Brevi riflessioni sull’accordo di integrazione tra lo straniero e lo Stato italiano
La normativa introdotta dalla legge n. 94 del 2009 (il cd. “pacchetto sicurezza”) ha novellato in alcuni punti il Testo Unico sull’immigrazione (d. lgs. n. 286 del 1998) introducendo nel corpus normativo concernente il diritto degli stranieri un certo vincolo che lega la condizione giuridica di questi soggetti a misure tese, talvolta in modo esplicito, al mantenimento dell’ordine pubblico. In particolare, dallo scorso 10 maggio è entrato in vigore il cd. “accordo di integrazione”, misura che si riferisce a tutti quegli stranieri che dovendo richiedere un qualsiasi permesso di soggiorno sul territorio nazionale dovranno, secondo queste nuove procedure, sottomettere l’autorizzazione di stanzialità alla “valutazione di avvenuta integrazione”, attraverso la stipula di questa particolare fattispecie di contratto (inteso in senso amministrativo, piuttosto che privatistico) con lo Stato italiano.
Brevemente, l’accordo di integrazione si rivolge agli stranieri (art. 4-bis del T.U. n. 286/1998) i quali, al momento dell’ingresso in Italia, abbiano più di sedici anni; la sua firma è richiesta dalla prefettura o dalla questura di competenza contemporaneamente all’istanza di permesso di soggiorno. Ha una durata di due anni ed è prolungabile di un anno, ma soltanto una volta, secondo l’articolo 3 dell’atto. La conclusione di questo “contratto”, così come si legge nel preambolo dell’Accordo, dovrebbe mirare a facilitare l’integrazione, «intesa come processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio nazionale, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana», che si fonda «sul reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società». Allo stesso tempo, «per i cittadini stranieri integrarsi in Italia presuppone l’apprendimento della lingua italiana e richiede il rispetto, l’adesione e la promozione dei valori democratici di libertà, di eguaglianza e di solidarietà posti a fondamento della Repubblica italiana».
L’obiettivo da conseguire nel corso dei due anni, finalizzato alla permanenza sul territorio italiano regolarmente, è subordinato al raggiungimento di “crediti” necessari (30 al momento della scadenza) e, secondo quanto si legge nell’ultima circolare del Ministero degli Interni, l’eventuale esclusione dal provvedimento di espulsione potrà essere applicata solo ad alcuni soggetti titolari di permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari, per motivi familiari, di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, di carta di soggiorno per familiare straniero di cittadino dell’Unione europea, nonché degli stranieri titolari di altro permesso di soggiorno che abbiano esercitato il diritto al ricongiungimento familiare.
Detto istituto, presente anche in altri ordinamenti europei (Germania, Svizzera, Francia, Regno Unito) in ambito nazionale, ha subito un iter tortuoso, sia in fase parlamentare che in fase di creazione delle procedure. Sin dal principio, tale disciplina si è dimostrata particolarmente inidonea con quel che generalmente riguarda la condizione giuridica dello straniero; si ricordi, infatti, che sull’art. 10 c. 2 della Costituzione italiana pesa il vincolo derivante da una riserva di legge rinforzata. Non si può non notare, d’altra parte, che detta modifica del T.U. sull’immigrazione non può che concretizzarsi con una serie di regolamenti e circolari attuative che, a nostro modestissimo avviso, contribuiscono (seppur in parte) a quel processo di estrema amministrativizzazione del settore riguardante gli stranieri. Sul concetto di integrazione, poi, ci sembra quantomai debole e poco esaustivo il semplice richiamo che l’art. 4 bis opera alla cd. Carta dei valori. Tale documento, redatto da un comitato scientifico nominato dal Ministero degli Interni, contiene una vasta serie di dettami (a dir la verità, più approfonditi in Costituzione e nella giurisprudenza della Corte costituzionale) che dovrebbero sintetizzare tutto ciò che si richiede ad un “non cittadino” per poter essere considerato come “integrato”. Prescindendo dalle già soventi critiche di poca effettività di questa Carta, tale meccanismo ci appare come poco convincente e, per certi versi, tendenzialmente conflittuale con un ordinamento che, già all’art. 2 della Costituzione, si pone come pluralista e rispettoso di tutta una serie di diritti fondamentali che si riconoscono in capo alla persona umana. La stessa sistemazione dei valori costituzionali in un documento sintetico che dovrebbe operare come “cartina di tornasole” potrebbe entrare in contrasto non solo con l’effettiva condivisione di tali dettami da parte del soggetto, bensì assumere un carattere impositivo e controproducente per l’obbiettivo perseguito dall’accordo. È ciò che potrebbe riassumersi con il concetto di “integrazione forzata”.
Questi rilievi partono da una concezione differente e più articolata di “comunità nazionale”. Se si sceglie di affrontare in modo risolutivo il tema dell’integrazione, è necessario, in primis, distinguere tra “identità nazionale” e “appartenenza politica”, laddove la prima (secondo Habermas) si riferisce al sentimento di provenienza etnico-culturale e si fonda quindi sull’omogeneità della discendenza, mentre la seconda si riferisce alla comunità politica (per noi, lo Stato) come associazione di cittadini liberi ed eguali, che aderiscono liberamente ai suoi principi, a prescindere da ogni criterio di ascrizione quale la nascita o la residenza. È proprio questa libera adesione che ci sembra poco riscontrabile in uno strumento che, in realtà, dovrebbe facilitare il già difficile “incontro tra valori”. Solo con l’assimilazione di tali aperture, che sono proprie del costituzionalismo contemporaneo e che dovrebbero garantire una migliore concezione della pluralità, si potrà definitivamente abbandonare la costante natura di “obbligo” che attanaglia ormai da anni l’inclusione dello straniero, per riaffermare il più semplice concetto di integrazione come “diritto”.