Nuove misure per combattere la pirateria: l’istituzione di corti speciali somale
I recenti episodi di pirateria marittima ed il caso dei sei marò della Marina militare italiana imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie, che navigava al largo delle coste indiane, hanno riportato all’attenzione delle cronache un fenomeno che viene considerato ancora oggi un crimine tra i più odiosi: la pirateria marittima. Da sempre gli Stati si sono adoperati per porre in atto misure volte alla prevenzione e alla repressione della pirateria, considerata un crimine internazionale. Si tratta infatti, di un fenomeno presente fin dall’antichità che si è protratto nei secoli, sino a giungere ai giorni nostri (Cicerone nel De Officis, III, definì i pirati hostis humani generis).
Alla pirateria si applica il principio della giurisdizione universale (Gentili, Hispanicae advocationes, II, New York, 1921, p. 53 e ss.): si tratta infatti di un crimine che coinvolge la collettività degli Stati e per il quale risulta difficile attribuire la giurisdizione esclusiva allo Stato di bandiera della nave (senza considerare il fatto che spesso poi la nave pirata non è registrata in alcuno Stato).
La necessità di uno strumento volto alla tutela dei mari a livello internazionale ha indotto i redattori della Convenzione di Montego Bay del 1982 ad occuparsi anche della pirateria, provvedendo anzitutto a fornirne una definizione (la Convenzione agli articoli 100, 101 e 105 dà una nuova definizione del fenomeno – riprendendo quella data in precedenza dalla Convenzione di Ginevra concernente l’alto mare del 29 aprile 1958 – e pone le basi per la cooperazione nella sua repressione tra gli Stati contraenti).
La Convenzione di Montego Bay del 1982 costituisce il principale testo normativo di riferimento del diritto internazionale marittimo dei nostri giorni e ha fornito in passato il quadro di riferimento per le misure di contrasto alla pirateria marittima. Tra gli strumenti più recenti, offerti dal diritto internazionale in materia e volti all’integrazione dei mezzi di tutela dei traffici marittimi indicati nella Convenzione, figurano numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Prima di giungere alla ris. 2015 (2011) del 24 ottobre 2011 (consultabile al sito www.un.org), che prevede la possibilità di istituire Corti anti-pirateria in Somalia, il Consiglio di sicurezza ha emanato altre risoluzioni che hanno innovato gli strumenti di repressione della pirateria. Anche se il Consiglio di sicurezza non è arrivato a qualificare la pirateria come minaccia per la sicurezza internazionale in senso stretto, preferendo considerarla come un fattore destabilizzante per la pace internazionale (in relazione al contesto specifico nel quale si trova lo Stato somalo), è rilevante il fatto che abbia deciso di abolire la distinzione tra acque territoriali e alto mare. Con la risoluzione 1816 (2008) (Consiglio di Sicurezza, risoluzione n. 1816 (2008) del 2 giugno 2008) infatti, gli Stati sono autorizzati a svolgere azione di contrasto alla pirateria, proseguendo la loro attività anche all’interno del mare territoriale somalo. Il problema del consenso dello Stato costiero, all’interno delle cui acque territoriali le navi battenti bandiera diversa non potrebbero entrare, emerge con tutta evidenza quando lo Stato costiero non può assicurare l’esercizio di attività idonee a contrastare la pirateria e necessiti dell’intervento di altri Stati: è questo il caso della Somalia, al quale sono dedicate una serie di ulteriori risoluzioni, che da un lato hanno prorogato le misure prese con la ris. 1816 (2008), dall’altro hanno introdotto misure nuove (un esempio è la risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1846 (2008) del 2 dicembre 2008, www.un.org).
Di recente, il Consiglio di sicurezza con la ris. 2015 (2011) ha espresso nuovamente le sue preoccupazioni in relazione alla pirateria somala, che viene praticata sempre più spesso al largo della acque del Golfo di Aden e che provoca gravi conseguenze sia per quanto riguarda la pericolosità delle rotte di navigazione maggiormente interessate dai traffici marittimi, sia per quanto concerne la perdita di ingenti somme di denaro connesse al pagamento dei riscatti per la liberazione degli ostaggi e delle imbarcazioni. Il Consiglio, che già in passato aveva adottato altre risoluzioni nelle quali indicava espressamente agli Stati la necessità di collaborare e la possibilità di perseguire i pirati ‘con tutti i mezzi necessari’, anche all’interno delle acque territoriali della Somalia (Consiglio di Sicurezza, risoluzione n. 1951 (2008) del 16 dicembre 2008, www.un.org) si riferisce espressamente a due delle sue precedenti risoluzioni, in particolare alla ris. 1918 (2010) del 27 aprile 2010 e alla ris. 1976 (2011) dell’11 aprile 2011 (entrambe consultabili al sito www.un.org) e pone l’accento sulla delicata situazione nella quale si trova lo Stato somalo, ribadendo la necessità di incrementare un adeguato sviluppo economico del Paese. Tale intervento è richiesto al fine di ridurre la povertà nella quale versa la popolazione locale, poiché si ritiene che le sempre più pesanti condizioni di indigenza degli abitanti della Somalia costituiscano una delle principali cause dell’aumento della pirateria. I somali infatti, decidono di compiere azioni pirata nella speranza di migliorare le proprie condizioni di vita.
La ris. 2015 (2011) si sofferma però, su un elemento importante e più precisamente sulla possibilità di istituire corti speciali per la lotta alla pirateria. Dopo una breve parte introduttiva nella quale sono descritti gli strumenti di tutela forniti dal diritto internazionale per la repressione del fenomeno – quali ad esempio la Convenzione di Montego Bay, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e il Codice di Condotta di Gibuti relativo alla repressione degli atti di pirateria e di rapina a mano armata contro le navi nella parte occidentale dell’Oceano Indiano e nel Golfo di Aden – la risoluzione si sofferma sulle decisioni prese dai singoli Stati che hanno condannato il fenomeno e che stanno adottando ed implementando misure idonee a garantire e consolidare le leggi in materia all’interno dei loro ordinamenti.
Il Consiglio ribadisce l’importanza per gli Stati di perseguire l’obiettivo di punire gli atti di pirateria, applicando il diritto internazionale nel rispetto dei diritti umani, non dimenticando di far presente che ancora oggi alcuni Paesi non hanno adottato all’interno della loro giurisdizione misure atte alla repressione del fenomeno e alla sua condanna.
In Italia, ad esempio, la pirateria marittima è disciplinata dagli artt. 1135 e ss. del codice della navigazione (approvato con R.D. 30 marzo 1942) e di recente si è lungo dibattuto sulla possibilità di introdurre servizi di sicurezza armati a bordo delle navi italiane per garantire il transito sicuro delle imbarcazioni che solcano le acque al largo della Somalia. L’utilizzo di scorte armate private da parte degli armatori italiani è stato consentito con il decreto-legge 107/2011 (d.l. 12 luglio 2011 n. 107, recante “Proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia e disposizioni per l’attuazione delle Risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011) adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Misure urgenti antipirateria”, in Gazzetta ufficiale n. 160).
Ritornando alla ris. 2015 (2011) emerge tuttavia, l’insufficienza degli sforzi compiuti all’interno dei singoli Stati per individuare e punire i responsabili di atti di pirateria. Sono ancora troppi infatti, i pirati che vengono rilasciati senza essere assicurati alla giustizia e senza essere processati. Si tratta di un grave problema se si pensa ai costi a cui sono andati incontro gli Stati che hanno organizzato complesse operazioni navali per la cattura delle navi pirata (oltre a quelle poste in atto dai singoli Stati, si ricordano la Combined Task Force 151, la Standing NATO Maritime Group 2, l’operazione Ocean Shield ed infine l’impegno profuso dall’Unione Europea con l’operazione Atalanta).
Inoltre, non essendo garantita un’effettiva tutela giurisdizionale i pirati si sentono impunemente liberi di agire, continuando a compiere atti considerati riprovevoli dalla comunità internazionale. L’omissione nel perseguire in giudizio coloro che sono sospettati del compimento di atti di pirateria minerebbe, secondo quanto riportato nella risoluzione, gli sforzi prodotti dagli Stati che si sono seriamente impegnati nella cattura di coloro che compiono tali azioni. La previsione di istituire corti speciali nelle quali verrebbero processati i presunti pirati fornirebbe un’idonea garanzia alla crescente esigenza di punire chi si macchi di un crimine così odioso.
Le corti specializzate anti-pirateria in Somalia e le modalità per la loro istituzione sono state disciplinate in una precedente risoluzione del Consiglio di sicurezza (in particolare nella ris. 1976 (2011), ai sensi del paragrafo 26, www.un.org) nella quale si affermava l’importanza di istituire alcuni tribunali speciali in Somalia e nell’intera regione interessata dagli attacchi, e di prevedere la creazione di un tribunale extraterritoriale somalo.
La conclusione alla quale si è giunti a livello internazionale di costituire corti speciali anti-pirateria in Somalia potrebbe rivelarsi un’ottima soluzione per assicurare un’effettiva tutela contro tale crimine e un’idonea garanzia per i processi ai pirati. Secondo la risoluzione, grazie alla collaborazione e al supporto forniti dalla comunità degli Stati, i processi nelle corti anti-pirateria, stanziate in Puntland e nel Somaliland, potrebbero raggiungere gli standard internazionali richiesti nell’arco di un periodo di tre anni, che si potrebbe ridurre qualora esperti o membri della diaspora somala venissero identificati e chiamati a collaborare e a fornire le loro competenze.
Le consultazioni tra le Nazioni Unite e gli Stati vicini alla Somalia e alle aree di mare nelle quali è praticata la pirateria sono viste positivamente e incentivate dal Consiglio di sicurezza. Le Seychelles, le Mauritius e la Tanzania (che ha espresso la volontà di apportare il suo aiuto alla comunità internazionale) si sono impegnate a perseguire i pirati all’interno dei loro territori dando prova di voler collaborare alla repressione del fenomeno.
Uno degli obiettivi è il coinvolgimento attivo degli abitanti della Somalia nella lotta al fenomeno e nell’accertamento della colpevolezza dei presunti pirati, allo scopo di sollecitare una maggiore consapevolezza della popolazione somala. Il Governo federale di transizione si sta spendendo positivamente nella lotta agli atti di pirateria e le sue azioni, come quelle che stanno svolgendo le autorità regionali somale, sono molto apprezzate a livello internazionale. Lo sviluppo di un piano antipirateria e di una legislazione adeguata sono solo alcuni dei prossimi impegni che la Somalia ha assunto al fine di combattere il fenomeno e di rafforzare la cooperazione a livello regionale.
Il Consiglio di sicurezza reitera nella ris. del 24 ottobre 2011 la sua richiesta al Governo federale di transizione e alle autorità pertinenti somale di predisporre ed adottare al più presto, grazie all’assistenza dell’UNODOC e dell’UNDP, apposite leggi che includano misure repressive per coloro che finanziano illecitamente, pianificano, organizzano e facilitano gli atti di pirateria e di rapina a mano armata nelle acque al largo della Somalia. Inoltre, è richiesto che sia predisposta un’adeguata legislazione affinché siano messe in atto misure idonee ad un eventuale trasferimento al di fuori del territorio somalo di coloro che sono giudicati colpevoli. Il Governo federale di transizione è tenuto a rimuovere gli ostacoli che impediscono lo svolgimento di queste attività.
L’interessamento della comunità internazionale alla pirateria è dovuto all’instabilità che questa genera negli Stati dove è praticata e nelle rotte di mare interessate dal fenomeno. Le vittime degli attacchi e lo Stato in cui vengono tenuti gli ostaggi, ai quali si sommano i costi dei riscatti pagati ai pirati, l’incremento del costo delle assicurazioni delle navi che transitano nelle zone di mare nelle quali gli attacchi sono più frequenti, le spese derivanti dalla necessità di allungare le rotte di navigazione per evitare possibili incursioni e i costi che sostengono i governi per armare le proprie flotte provocano una crescente apprensione nella comunità internazionale. Gli interventi previsti nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, in particolare nella ris. 2015 (2011), appaiono quindi opportuni e necessari, specialmente quando sanciscono l’obbligo di cooperazione per gli Stati nella determinazione della competenza giurisdizionale e nella creazione di corti speciali per la lotta alla pirateria.
Miavaldi ha notato che la missione antipirateria doveva operare in Somalia ma non in India. Perciò col senno di poi sarebbe stato più prudente tenere le armi nel bagagliaio e tirarle fuori avvicinandosi alla zona pericolosa.
Vedasi comunque http://www.questionegiustizia.it sulla complessità della giurisdizione.
Se la missione è per la sicurezza pubblica, la Marina doveva pagare l’armatore per il trasporto, mentre lui ha pagato la Marina per la protezione richiesta nel proprio interesse