Il “dialogo” secondo il New York Times, e la “declinante influenza” della Costituzione americana.

La cosa avrà senz’altro colpito molti degli studiosi. Quasi venticinque anni dopo l’icastico titolo del Time, che nel 1987, nel bicentenario della Costituzione americana, la celebrava come “Gift to all nations” (http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,964901,00.html), ecco la Magna Carta di Filadelfia di nuovo assurgere agli albori della pubblicistica.

Stavolta l’atmosfera è ben diversa, e gli intenti molto più critici. Il New York Times (http://www.nytimes.com/2012/02/07/us/we-the-people-loses-appeal-with-people-around-the-world.html?_r=4&hp) prende spunto da una ricerca che da qualche mese circolava sulle nostre scrivanie, quella di David Law e Mila Versteeg (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1923556), legata al progetto Comparative Constitutions (http://www.comparativeconstitutions.org), e di lì muove per riflettere sulla “declinante influenza” della Costituzione americana come modello genericamente comparatistico.

Se nel 1987 infatti 160 delle 170 carte costituzionali del mondo erano “modellate direttamente o indirettamente sulla versione americana”, questo processo di assimilazione si sarebbe secondo gli autori interrotto tra gli anni ’80 e gli anni ’90, rendendo la “supreme law of the land” una sorta di “Windows 3.1”, cui nessuno più volge la propria attenzione in cerca d’ispirazione quanto a formule organizzative e istituti caratteristici.


Occorre premettere che le perplessità dello studioso di formazione giuridica rasentano talvolta, di fronte a simili riflessioni, il luogo comune. Lo studio di base indulge infatti all’analisi quantitativa più che a quella qualitativa (“Its authors coded and analyzed the provisions of 729 constitutions adopted by 188 countries from 1946 to 2006, and they considered 237 variables regarding various rights and ways to enforce them”). L’articolo rasenta invece l’aneddotica: ma ha il merito di divulgare e riportarci con stile accattivante le nuove riflessioni d’oltreoceano, rinvigorite dopo la recente intervista in cui la giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg ha sconsigliato il modello costituzionale americano ai nuovi riformatori egiziani, puntando il dito piuttosto verso “la Costituzione sudafricana, la Carta canadese dei diritti e delle libertà e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo” (http://www.youtube.com/watch?v=vzog2QWiVaA), aizzando contro di sé le polemiche (http://volokh.com/2012/02/03/u-s-justices-foreign-statements-about-the-u-s-constitution/).

Insomma, può darsi che la critica al taglio statico dell’analisi sia doverosa, nel paese che per primo, fisiologicamente, ha teorizzato la “living constitution” come dinamico e diacronico contesto d’interpretazione del proprio testo fondamentale. E un’indagine di questo genere può risultare eccessivamente ingenerosa nei confronti di uno dei testi che hanno incarnato, per dirla con Giuseppe Floridia, il prototipo della “costituzione dei moderni” (id., La costituzione dei moderni. Profili tecnici di storia costituzionale, Giappichelli, 1991).

Ma oltre all’indubitabile interesse per le conclusioni della ricerca, sulle quali già la dottrina più attenta ai processi di transizione costituzionale ci aveva avvertito (si pensi solo alle fondamentali riflessioni sui cd. “cicli costituzionali” in G. de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, 2011, pp. 312 ss.), rimane la curiosità per le modalità con cui queste vengono presentate, a maggior ragione in vista della loro propalazione a un pubblico più ampio rispetto a quello degli specialisti. Questo può essere vero soprattuto in questa sede, nascendo diritticomparati.it come luogo di attenta analisi dei processi di “globalizzazione giuridica” e di “dialogo tra le giurisprudenze”, in connessione con l’“esigenza di storicizzazione e contestualizzazione dell’analisi comparativa”.

E allora, si noti come agli apprezzamenti in merito alla fisiologica senescenza del testo americano, alla sua nota laconicità, alla previsione di fattispecie marginali (il porto d’armi è l’esempio de rigueur), e alle storiche difficoltà d’emendamento tramite formale revisione costituzionale, si giustapponga con una certa risolutezza e ripetitività la menzione della ritrosia del giudice (o del giurista?) statunitense nei confronti del mantra post-moderno del “dialogo”, come nuova forma tipizzata di “eccezionalismo”, tanto nello studio di base quanto nell’articolo divulgativo.

There are growing suspicions (…) that America’s days as a constitutional hegemon are coming to an end. It has been said that the United States is losing constitutional influence because it is increasingly out of sync with an evolving global consensus on issues of human rights. Indeed, to the extent that other countries still look to the United States as an example, their goal may be less to imitate American constitutionalism than to avoid its perceived flaws and mistakes. Scholarly and popular attention has focused in particular upon the influence of American constitutional jurisprudence. The reluctance of the U.S. Supreme Court to pay “decent respect to the opinions of mankind” by participating in an ongoing “transnational judicial dialogue” is supposedly diminishing the global appeal and influence of American constitutional jurisprudence”.

Law e Versteeg, dopo aver lanciato il sasso e mosso su queste basi la consueta accusa di campanilismo al proprio paese, volgono lo sguardo alla ricerca dei nuovi “competitors” degli Stati Uniti per la corona di paradigma costituzionale: una rassegna che prende in considerazione le costituzioni del Canada (che Aharon Barak suggerisce al NY Times come nuova primaria fonte d’ispirazione transnazionale), del Sudafrica, della Germania, dell’India, e delle nuove carte dei diritti d’origine internazionale, tutte ormai “maggiormente simili”, “statisticamente”, alle altre carte costituzionali del globo, e pertanto tutte suggerite come “statisticamente” più influenti.

Il giudice Michael Kirby (il “great dissenter” australiano) vede in quest’ottica, all’orizzonte, un’America in pericolo di “stagnazione” giuridica (“America is in danger, I think, of becoming something of a legal backwater”); Barak già nel 2002, ricorda l’articolo, avvertiva nel proprio Foreword alla Harvard Law Review come la Corte Suprema americana stesse perdendo il proprio ruolo centrale “tra le corti delle moderne democrazie” (http://www.scribd.com/doc/36239586/A-Judge-on-Judging).

Rifiutare, insomma, più o meno intensamente, la “facoltativa interazione” con altre giurisdizioni, e altri ordinamenti, può condannare una superpotenza mondiale, antesignana del costituzionalismo, all’insularità politica, e a una sorta di ancillarità nel mondo del diritto globale?

Se si è consapevoli della complessità del tema e delle generalizzazioni in questi anni compiute in materia di cd. transjudicial communication (per usare il termine, che sembra più generale, di A.M. Slaughter, e riferendosi anche alla bella recensione di Giorgio Repetto allo studio di de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti, 2010, https://www.diritticomparati.it/2010/11/il-punto-su-dialogo-e-comparazione-osservazioni-su-oltre-il-dialogo-tra-le-corti-di-giuseppe-de-verg.html), è difficile negare l’impressione per cui studi che sembrano ambire all’evidenza numerica per dinamiche ad alto tasso di volatilità storica, pur nel grande interesse per certi risultati, finiscano per “provare troppo”.

Essendo difficile trarre conclusioni apodittiche su questi temi, rimane forse solo spazio, più modestamente, per qualche supplementare consiglio di lettura.

Un possibile suggerimento è infatti quello di affiancare a simili ricerche altre interessanti analisi di natura storica e prospettica (seppur di tutt’altro genere), come ad esempio lo studio che David Fontana ha recentemente dedicato alla alterne fortune degli studi costituzionali comparatistici negli Stati Uniti (id., The Rise and Fall of Comparative Constitutional Law in the Postwar Era, Yale Journal of International Law, 2011, 36: 1–53). Ovvio, non si troverà in questa sede alcuna risposta di palmare evidenza, né alcun responso statisticamente provato in merito alla “tenuta” della Costituzione americana rispetto ai fenomeni della globalizzazione. Ma si potrà forse cogliere qualche particolare consonanza – anche temporale – con la più ampia analisi promossa dal NY Times, scoprendo le linee di tendenza nello studio del diritto pubblico comparato negli Stati Uniti, tra interesse accademico, primi utilizzi giudiziari, ossessioni politiche e financo minacce di impeachment per i giudici più “dialogici”.

Secondo l’Autore, un vaglio delle pubblicazioni nelle maggiori riviste scientifiche e dei corsi tenuti nella maggiori università d’oltreoceano ci riporta la realtà di un paese che, sin dall’immediato dopoguerra fino agli anni ’70, accettò con entusiasmo le aperture transnazionali dei propri studiosi di diritto pubblico, in buona parte dovute alle esperienze personali di questi. Dopo l’avvento della Corte Warren, e per via del preminente influsso giuridico e politico di questa e dei propri operatori negli anni a venire, gli influssi comparatistici ebbero a decrescere: il diritto costituzionale americano conobbe alcuni dei suoi più celebrati esperti in quell’epoca, quali giudici o quali giovani clerks e prossimi docenti, ma inevitabilmente si ripiegò su se stesso e sulle proprie “academic obsessions”, crescendo al suo fianco la sola specifica dottrina del diritto internazionale pubblico à la americane.

Just as quickly as comparative constitutional law came to prominence in American law schools, starting in the early 1970s it began to disappear” (in coincidenza con la “declining influence” di Law e Versteeg): che l’apertura al dialogo sia fatta allora anche di formazione, oltre che di formale “citazione”?