Hosanna-Tabor Evangelical Lutheran Church and School, Petitioner v. Equal Employment Opportunity Commission et Al.: “Ministerial exception” e tutela del singolo sul luogo di lavoro al vaglio della Corte Suprema
Lo scorso 11 gennaio la Corte Suprema statunitense ha emesso un’importante decisione in tema di ricorsi per asserita discriminazione in materia di impiego proposti dai ministri di culto avverso l’organizzazione religiosa di appartenenza, dichiarandone la relativa inammissibilità ai sensi del Primo Emendamento alla Costituzione federale. La Corte ha avuto l’occasione di pronunciarsi per la prima volta in merito ad uno dei profili indubbiamente più delicati ed attuali riguardanti il diritto di libertà religiosa quale tutelato dal First Amendment, quello, cioè, del rapporto tra autonomia dei raggruppamenti religiosi e tutela dei lavoratori impiegati nelle strutture a quelli appartenenti o da quelli gestite.
La ricorrente presso la Corte Suprema, Hosanna Tabor Evangelical Lutheran Church and School (di seguito, Hosanna-Tabor) è una congregazione parte del Sinodo della Chiesa Luterana del Missouri, la seconda maggiore denominazione luterana negli Stati Uniti, avverso cui un’insegnante nella relativa scuola, la sig.ra Cheril Perich, aveva intentato un’azione legale presso la Equal Employment Opportunity Commission (di seguito, EEOC) – parte convenuta nel giudizio innanzi alla Corte Suprema – lamentando un licenziamento per asserita discriminazione sul luogo di lavoro. La donna – assunta come “lay teacher” presso la predetta struttura nel 1999 ed ottenendovi successivamente, ossia dopo aver completato un apposito “colloquy program” in studi teologici all’interno di un college luterano, la qualifica di insegnante “con vocazione” (“called teacher”) – si era vista, infatti, comunicare il licenziamento il 22 febbraio del 2005 al ritorno nella scuola dopo un anno di congedo a causa della narcolessia che le era stata precedentemente diagnosticata. Per quanto la congregazione dei fedeli – perplessa circa l’effettiva idoneità fisica della donna al lavoro – avesse inizialmente cercato una soluzione conciliatoria alla questione, chiedendo alla Perich le proprie dimissioni da insegnante “con vocazione” (“a ‘peaceful release’ from her call”), e parimenti offrendo di pagare, come contropartita a tale rinunzia, parte delle spese assicurative da quella sostenute per la propria malattia, la convenuta aveva egualmente deciso di adire le vie legali, ritenendo di aver subito una discriminazione contraria all’American with Disabilities Act del 1990. Quest’ultimo, assieme al Civil Rights Act del 1964 e all’Age Discrimination in Employment Act del 1967, costituisce uno dei tanti risultati dell’espansione della legislazione federale in tema di protezione degli individui contro le discriminazioni operate sul luogo di lavoro, legislazione che è venuta progressivamente sfidando quella assoluta posizione di guarentigia delle formazioni sociali religiosamente qualificate così come delineata nella Free Exercise Clause del Primo Emendamento, per cui queste ultime vantano “an indipendence from secular control or manipulation – in short, power to decide for themselves, free from state interference, matters of church government as well as those of faith and doctrine” (v. Kedroff v. St. Nicholas Cathedral 344 US 94, 116, 1952).
Le Corti d’Appello statunitensi, in particolare – a differenza del giudice supremo che, come osservato nella sentenza qui in commento, “until today … have not had occasion to consider whether this freedom of a religious organization to select its ministers is implicated by a suit alleging discrimination in employment” – si sono a lungo confrontate con le diverse problematiche poste dalle anti-discrimination laws al diritto costituzionale che, sulla scorta della lezione dei padri costituenti, è andato configurando la libertà religiosa anzitutto come un limite al potere politico, per tal via costituzionalmente privato di alcun ruolo “in filling ecclesiastical offices”. Attraverso numerose e contrastanti pronunce, cui in tale sede è possibile solo brevemente far cenno, riguardanti la tensione sempre aperta tra due diritti di libertà parimenti tutelati dall’ordinamento giuridico – naturale riflesso del conflitto mai risolto fra la configurazione individuale e quella collettiva degli stessi – alle Corti d’Appello è cioè spettato disegnare i contorni precisi di quella “statutory exception” di cui alla sezione 702 del Civil Rights Act (un modello poi seguito da altre leggi in materia, sia federali che statali, come, appunto, l’American with Disabilities Act invocato nella decisione in oggetto), pensata dal legislatore federale proprio al fine di risolvere le problematiche cui prima ci si riferiva. Rinveniente la propria ratio nel First Amendment, l’eccezione in commento riconosce ad un’organizzazione religiosa – diversamente da quanto prescritto per la generalità dei consociati dal Titolo VII del Civil Rights Act (secondo cui non è consentito ad un “employer to fail or refuse to hire or to discharge any individual, or otherwise to discriminate against any individual with respect to his compensation, terms, conditions or privilege of employment, because of such individual’s race, color, religion, sex, or national origin”) – il diritto di impiegare “individuals of a particular religion to perform work connected with the carrying on … of its activities”. A complemento di quanto descritto, in particolare, le Circuit Courts hanno sviluppato la nozione di “ministerial exception”, che preclude l’applicazione della normativa antidiscriminatoria qui riferita ai ricorsi aventi ad oggetto “the employment relationship between a religious institution and its ministers”. Tuttavia, da quando tale eccezione fu per la prima volta delineata in McClure v. Salvation Army (5th Circuit, 1972) – che riconobbe il carattere vitale che per un’istituzione religiosa riveste la peculiare relazione instaurata con i propri membri (“the relationship between an organized church and its ministers is its lifeblood”, 558), con la conseguenza che l’applicazione delle disposizioni di cui al citato Titolo VII “to the employment relationship which exists between … a church and its minister, would … cause the State to intrude upon matters of church administration and government” (560), che il Primo Emendamento preclude – l’approccio mostrato dalle Corti circa l’individuazione del test da adottarsi al fine di stabilire quali individui impiegati presso strutture religiose possano farsi rientrare entro la figura del “ministro di culto” è stato particolarmente discontinuo.
La decisione qui discussa della Corte Suprema è intervenuta proprio su questo terreno, ribaltando all’unanimità la pronuncia della Corte d’Appello del 6° Circuito (EEOC v. Hosanna Tabor, 2010) che, pur riconoscendo l’esistenza dell’eccezione ministeriale, aveva poi concluso nel senso della sua non applicabilità al caso di specie, non potendo la ricorrente qualificarsi come un ministro di culto. Al contrario, la Corte Suprema – dopo aver ripercorso, nella opinion principale, redatta dal Chief Justice Roberts, alcuni dei momenti salienti della lunga e travagliata storia della libertà religiosa in Inghilterra e negli Stati Uniti, a far tempo dalla Magna Charta libertatum, dove Re Giovanni giunse a riconoscere che “the English Church shall be free, and shall have its rights undiminished and its liberties unimpaired” – non solo ha ribadito l’assoluta autonomia di cui i gruppi religiosi godono “in choosing who will preach their beliefs, teach their faith, and carry out their mission”, per cui “when a minister who has been fired sues her church alleging that her termination was discriminatory, the First Amendment has struck the balance for us. The Church must be free to choose those who will guide it on its way”; ha deciso di farlo, altresì, nella maniera più garantista possibile sotto il profilo della tutela di quella stessa autonomia. La Corte Suprema ha applicato, cioè, al caso di specie non certo il “primary duties” test fatto proprio da alcune Corti (ad esempio le Corti d’Appello del terzo, del quarto e del sesto Circuito) – in ossequio al quale ricadono nella sfera di operatività della ministerial exception quei lavoratori all’interno di un’organizzazione religiosa le cui principali mansioni ricomprendano “teaching, spreading the faith, church governance, supervision of a religious order, or supervision or participation in religious ritual and worship” e che siano, inoltre, “important to the spiritual and pastoral mission of the church” (v. Rayburn v. Gen. Conference of Seventh-Day Adventists, 4th Circuit, 1985) – quanto più quello, maggiormente inclusivo, secondo cui può ritenersi “ministro di culto” ai sensi della “ministerial exception” qualunque “‘employee’ who leads a religious organization, conducts worship services or important religious ceremonies or rituals, or serves as a messenger or teacher of its faith” (Justice Alito, concurring). In tal senso, Cheril Perich, a giudizio della Corte Suprema, è un “minister within the meaning of the exception”, anche se svolgeva solo per 45 minuti della sua giornata lavorativa attività propriamente religiose, dedicando il tempo restante all’insegnamento di “secular subjects” (v. Justice Alito, concurring: “While a purely secular teacher would not qualify for the ‘ministerial exception’, the constitutional protection of religious teachers is not somehow diminished when they take on secular foundations in addition to their religious ones”). Una differente determinazione nel senso prospettato dalla Corte d’Appello del Sixth Circuit – che aveva considerato “the relative amount of time Perich spent performing religious functions as largerly determinative” – si sarebbe chiaramente risolta, secondo la Corte Suprema, in una violazione delle clausole costituzionali in materia di libertà religiosa, intesa quale libertà di autogoverno e di giurisdizione delle confessioni religiose.
Certamente consapevole della preoccupazione che l’eccezione in argomento possa giungere al punto di proteggere i gruppi religiosi in una misura eccessiva, specie quando siano in gioco diritti fondamentali della persona umana (si veda Tomic v. Catholic Diocese Peoria, 7th Circuit, 2006, in cui fu dichiarato che la ministerial exception non è applicabile lì dove i dipendenti siano sottoposti a punizioni corporali o costretti a compiere atti penalmente perseguibili), il giudice costituzionale ha sottolineato di non aver voluto esprimere, attraverso tale decisione, alcuna posizione “on whether the exception bars other types of suits”.
Tale affermazione sembra parzialmente attenuare, in chiusura, le rigidità di una dottrina, quale appunto quella dell’eccezione ministeriale – sviluppatasi come logica propagazione di un principio immanente alla libertà religiosa collettiva e, dunque, tradottasi in un rigoroso self-restraint da parte dei giudici statunitensi – che altrove (il riferimento è, in particolare, alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) ha ricevuto interpretazioni affatto peculiari. Intervenendo solo di recente sulla vexata quaestio delle libertà del singolo all’interno di strutture ideologicamente organizzate (si vedano, nella specie, Lombardi Vallauri c. Italia, 20 ottobre 2009, Obst c. Germania, 23 settembre 2010, Schüth c. Germania, 23 settembre 2010 e Siebenhaar c. Germania, 3 febbraio 2011), la Corte di Strasburgo, pur rimanendo fedele al principio (oggetto di particolare tutela nell’ordinamento tedesco) di autonomia delle “organizzazioni di tendenza” (Tendenzbetriebe) nella gestione dei rapporti con i propri dipendenti (così, in particolare, in Obst c. Germania e Siebenhaar c. Germania), ha introdotto, parallelamente, alcuni limiti – quali, ad esempio, il rispetto di uno standard minimo di garanzie procedurali (ad esempio, possibilità di esercizio di un contraddittorio, Lombardi Vallauri c. Italia) e quello del diritto alla vita privata e familiare (Schüth c. Germania), di cui, rispettivamente, agli artt. 6 e 8 della Convenzione Europea – i quali sembrano restituire una maggiore dignità all’individuo lavoratore, il sacrificio delle cui libertà, in difesa dell’autenticità della tendenza, potrà dunque ritenersi legittimo fintantoché i fatti inerenti alla vita privata di questi, all’origine del licenziamento, abbiano uno specifico rapporto con il contenuto delle mansioni presso quella svolte.
Non è qui consentito soffermarsi nello specifico sulle pronunce citate della Corte di Strasburgo e sulle diverse questioni da esse sollevate, ma è indubbio che esse contribuiscano, accanto ed oltre alla sentenza della Corte Suprema oggetto di analisi nel presente contributo, a portare in superficie la complessità intrinseca del diritto di libertà religiosa, la tutela del cui profilo collettivo ed istituzionale non può mai spingersi fino al punto di rappresentare, nel panorama complessivo delle diverse articolazioni sociali dell’ordinamento giuridico statale, una sorta di “zona franca”, tale da giustificare cedimenti nella tutela dei diritti della persona (si veda sul punto F. Margiotta Broglio, Rilevanza dei comportamenti interni delle formazioni sociali con finalità religiosa nell’ordinamento statuale, in Studi in onore di U. Gualazzini, II, Milano, 1981). E in un contesto multiculturale quale quello attuale, in cui le religioni, per utilizzare un’efficace espressione di Silvio Ferrari, sembrano aver perduto quella “presunzione di innocenza” ad esse precedentemente accordata (Silvio Ferrari, Libertà religiosa e sicurezza nazionale in Europa dopo l’11 settembre, in Quad. dir. pol. eccl., 2005, 1), la lotta tra questi contenuti storicamente opposti della libertà religiosa sembra solo destinata ad aumentare. Ai tribunali costituzionali, chiamati, nell’“incessante divenire della società … a ricollocare quotidianamente … le regole rispetto al particolare” (così Roberto Mazzola, La convivenza delle regole. Diritto, sicurezza e organizzazioni religiose, Milano, 2005), spetta il difficile compito di darne un pur parziale tentativo di risoluzione che, nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali del singolo finanche all’interno delle formazioni sociali religiosamente orientate, non sacrifichi, ciò nonostante, quel principio dell’incompetenza statuale in spiritualibus, tanto caro alla tradizione statunitense ove “religious bodies have been the preeminent example of private associations that have ‘act[ed] as critical buffers between the individual and the power of the State” (Justice Alito, concurring, citando Roberts v. United States Jaycees, 468 US 609, 619, 1984). La decisione della Corte Suprema qui analizzata costituisce un ulteriore tassello in tal senso.