La saga Scoppola v. Italia e il margine di apprezzamento degli Stati in materia elettorale. A margine della sentenza della Grande Camera del 22 maggio 2012 sul diritto di voto dei detenuti

Il 15 aprile del 2011 il Governo italiano aveva presentato ricorso avverso la pronuncia della Camera della Seconda sezione della Corte europea di Strasburgo che aveva riconosciuto all’unanimità che la limitazione del diritto di voto ai detenuti prevista dall’ordinamento italiano costituiva una violazione dell’art. 3 Protocollo 1 della Convenzione (In un precedente post siamo intervenuti a commentare la prima sentenza). In virtù dell’art. 36 della Convenzione e dell’art. 44 del Regolamento della Corte, di fronte ai giudici di Strasburgo è intervenuto anche il Governo britannico, depositando delle memorie scritte.

L’insieme dei precedenti autoritativi è ormai noto e ampiamente citato dai giudici di Strasburgo: si compone di quattro sentenze di cui due della Corte suprema canadese, la Sauvé v. Canada n. 1 del 1992, la Sauvé v. Canada n. 2 del 2002, due della Corte costituzionale sudafricana, la August v. IEC e la Minister of Home Affairs v. NICRO del 2004.

Nella sentenza in oggetto, la Corte si è spinta verso l’elaborazione di un articolato e sofisticato test di valutazione del margine di apprezzamento degli Stati in materia elettorale, con particolare attenzione alla questione della regolazione del diritto di voto dei detenuti. Di fronte alla molteplicità di soluzioni legislative adottate dagli Stati, la Corte ha adottato una logica di self-restraint limitando il suo ruolo a “determinare qualora le restrizioni concernenti tutti i prigionieri detenuti possa rientrare in un accettabile margine di apprezzamento, lasciando alle legislature la facoltà di decidere sulla scelta dei mezzi per assicurare i diritti garantiti dall’articolo 3 del Protocollo 1” (§ 85).

Attraverso un test elaborato su tre livelli, la Corte si è addentrata nella valutazione. Il primo step consiste nel valutare se la misura in oggetto si sia configurata come un’interferenza nei confronti del godimento di un diritto da parte del ricorrente. Il secondo step consiste nel valutare se l’interferenza nei confronti del diritto in questione persegua un obiettivo legittimo ed, infine, si deve valutare se pur nel perseguimento di un obiettivo legittimo le misure adottate siano proporzionate allo scopo.

Partendo dal primo step, la Corte constata in modo indiscusso che vi è stata una interferenza nel godimento di un diritto, dal momento che il ricorrente è stato privato del diritto di accesso al voto. Per quanto riguarda il secondo grado di valutazione, la Corte ribadisce, come aveva già avuto modo di sostenere, che la limitazione del diritto di voto dei detenuti può essere considerato uno strumento legittimo come deterrente nella lotta contro la criminalità, per il rafforzamento della responsabilità civica dei consociati e per il rispetto dello Stato di diritto. Anche nel giudizio sulla proporzionalità delle misure adottate, la Corte ha ribadito una posizione già consolidata, ossia che (si potrebbe aggiungere “solo”) “quando la privazione del diritto di voto concerne un gruppo di persone in modo generale, automatico e indiscriminato, basato esclusivamente sul fatto che si trovino a scontare una sentenza di incarcerazione, indipendentemente dalla durata della sentenza e dalla natura e gravità del delitto commesso e dalle circostanze individuali, si deve considerare incompatibile con l’art. 3 del protocollo 1” (§ 96).

La Corte ha spostato qualcosa anche sul versante delle argomentazioni esposte nella sentenza del gennaio 2011. Nel gennaio 2011, la Corte concludeva sollevando l’incompatibilità convenzionale della normativa italiana nel punto in cui stabiliva che la decisione di privare i prigionieri del diritto di voto doveva spettare ad un giudice, e che non poteva essere comminata in modo automatico, senza alcuna menzione della stessa nella sentenza di condanna.

Capovolgendo il giudizio della Camera, la Grande Camera ha stabilito, con sedici voti ad uno, che la normativa italiana di limitazione del diritto di voto di una determinata categoria di detenuti non costituisce una violazione del diritto a libere elezioni, riconosciuto all’art. 3 protocollo 2 della CEDU ed anzi rientra pienamente e legittimamente nella sfera del margine di apprezzamento del Governo ricorrente.

Prima di concludere, si deve osservare che il dispositivo della sentenza potrebbe avere anche delle ripercussioni sulla discussione parlamentare relativa al ddl di “Modifica dell’articolo 28 del codice penale in materia di interdizione dai pubblici uffici, in attuazione della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 18 gennaio 2011 sul ricorso n. 126/05” e riaprire il dibattito anche in Italia, come già nel Regno Unito, in occasione delle prossime elezioni politiche.