Ancora sulle lois memorielles: la parola del Conseil constitutionnel sull’antinegazionismo
Anche il giudice costituzionale francese ha avuto l’occasione tanto attesa: con la decisione n. 2012-647 DC, il Conseil constitutionnel ha censurato la legge che avrebbe punito la contestazione dell’esistenza di quei fatti riconosciuti come genocidi dalla legge francese, inserendosi cosi finalmente nel dibattito mondiale sulla compatibilità costituzionale delle normative antinegazionismo.
Legislatori (sia quelli nazionali che quello internazionale) e Corti costituzionali sono entrambi protagonisti di un dialogo vivace dalle virtualità transnazionali sull’opportunità di accogliere o meno all’interno della cornice costituzionale le normative che, seppur con sfumature diverse, reprimono quelle manifestazioni del pensiero che negano, o più in generale contestano, l’avvenimento di fatti qualificati come genocidio. Dialogo che ha assistito da un lato ad una tendenza, in particolare manifestatasi nel contesto europeo, verso una sorta di schizofrenia legislativa, in cui i governi si sono profusamente impegnati nella lotta contro i più insidiosi fenomeni di razzismo (spesso guidati dalla spinta proveniente dall’Unione europea, autrice di numerosi provvedimenti – vincolanti e non – diretti alla lotta contro ogni forma di discriminazione razziale), tradottasi nell’adozione di misure politiche e normative volte alla repressione non solo delle condotte di incitamento all’odio razziale ma anche alla punizione di quelle forme espressive, quali il negazionismo, accusate di nascondere, sotto l’ombrello della ricerca scientifica e storica, vere e proprie forme di discriminazione razziale. Dall’altro lato, le Corti costituzionali hanno cercato di interpretare tali normative in senso costituzionalmente orientato, spesso salvaguardando la loro legittimità e addirittura aprendo la strada al legislatore per una successiva criminalizzazione della fattispecie stessa (come accaduto in Germania, dove il Bundesverfassungsgericht, nel caso meglio conosciuto come “Auschwitzlüge” [sentenza del 13 aprile 1994 in BVerfGE 90, 1994, 241 ss.], aveva sostenuto che la negazione dell’Olocausto era un’affermazione allo stesso tempo “evidentemente falsa e sufficientemente dannosa” da giustificare un immediato intervento repressivo dello Stato, al quale ha fatto seguito nel 1994 il legislatore che è intervenuto sull’art. 130 del codice penale).
In altri casi, invece, il giudice costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tali disposizioni (così il Tribunale costituzionale spagnolo, che con la sentenza 235/2007 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 607, comma 2 del codice penale nella parte in cui prevedeva la punizione di ogni negazione di atti di genocidio, richiedendo per la legittimità della norma almeno l’idoneità della negazione a creare un clima di ostilità nei confronti del gruppo colpito).
Ventidue sono gli anni che il Conseil ha dovuto attendere – dall’entrata in vigore della loi Gayssot – per potersi pronunciare sulla compatibilità delle disposizioni antinegazionismo, ridefinendo i limiti della libertà di espressione e comunicazione garantita dall’articolo 11 della Déclaration de droits de l’homme et du citoyen del 1789.
L’occasione è stata offerta al Conseil con il ricorso presentato nei confronti della “Loi visant à réprimer la contestation de l’existence des génocides reconnus par la loi”, approvata dall’Assemblea nazionale il 22 dicembre del 2011 e dal Senato il 23 gennaio del 2012. Tale normativa prevedeva l’inserimento nella legge sulla libertà di stampa (legge del 29 luglio 1881) dell’articolo 24 ter che avrebbe previsto (trattandosi di un ricorso nell’ambito del controllo preventivo esercitato dal Conseil, la norma non era ancora entrata in vigore) la pena massima di un anno di carcere e 45.000 euro a titolo di ammenda per coloro che “contestano o minimizzano in modo oltraggioso”, indipendentemente dal mezzo utilizzato per diffondere la comunicazione – purché ovviamente si trattasse di comunicazione pubblica, non rientrando invece le comunicazioni private nella fattispecie incriminatrice – “l’esistenza di uno o più crimini di genocidio definiti dall’art. 211-1 del codice penale e riconosciuti come tali dalla legge francese”.
Il Conseil non ha avuto bisogno di fare grandi giri di parole. Con una decisione succintamente motivata, il giudice costituzionale ha rilevato in modo netto il contrasto tra la norma che avrebbe punito la contestazione dell’esistenza (solo) di quei genocidi riconosciuti dalla legge francese oltre che con la libertà di espressione, anche con il principio generale ricavabile dal combinato disposto dell’art. 6 della Déclaration del 1789, che stabilisce che la legge è espressione della volontà generale, con altre norme di valore costituzionale, secondo cui la legge deve rivestire una portata normativa.
Le poche parole utilizzate dal giudice costituzionale francese colpiscono nel vivo, centrando il cuore del dibattito circa la portata dei limiti alla libertà di espressione e il rapporto tra diritto e storia.
In particolare per quanto riguarda il primo punto, il giudice costituzionale d’Oltralpe nel sottolineare come il legislatore possa comunque disciplinare e limitare, anche mediante la previsione di sanzioni penali, l’esercizio di una libertà costituzionalmente garantita, specialmente nel caso di condotte che attentino all’ordine pubblico o ai diritti dei terzi, pone l’accento sul ruolo fondamentale svolto dalla libertà di espressione e comunicazione. Tale libertà deve intendersi quale bene ancora più prezioso quando il suo esercizio costituisce una condizione essenziale della democrazia e una delle garanzie di rispetto dei diritti e delle libertà altrui, per cui i limiti a tale libertà devono essere necessari, adeguati e proporzionati rispetto all’obiettivo perseguito.
Mentre nell’esperienza comparata, il tema del negazionismo il tema del negazionismo spesso si esaurisce nel rapporto dialettico tra libertà d’espressione, dignità umana ed eguaglianza (in Canada, ad esempio, nella sua declinazione collettiva, da intendersi come protezione della diversità culturale), l’esperienza europea ha un quid pluris, che si identifica nella relazione “diritto-storia”, veicolata dall’approvazione di numerose lois memorielles (leggi che ad esempio istituiscono le cd. giornate della memoria o che fissano una determinata ricostruzione di un fatto storico).
In questo modo il diritto si appropria di settori che appartengono ad altre scienze, nel tentativo di cristallizzare fatti storici (tendenzialmente fatti criminosi di portata storica) che altrimenti rischierebbero di cadere nell’oblio. Cosi, gli “imperativi della memoria” oltrepassano la sintesi del dialogo tra diritto e memoria essendo piuttosto l’espressione della consacrazione dei ricordi in strumenti giuridici. Essi si pongono in una posizione funzionale rispetto alla gestione della memoria in particolare in quei contesti di transizione e riconciliazione nel passaggio da un ordinamento autoritario a uno democratico e il loro obiettivo è quello di far valere eventuali responsabilità politiche e giuridiche di regimi o dittature del passato.
In Francia il tema della tutela giuridica della memoria storica è particolarmente avvertito, come dimostrato dalla sensibilità mostrata sia dal legislatore, che dalla giurisprudenza. Oltre all’approvazione della loi Gayssot (loi 90-615 del 13 luglio 1990), che aveva inserito l’art. 24 bis nella legge sulla stampa del 1881, prevedendo così la punizione della contestazione dell’esistenza dei crimini definiti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga (che distingue tra crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità) il cui autore è stato riconosciuto colpevole da un giudice francese o da una giurisdizione internazionale, è stata approvata anche la legge sul riconoscimento del genocidio armeno (loi 2001-70 del 29 gennaio 2001) e la loi Mekachera (loi 2005-158 del 23 febbraio 2005), sul riconoscimento del ruolo positivo della presenza francese oltremare, particolarmente in Africa del Nord.
In particolare, la legge del 2001 – che ha rappresentato il primo successo giuridico nell’approccio alla delicata questione del genocidio armeno – si limitava appunto al mero riconoscimento ufficiale del suo avvenimento, senza fornire alcun appiglio ad un eventuale punizione della negazione, che non era possibile nemmeno ex art. 24 bis della legge sulla stampa in quanto tale disposizione si applica solo a quei crimini definiti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga per i quali vi è già stata una condanna a livello interno o internazionale.
Già nel 2006 l’Assemblea nazionale aveva approvato un disegno di legge che avrebbe completato il sistema legislativo esistente sul genocidio armeno (si trattava di un progetto di legge volto a reprimere la contestazione dell’esistenza del genocidio armeno), ma tale proposta fu poi bloccata nel 2008 dal governo prima del suo passaggio al Senato, passaggio che ha subito una battuta d’arresto definitiva nel 2011 mediante l’adozione di una exception d’irrecevabilité.
Nonostante la situazione di impasse dalla quale il Parlamento francese pareva non riuscire ad uscire (specialmente per evidenti tensioni diplomatico-politiche con la Turchia), come visto si è dovuto attendere il gennaio del 2012 affinché il legislatore votasse con una maggioranza molto ampia una nuova proposta di legge che condannava la contestazione dei genocidi riconosciuti dalla legge dello Stato francese, incluso anche – ma non solo – quello degli Armeni.
Nel garantire la prevalenza alla libertà di espressione, il Conseil lascia sottintendere come di fronte ai discorsi negazionisti vi dovrebbe essere almeno il dubbio di una loro identificazione a priori con un presunto contenuto razzista. Ed è proprio su tale dubbio che si gioca la partita. Infatti, il legare una fattispecie penale alla negazione di un fatto storico il cui avvenimento è consacrato in un atto normativo, lasciato alla volontà della maggioranza politica di un determinato momento storico, non garantisce protezione alcuna a quei valori, quali la dignità e l’eguaglianza che sono stati il moto propulsore dell’adozione delle normative antinegazionismo.
“Le leggi devono avere portata normativa”, ricorda il Conseil, specificando poi come ad una disposizione di legge che “riconosce” un crimine di genocidio non può, per definizione, essere attribuito significato normativo alcuno che è invece proprio della legge. Da ciò deriva che punire la negazione dell’esistenza di fatti storici, qualificati come reati attraverso un riconoscimento compiuto dal legislatore medesimo, costituisce un’ingerenza ingiustificata della libertà di espressione.
Ma vi è di più. Con le lois memorielles (esempio ne sono quelle approvate finora non solo in Francia, ma anche, tra gli altri, in Italia e in Spagna) e con le stesse disposizioni antinegazionismo, il diritto si carica di una funzione ulteriore, quella di garantire l’eternità e l’immodificabilità di eventi e vicende drammatiche del passato per difendere “un passato che non deve passare”, diventando cosi il luogo della memoria, dove un diritto alla verità e un dovere di memoria trovano asilo.
Ma il diritto non deve portare la storia dentro le aule giudiziarie o quelle parlamentari e non si può piegare ad essere strumento per fissare la memoria in atti giuridici ad alto potenziale evocativo. Quello che si vuole contestare non è la carica offensiva insita nel pensiero negazionista, sulla quale non sorge dubbio alcuno, quanto piuttosto il mezzo utilizzato per contrastarlo, ovverossia la sanzione penale, rimedio estremo cui lo Stato dovrebbe ricorrere solo quando non ha altri strumenti a disposizione per affermare i suoi valori fondanti.