della pronuncia Scoppola v. Italia (Ric. N. 126/05) del 20 giugno 2011 che merita di essere posta in correlazione con due sentenze delle Corti costituzionali del Canada [Sauvé c. Canada (Directeur général des élections) [2002] 3 R.C.S. 519, 2002, CSC 68] e del Sudafrica [August v. The Electoral Commission, Case CCT 8/99].
Il ricorrente, il sig. Scoppola, aveva manifestato obiezioni nei confronti dell’interdizione dal diritto di voto, come misura punitiva accessoria a una pena di reclusione a vita. Con due provvedimenti a cascata, il legislatore italiano aveva privato i detenuti del diritto di voto. D’un canto, l’articolo 29 del Codice penale italiano comportava l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per una serie di reati punibili con una condanna all’ergastolo, o una condanna a reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni. D’altro canto, la norma rinviava al DPR n. 223 del 20 marzo 1967 che specificava come tale sanzione comportasse automaticamente la perdita del diritto di voto. In ottemperanza al disposto normativo, dunque, le autorità amministrative predisposte al controllo della procedura elettorale procedevano a cancellare il nome del ricorrente dalle liste elettorali, rendendolo definitivamente estraneo all’insieme degli aventi diritto. Fin dal ricorso di fronte alla Commissione elettorale circondariale del Comune di Roma, il sig. Scoppola aveva rilevato come l’esclusione dall’accesso al voto fosse manifestamente contraria al diritto a elezioni libere garantito dall’art. 3 Protocollo 1 della CEDU. L’art. 3 del Protocollo 1, per il tramite dell’interpretazione giurisprudenziale resa nella sentenza Hirst v. Regno Unito, si è reso parametro di giudizio sin dai primi gradi del ricorso, dalla Commissione circondariale, alla Corte di Appello, alla Corte di Cassazione. Il caso Hirst, tuttavia, concerneva una legislazione elettorale che privava la quasi totalità della popolazione carceraria del diritto di voto, mentre la legislazione elettorale italiana prevedeva notevoli differenze.
In una sentenza, invero assai scarna di nuove argomentazioni, il giudice di Strasburgo ha concluso che vi è stata violazione dell’art. 3 Protocollo 1 della CEDU. La constatazione dell’avvenuta violazione di un diritto convenzionale, tuttavia, secondo la Corte era stata già di per sé una sufficiente soddisfazione del danno morale subito, e non richiedeva la disposizione di un risarcimento materiale, come richiesto dal ricorrente.
Il tipo d’infrazione commesso, la tipologia della pena comminata, e la durata della condanna, sono variabili determinanti e legittimanti un intervento differenziale del legislatore rivolto ad introdurre delle limitazioni, che configurano una cittadinanza politica variabile tra le categorie di detenuti. Tra gli ordinamenti che prevedono un’interdizione automatica e generalizzata del diritto di voto per i detenuti e quelli che sfumano tale interdizione sulla base delle variabili suddette, dunque, si hanno molteplici sfumature. Il margine di apprezzamento degli Stati si muove lungo questo crinale e incontra, nella materia elettorale, una modulazione particolarmente elastica e ampia. Riprendendo un’argomentazione nota, la Corte ha ricordato in via generale che “Esistono numerosi modi di organizzare e di far funzionare i sistemi elettorali e una molteplicità di differenze all’interno dell’Europa in particolare nell’evoluzione storica, nella diversità culturale e nel pensiero politico, che s’impone a ciascuno Stato contraente per essere incorporato nella propria visione della democrazia” [Hirst, § 61]. Ciò nonostante, la Corte aveva già riconosciuto che la restrizione del diritto di voto ai detenuti è “uno strumento senza sfumature, che priva del diritto di voto, garantito dalla Convenzione, un grande numero d’individui, in modo indifferenziato” [Hirst, §62; poi ripresa in Frodl v. Austria, Ric. N. 20201/04].
L’argomento sollevato dal Governo italiano, tuttavia, merita una particolare attenzione. L’interdizione dai pubblici uffici, difatti, è una pena accessoria prevista per un insieme di delitti che comportano “un’attitudine alla rottura del contratto sociale da parte dell’autore” [§29]. Tale attitudine, dunque, legittima un intervento dello Stato limitativo di un diritto fondamentale, e giustifica l’esclusione dell’autore del crimine dal circolo dei cittadini attivi e partecipi alla vita pubblica. Quasi a dire, in altre parole, che il diritto di partecipazione politica richiede come requisito implicito l’adesione piena e completa dei consociati al “contratto sociale”, implicando il riferimento a un requisito di rettitudine morale. La perdita della capacità elettorale per il condannato ha origini storiche lontane e rinvia alla prassi in vigore nella Grecia antica e nel diritto romano di sottrarre i diritti politici agli individui ritenuti “infami” per i delitti commessi [Fatin-Rouge Stéfanini M., Le droit de vote des détenus en droits canadien, sud-africain et conventionnel européen, Revue internationale de droit comparé, 3/2007, p. 621]. Tale argomento, tuttavia, ha perso completamente terreno dal momento in cui le Corti nazionali e sovranazionali – in un mutato contesto politico-filosofico – hanno rigidamente ancorato l’esercizio del diritto di voto alla persona, rendendolo corollario della dignità umana. Al contempo, la discussione sull’estensione del diritto di voto ai detenuti può apparire superflua se paragonata all’assenza o debolezza materiale di altri diritti apparentemente più immediati. E, tuttavia, proprio l’estensione del diritto di voto potrebbe permettere a coloro che hanno volontariamente rotto il contratto sociale, di rientrare a far parte della civitas, secondo una concezione rieducativa della pena e non meramente punitiva.
Il terreno dell’estensione del diritto ai detenuti è anche un’utile cartina di tornasole per evidenziare le implicazioni della circolazione del precedente giudiziario persuasivo tra paesi di estrazione giuridica anglo-americana e non. La circolazione degli obiter dicta, prima ancora che della ratio decidendi, difatti, è ormai consapevole se si considera che nell’elenco della giurisprudenza citata nella sentenza Sauvé della Corte suprema canadese, riportato alla pagina 13 della sentenza, si trova citato il caso August v. Electoral Commission, della Corte costituzionale sudafricana
Il Presidente della Corte suprema del Canada, la giudice Beverly McLachlin, riconosceva nella sentenza Sauvé che “la storia della democrazia corrisponde a quella della concessione progressiva del voto. Il suffragio universale costituisce oggi un elemento essenziale della democrazia. A partire dalla nozione secondo la quale solo poche persone meritevoli (molto spesso secondo dei criteri come la classe sociale, la proprietà e il sesso) possono votare, si è progressivamente sviluppato il principio moderno che vuole che tutti i cittadini abbiano il diritto di voto in quanto membri della città. La marcia costante del Canada verso il suffragio universale è culminata nel 1982 con la costituzionalizzazione dell’articolo 3 della Carta”) [§ 33].
Così senza mezzi termini, nella sentenza Sauvé, in cui il giudice canadese è stato chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità dell’art. 51 della legge elettorale che privava i detenuti del diritto di voto con l’art. 3 e con il par. 15.1 della Carta canadese dei diritti e delle libertà, ha riconosciuto che “l’idea secondo la quale determinate persone non sono moralmente adatte a votare e a partecipare al processo di elaborazione delle leggi, o moralmente degne di farlo, è antica e desueta” [§ 43], capovolgendo, in poche righe, i fondamenti del pensiero filosofico, politico e sociale dall’antichità ai nostri giorni e dichiarando la disposizione in oggetto contraria alla Carta.
Una volta attribuito al diritto di voto un simile posto nell’architettura degli ordinamenti liberal-democratici, il giudice costituzionale canadese ha ripreso fedelmente il ragionamento del giudice sudafricano Albie Sachs, riconoscendo l’importanza del suffragio universale come un simbolo della dignità e della persona [§ 35]. Nelle parole del giudice sudafricano, difatti, “L’estensione universale del suffragio è importante non solo per la nazionalità e per la democrazia. Il voto di ciascun cittadino è un simbolo di dignità e dell’appartenenza al genere umano. Quasi letteralmente, ammette che everybody counts” [§ 17]. Il dilemma sul confine di “universale” si deve risolvere, dunque, con un’interpretazione giudiziale che vada sempre nella direzione dell’enfranchisement piuttosto che del disenfranchisement [§17].
L’inammissibilità della limitazione del diritto di voto sulla base dell’assenza di una “qualità morale”, dunque, diviene principio comune agli ordinamenti democratici contemporanei, informati al valore della dignità umana.